Un esercito per il Kosovo
Pristina ha ufficialmente avviato, con il sostegno degli Stati uniti, la trasformazione delle sue forze di sicurezza in forze armate. Un processo che durerà a lungo
La scorsa settimana, durante la sua visita a Belgrado, la terza in meno di un anno, il vice assistente del segretario di Stato degli Stati uniti Matthew Palmer ha fatto sapere che gli Stati uniti, pur appoggiando il proseguimento del dialogo tra Belgrado e Pristina, si sono impegnati a lavorare insieme alle autorità kosovare per trasformare le forze di sicurezza del Kosovo in un esercito. Con questa dichiarazione Palmer ha mandato un chiaro messaggio alle autorità di Belgrado: la Serbia può chiedere certe concessioni e rimandare la presa di decisioni volte alla normalizzazione dei rapporti con il Kosovo, ma Washington non è disposta ad aspettare troppo a lungo e intende intraprendere passi concreti.
Le autorità kosovare hanno ufficialmente avviato la procedura per la formazione dell’esercito del Kosovo, e la settimana scorsa il parlamento di Pristina ha adottato tre disegni di legge finalizzati a trasformare le forze di sicurezza del Kosovo in forze armate. Uno dei disegni di legge approvati prevede l’istituzione del ministero della Difesa. Le forze di polizia e gli organi giudiziari nei comuni a maggioranza serba nel nord del Kosovo sono già stati trasferiti, sulla base dell’Accordo di Bruxelles, sotto la competenza delle autorità di Pristina, e il governo kosovaro ha recentemente intensificato gli sforzi per ottenere l’adesione del Kosovo all’Interpol.
L’esistenza di un esercito nazionale è una delle ultime prerogative di uno stato sovrano che mancano al Kosovo, insieme al seggio alle Nazioni Unite. Con la decisione di dare il via all’istituzione dell’esercito le autorità di Pristina hanno dimostrato di essere in grado di compiere azioni concrete volte al rafforzamento della sovranità. Alla vigilia della visita di Palmer a Belgrado, gli Stati uniti hanno presentato alle Nazioni Unite la proposta di chiudere la missione dell’Onu in Kosovo (UNMIK), una mossa in piena sintonia con la decisione di Washington di appoggiare la creazione dell’esercito del Kosovo.
La formazione dell’esercito kosovaro sarà un processo lungo. Durante la sua visita a Belgrado, Palmer ha dichiarato che il Kosovo può contare sull’appoggio degli Stati uniti nei suoi sforzi per trasformare le attuali forze di sicurezza in un esercito, aggiungendo che “questa transizione durerà a lungo” e che Washington intende lavorare insieme ai suoi partner a Pristina per portarla a termine. L’istituzione dell’esercito del Kosovo è una questione molto delicata per la Serbia e non vi è dubbio che, insieme all’eventuale adesione del Kosovo all’Interpol, sarà percepita come una grave sconfitta del governo serbo.
Messaggi
A differenza di Pristina, Belgrado non ha molte opzioni a disposizione. La Serbia non riconosce l’indipendenza del Kosovo ed è contraria alla sua adesione alle Nazioni Unite, ma a parte lanciare appelli non può fare molto altro. “Siamo un paese troppo piccolo per poter esigere qualcosa da una superpotenza come gli Stati uniti. Possiamo solo chiedere che tengano ben presente che questo potrebbe mettere a repentaglio la pace e la stabilità e portare a conseguenze tragiche”, ha dichiarato il presidente serbo Aleksandar Vučić dopo l’incontro con Palmer, il quale lo ha informato sulla presa di posizione di Washington a favore della creazione dell’esercito del Kosovo.
Vučić continua a ripetere che non è accettabile che il Kosovo esca unico vincitore dal negoziato e che la Serbia perda tutto, ma finora i suoi appelli non hanno trovato alcun riscontro né da parte di Pristina né da parte di Bruxelles e Washington. Le autorità di Belgrado, che negli ultimi anni hanno goduto di forti simpatie delle potenze occidentali per essersi dimostrate disposte a risolvere la disputa con il Kosovo, sono sempre più sole. Dalla Serbia ci si aspetta che non ostacoli l’ingresso del Kosovo nelle organizzazioni internazionali, comprese le Nazioni Unite, ma non le viene offerto nulla in cambio, almeno non pubblicamente.
