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Gli ultimi: prigionieri serbi e russi sul fronte alpino
Ultimi ingranaggi dello sforzo bellico allora, ultimi nel ricordo oggi. A cento anni dalla fine della Prima guerra mondiale, resta ancora semisconosciuta l’esperienza dei migliaia di prigionieri di guerra russi e serbi portati sul fronte alpino come manodopera coatta a supporto delle forze austro-ungariche
Domenica 4 novembre 2018 ricorreranno i cento anni dall’entrata in vigore dell’Armistizio di Villa Giusti e dalla cessazione delle ostilità tra Italia e Austria-Ungheria. È un’umanità variegata quella che in quei giorni di novembre del 1918 torna a vita civile sul fronte alpino, dove i due eserciti si erano duramente confrontati. Individui dalle diverse provenienze che per anni erano rimasti schiacciati tra i meccanismi di una guerra sempre più totalizzante nelle valli e sulle cime del Trentino – Alto Adige. Uno scrittore e alpinista locale, Dante Ongari, raccontando, decenni dopo, le vicende belliche nelle valli Giudicarie, rievoca con efficacia l’organizzazione di quell’universo, piegato allo sforzo militare:
"Colonne di donne, ragazzi e vecchi spinti dal bisogno di nutrirsi colla pagnotta facevano ogni mattina la spola da Borzago a malga Coel caricati di tavole o di altro materiale. La ripresa del logorante trasporto da Coel al rifugio Caré Alto era sopportata dalla corvée di prigionieri di guerra serbi e russi sorvegliati da guardie bosniache, croate e cecoslovacche che a qualche modo riuscivano a capirsi nelle loro varie lingue. I serbi, d’indole più ribelle, erano i paria della nascente organizzazione, mentre i russi godevano di più misericordia per essere più docili e abili artigiani del legno per il qual lavoro erano state messe in funzione due segherie alla veneziana al Baùt e al Pian della Sega. I prigionieri vivevano accantonati nelle baite dei fienili di Valaverta e di Cornicli mentre ai bosniaci era stata costruita una baracca di fronte a Solan lungo la mulattiera di Coel".
Un racconto che si immerge nelle retrovie, dove le sofferenze non mancavano nonostante la distanza della prima linea. Parole efficaci nel rievocare la Prima guerra mondiale su quelle montagne come crocevia di lingue e genti, molte delle quali provenienti da paesi di cultura slava. Croati, sloveni, cechi, slovacchi e bosniaci – tra gli altri – nei reparti austro-ungarici, serbi e russi tra i loro prigionieri di guerra, e infine legionari cecoslovacchi al fianco dell’esercito italiano. Categorie che non andavano intese in senso rigidamente etno-nazionale. Nei reparti bosniaci combattevano cattolici, ortodossi e musulmani che oggi in molti casi si definirebbero croati, serbi e bosgnacchi. Indicando i prigionieri russi, si faceva semplicemente riferimento a una generale provenienza dall’Impero zarista, e talvolta gli stessi serbi finivano inglobati in tale categoria. Vissero quegli anni di guerra gli uni accanto agli altri, combattendo o lavorando. Molti non riuscirono a vedere la fine delle ostilità tra le montagne trentino – altoatesine e oggi restano sepolti nei diversi cimiteri austro-ungarici sparsi in regione.
In Trentino – Alto Adige, la Prima guerra mondiale è stata raccontata di rado da questo punto di vista. Per molto tempo la narrazione irredentista è risultata infatti egemone nello spazio pubblico: Trento e Trieste riunificate alla madre patria italiana. Poco altro. Poi, grazie al lavoro di una storiografia locale particolarmente attenta, si è cominciato ad affrontare le complessità di una guerra dilaniante: la memoria sepolta della popolazione civile locale, profuga nei territori asburgici e italiani, ma anche il ricordo dei trentini caduti indossando l’uniforme austroungarica. Come testimoniato dai dibattiti sul centenario, le divergenze di interpretazione rispetto alla Prima guerra mondiale permangono tuttavia ancora oggi. Mentre nel paese non mancano letture dettate dall’agenda politica: come nel caso di chi celebra il “non passa lo straniero” del Piave di un secolo fa allo scopo di invocare una nuova “difesa dei confini” contro i migranti di oggi.