Durante un recente incontro con i rappresentanti del governo serbo, l’ambasciatore degli Stati uniti in Serbia Kyle Scott ha espresso apertamente la sua disapprovazione per l’uso della definizione “il cosiddetto stato del Kosovo”, affermando che per gli Stati uniti il Kosovo non è un “cosiddetto” stato ma uno stato sovrano che Washington riconosce come tale. Questa dichiarazione ha suscitato le forti reazioni dei funzionari del governo serbo, ma non si è andati oltre. Non è stata intrapresa alcuna azione concreta che avrebbe potuto incrinare i rapporti tra i due paesi, e la Serbia non dispone delle risorse necessarie né tanto meno gode di sufficiente sostegno internazionale per poter incidere notevolmente sulla politica condotta dagli Stati uniti nei Balcani.
Si evidenzia il fatto che Belgrado, a dire il vero, guarda impotente non solo il rafforzamento dell’indipendenza del Kosovo ma anche le vicende politiche della regione che seguono il loro corso. Il Montenegro sta avanzando nei negoziati di adesione con l’Unione europea, mentre il governo macedone è riuscito a ottenere il sostegno della maggioranza qualificata di due terzi dei deputati del parlamento per avviare l’attuazione dell’accordo con la Grecia sul cambio del nome del paese. Pertanto, l’offensiva che il presidente serbo Aleksandar Vučić aveva intrapreso negli ultimi mesi, promuovendo l’idea, alquanto vaga, di una ridefinizione del confine tra Serbia e Kosovo, ha perso vigore.
Opzioni
Al momento non è del tutto chiaro se il dialogo tra Belgrado e Pristina, condotto negli ultimi mesi, su un’eventuale demarcazione territoriale tra i due paesi, sia ancora in corso, ma è certo che la Serbia non ha definitivamente rinunciato a questa idea. Reagendo alla decisione di Pristina di avviare la procedura per la formazione dell’esercito, la premier serba Ana Brnabić ha dichiarato che si tratta di una notizia negativa che nuoce al dialogo, aggiungendo tuttavia che per la Serbia il cosiddetto “conflitto congelato” sarebbe l’opzione peggiore.
L’idea di un conflitto congelato è sostenuta dagli ambienti nazionalisti serbi e dalla Chiesa ortodossa serba, che si oppongono a qualsiasi tentativo di fare concessioni a Pristina, ritenendo che bisognerebbe “aspettare un momento più favorevole” per risolvere la questione. Il dialogo su una ridefinizione del confine tra i due paesi è stato avviato proprio allo scopo di evitare che la disputa bilaterale si trasformi in un conflitto congelato. La dichiarazione della premier serba può essere interpretata come un chiaro messaggio che le autorità di Belgrado non sono disposte ad accettare l’ipotesi di un conflitto congelato e che non hanno alcuna intenzione di tornare a insistere sul fatto che il Kosovo è parte integrante della Serbia.
“A chi critica la proposta della demarcazione sostenendo che potrebbe aprire il vaso di Pandora, rispondo molto chiaramente. Il vaso di Pandora è stato aperto dieci anni fa, nel 2008, quando gli albanesi [kosovari], o una parte di loro, hanno dichiarato unilateralmente l’indipendenza del Kosovo”, ha dichiarato la Brnabić. Questa affermazione suona come una critica nei confronti delle autorità di Pristina e della comunità internazionale, ma al contempo lascia intendere che Belgrado ancora spera di raggiungere un accordo con Pristina su una ridefinizione del confine, il che significa che di fatto (seppur non formalmente) considera il Kosovo come un territorio che non fa più parte della Serbia.
Quando si era iniziato a parlare con insistenza della cosiddetta demarcazione, le autorità di Belgrado avevano smesso di invocare il rispetto dell’Accordo di Bruxelles e di citare l’UE come il principale intermediario nei negoziati con il Kosovo, mentre i media serbi avevano cominciato a speculare sul fatto che Washington fosse sempre più coinvolta nei negoziati. Tuttavia, negli ultimi giorni Vučić è tornato a parlare del ruolo chiave dell’Unione europea nei negoziati tra Belgrado e Pristina, e questo induce a pensare che il presidente serbo non sia più così certo che una ridefinizione del confine tra Serbia e Kosovo, su cui si specula ormai da mesi, sia effettivamente realizzabile.