Poco spazio in ogni caso è stato dedicato a chi, straniero, venne trascinato dalla guerra in questi territori di confine. Ciò vale per i combattenti provenienti dai cento angoli dell’Impero, ma in particolare per chi combattente non lo era più: i prigionieri di guerra – soprattutto serbi e russi – catturati sul fronte orientale o su quello balcanico e trascinati in migliaia in Tirolo come manodopera coatta. Come ci spiega Quinto Antonelli, storico che si è approfonditamente occupato della memoria della Prima guerra mondiale, “dal punto di vista della ricerca è valso il principio nazionale – prima gli italiani – e si è definita una gerarchia: prima la storia militare, i soldati combattenti, poi la storia politica e diplomatica, dopo i civili, i corpi feriti e i prigionieri. Ma dal punto di vista della memoria pubblica, il tema dei prigionieri in Trentino non è neppure all’ordine del giorno. Il racconto vittimistico di un popolo innocente soggetto ad ogni violenza non può ammettere altre vittime, oltretutto vittime anche dei trentini”. Il tema è stato trattato per molti anni solamente nelle pubblicazioni locali: quando lo sguardo dello storico si abbassa e circoscrive, è impossibile infatti non vedere quelle masse di uomini. Diego Leoni nel suo fondamentale studio dedicato al conflitto sul fronte alpino li inserisce finalmente nel quadro complessivo della “guerra verticale”. Parla di un “sotto”, di una presenza “sullo sfondo”, degli ultimi ingranaggi del meccanismo bellico, messi a reggere con i propri corpi lo sforzo nelle retrovie, dove morivano schiacciati dagli stenti e della fatica.
Nel paesaggio e nella scrittura popolare
Nel 1915 i prigionieri di guerra sembra fossero già 27.000 in tutto il Tirolo. Erano impiegati sostanzialmente ovunque, nel lavoro nei campi o come boscaioli, ma soprattutto sfruttati nella trasformazione radicale dell’ambiente alpino in funzione dello sforzo bellico. Serbi e russi costruirono forti, trincee e baraccamenti, ma anche le linee ferroviarie della Val di Fiemme e della Val Gardena, la statale che oggi sale in Val Badia e tratti della strada della Valsugana, solo per fare alcuni esempi. Gli abitanti e i turisti che oggi attraversano i paesi e salgono le cime trentine e altoatesine possono ancora trovarne traccia nella toponomastica: il “sentiero dei Serbi” in Vallagarina, la “strada dei russi” in Val S. Nicolò e quella sul Monte Misone, la cosiddetta “strada del sangue” nella Val d’Adige, i resti della “casa dei trògheri” (dei portatori) sul monte Valpiana, dove alloggiavano i prigionieri che servivano a rifornire il fronte in quota. Molti altri sono i luoghi di cui si è persa memoria con il passare delle generazioni. In casi rari la loro presenza è maggiormente riconoscibile, come nei pressi del Rifugio Carè Alto, a circa 2500 metri di altitudine, dove si trova una chiesetta in legno costruita dai prigionieri russi nel 1917.
Tracce altrettanto consistenti si riscontrano nei diari e nelle memorie, dove i prigionieri sono visti attraverso gli occhi della popolazione locale e si racconta la difficile convivenza in tempo di guerra. Da una parte, emerge la diffidenza e la paura per uomini venuti da luoghi spesso sconosciuti e da culture lontane, deformati dalla propaganda di guerra, disperatamente aggrappati alla propria sopravvivenza. Le testimonianze raccolte dagli storici – nell’impressionante pervasività del ricordo di quella presenza – trasmettono tuttavia anche umanità e compassione. Le genti locali potevano riconoscere in quella condizione le sofferenze patite dai mariti o dai figli prigionieri in Russia. “Io non ho nemici” rispondeva una crocerossina di Trento, Anna Menestrina, a chi le ordinava di non offrire cibo ai prigionieri, secondo un passo del suo diario riportato da Diego Leoni.
Ritorni di memoria
La presenza di chi venuto da lontano visse la guerra sul fronte alpino è riemersa pubblicamente in alcune occasioni, soprattutto quella di chi condivideva la causa irredentista – come i membri della legione cecoslovacca – o di chi comunque cadde sui campi di battaglia. E così, ad esempio, passeggiando per l’altopiano di Asiago, nei pressi di Malga Slapeur, ci si imbatte nel monumento dedicato al 2° Reggimento della Bosnia Erzegovina dell’esercito austro-ungarico. Dal 1996, tre targhe in bosniaco, italiano e tedesco ricordano i caduti per la conquista della cima del monte Fior.
Restano più complessi i tentativi di far riemergere “il sotto”, di chi non morì armi alla mano, ma per stenti e sfruttamento. Nei pressi di Panchià, in Val di Fiemme, nel gennaio 1917 una frana uccise 55 prigionieri “russi” impiegati nella cava di ghiaia. Una targa commemora quella tragedia, ma le vittime sono ricordate semplicemente come “lavoratori”: non si fa menzione delle condizioni di sfruttamento, tantomeno della loro provenienza. In un altro paese, Cavareno in Val di Non, si racconta che dopo la guerra gli abitanti dedicarono un monumento ai prigionieri serbi e russi che ripararono l’acquedotto, distrutto però in epoca fascista.
Ma la memoria è spesso atto politico e influenzata dall’impegno di soggetti molteplici, attivi a più livelli. Negli ultimi anni il ricordo dei prigionieri di guerra russi è stato riaffermato soprattutto in Alto Adige dall’azione del Centro russo Borodina di Merano. Sono state organizzate conferenze sul tema e spedizioni in luoghi particolarmente significativi per l’esperienza russa. Le prime commemorazioni pubbliche e cerimonie religiose si sono svolte in Carè Alto e in alcuni cimiteri militari altoatesini, alla presenza di autorità locali, rappresentanze russe e della Chiesa ortodossa.
Resta totalmente marginalizzata invece la memoria dei prigionieri di guerra serbi. In diverse testimonianze, emerge una percezione divergente già all’epoca del conflitto, si riscontra nei loro confronti una maggiore avversione, forse legata a stereotipi e all’idea che i serbi potessero essere considerati colpevoli per lo scoppio della guerra. D’altra parte, nemmeno la storiografia serba – che ha ripreso ad occuparsi di Prima guerra mondiale dopo il disinteresse per il tema in epoca socialista – ha dedicato approfondimenti a questa specifica esperienza sul fronte alpino. Il lavoro si è invece concentrato sui grandi campi istituiti nel resto dell’Austria-Ungheria, dove furono internate decine di migliaia di militari e civili serbi, e dove le vittime furono numerose.
Ormai esauritosi il Centenario, la vicenda dei prigionieri di guerra continua dunque ad essere un capitolo poco integrato nella rappresentazione complessiva delle vicende della Prima guerra mondiale in questa regione di confine. Un’importante eccezione è rappresentata dalla recente mostra “Cosa videro quegli occhi!”, organizzata dal Laboratorio di storia di Rovereto, che nel soffermarsi sui destini dei trentini e delle trentine nel conflitto, non dimentica di dare spazio anche ai russi e ai serbi trascinati sulle Alpi. Si tratta di una pagina utile a comprendere la profondità del conflitto e aggiungere una prospettiva fuori dagli schemi abituali: quella di migliaia di persone arrivate nelle valli trentine e altoatesine dopo essere stati sradicati dalla propria terra di origine, portatori di lingue e religioni diverse, sfruttati a sostegno dell’economia bellica, separati dalle comunità locali, con le quali svilupparono un rapporto complesso ma anche molto umano, decedute nell’anonimato e dimenticate. Un destino parallelo e speculare a quello di molti prigionieri trentini in Russia, che invita a guardare alle vicende locali senza perdere di vista la dimensione transnazionale, europea e globale.
Questa pubblicazione è stata prodotta nell’ambito del progetto NeverAgain: Teaching Transmission of Trauma and Remembrance through Experiential Learning, coordinato dall’Università di Turku (Centro Selma) e cofinanziato dal programma "Europa per i cittadini" dell’Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l’opinione dell’Unione Europea.