Cowboy Makedonski
Un documentario che racconta la storia di un giovane macedone arrivato in Italia negli anni ‘90 in cerca di lavoro. Ne abbiamo parlato con gli autori di questa produzione italo-macedone
Il documentario “Cowboy makedonski”, di recente presentato al Torino Film Festival, accende i riflettori sia su una parabola individuale che su un fenomeno più ampio, a fare da sfondo.
La parabola è quella del macedone Goran/Giorgio, che nel 1993, a 18 anni, arriva nelle Langhe, dove si impone rapidamente come intermediario per l’organizzazione della forza lavoro dei connazionali nel settore vitivinicolo, fino ad arrivare a gestire oltre centoquaranta lavoratori.
Il film racconta in particolare la parabola discendente, che lo porta al fallimento del suo progetto migratorio e a un viaggio a ritroso verso la madrepatria, dove tuttavia sembra non esservi più un posto per lui. Ad emergere sono sia la drammaticità del crollo che la capacità del protagonista di rialzarsi, anche grazie al sostegno della figura forte di Antoaneta, la compagna che gli sta accanto e rappresenta per lui un’ancora.
Il contesto, che si staglia sullo sfondo del documentario, è quello della migrazione macedone in Italia, inseritasi in alcune nicchie migratorie, all’interno del settore ortofrutticolo, agropastorale o nell’edilizia. Le rimesse rappresentano un settore chiave dell’economia in Macedonia, dove la situazione politica interna ha vissuto negli ultimi anni momenti di forte instabilità e, secondo l’ultimo rapporto della Banca Mondiale , il 23% dei cittadini vive sotto il livello di povertà assoluta.
Guardando ai dati ISTAT, tuttavia, sembrerebbe che la comunità macedone abbia ridotto di molto la propria presenza sul territorio italiano, passando dalle 92.847 presenze del 2010 alle 65.347 del 2018, con un calo di quasi il 30%. Numeri che, tuttavia, potrebbero essere falsati dal ricorso sempre più ampio all’uso del passaporto bulgaro.
Del film “Cowboy makedonski”, frutto di una coproduzione italo-macedone, e del fenomeno dei flussi migratori dalla Macedonia all’Italia abbiamo parlato con Fabio Ferrero e Nicola Zambelli, entrambi autori del film, del quale il primo firma anche la regia.
Come e perché è iniziato il vostro interesse per i flussi migratori tra Italia e Macedonia?
Noi ci siamo conosciuti in Bulgaria ed abbiamo cercato di indagare le connessioni tra i Balcani e i territori in cui viviamo. In particolare Fabio si è imbattuto nella vicenda della comunità macedone nelle Langhe, dove, da alcuni anni, la presenza è consistente. Quando abbiamo iniziato a lavorare al progetto destinato a diventare “Cowboy makedonski” tra stanziali e stagionali c’erano circa 10.000 macedoni nella zona. Originariamente il documentario avrebbe dovuto raccontare una storia corale, concentrandosi in particolare sulle due fasi migratorie che hanno caratterizzato questi flussi. La prima, più selvaggia, che durò all’incirca dagli anni ’90 a oltre il periodo della crisi – una sorta di “corsa all’Ovest” –, durante la quale le Langhe si trovavano in un periodo di riorganizzazione che sarebbe sfociata nella nomina a patrimonio mondiale dell’Unesco. Uno spartiacque tra le due fasi può forse essere rintracciato in un’inchiesta di Giancarlo Gariglio che descrisse con chiarezza tutto il sommerso – dal caporalato al lavoro nero, scoperchiando un vaso di Pandora. Dopo quell’inchiesta anche il territorio, che aveva vissuto quei flussi come una necessità, ha iniziato a cercare di governarli tramite una regolamentazione. Successivamente abbiamo conosciuto Goran Stojanov e Antoaneta Gocheva, che si sono presto imposti come protagonisti del lavoro.
Perché le Langhe hanno incontrato la Macedonia?
Si è trattato inizialmente di un incontro casuale. Tra i primi migranti macedoni ad arrivare nelle Langhe ci sono stati degli individui, come Goran, che hanno compreso la necessità di manodopera che esisteva. In quegli anni i produttori stavano apportando dei miglioramenti tecnici e operando un forte investimento di marketing territoriale che verteva sulla promozione del turismo del vino. In questo contesto servivano reti per fornire i braccianti necessari. Nel film abbiamo cercato di descrivere la parabola di Goran, il primo ad avere l’intraprendenza di imporsi come intermediario.
Da quali zone della Macedonia provengono questi flussi migratori? Quali sono i rapporti con altre comunità di migranti sul territorio?
La stragrande maggioranza dei macedoni nelle Langhe arriva dalle zone orientali della Macedonia al confine con la Bulgaria, per esempio intorno a Delčevo. Durante la vendemmia un pullman, sul quale anche noi abbiamo viaggiato, collega due volte alla settimana Canelli con la Macedonia. Non è stata la tradizione vitivinicola della Macedonia ad influire su questi flussi, quanto piuttosto un certo expertise che si è poi tramandato tra i lavoratori. In particolare nella fase dello “spontaneismo” ciò determinava l’ammontare dei pagamenti, scaglionati a seconda dell’esperienza acquisita sul campo.
Per quanto riguarda i rapporti con altre comunità, i macedoni si basano su reti instaurate ormai da decenni, ma si assiste all’innesto di nuovi fenomeni. Da un’ultima ricerca portata avanti con Maurizio Pagliassotti de Il Manifesto è emerso che, a fronte di una riduzione della paga, i macedoni si recano con dei furgoni a prelevare manodopera proveniente da altre comunità a Saluzzo, per poi portarla nelle Langhe.
Rispetto alle diverse fasi della migrazione macedone, di quali numeri potremmo indicativamente parlare?
Nella prima fase c’erano nelle Langhe circa 10.000 tra stanziali e stagionali, con una prevalenza dei secondi. Nella seconda si parla di circa 3.500-4.000 stanziali e altrettanti stagionali, ma è difficile fare una stima in quanto tanti migranti macedoni possiedono anche un passaporto bulgaro. Molti approdano dalla Macedonia a Canelli e da qui si spostano successivamente in altre aree. Anche se la maggior parte della manodopera è maschile, nelle vigne lavorano anche diverse donne, molte delle quali espatriate con i propri partner.
Quanto l’economia informale è presente?
In particolare quando abbiamo iniziato il lavoro ci siamo scontrati con situazioni molto precarie, abbiamo visitato cascine che fungevano da dormitori per 20 o 30 persone. Negli anni del “Far West” nella zona industriale di Canelli c’era una baraccopoli come quella ancora presente a Saluzzo, dove ogni pullman che arrivava scaricava una cinquantina di braccianti. Era poi un bar a fare da punto di riferimento per l’ingaggio dei nuovi arrivati. Tuttavia, nonostante le condizioni difficili, tra le testimonianze raccolte emergeva l’aspettativa di poter vivere per gran parte dell’anno in Macedonia con quanto guadagnato in Italia durante una stagione.
Le inchieste giornalistiche portate avanti su questo fenomeno, influendo negativamente sull’immagine della zona, sono state la premessa per una riorganizzazione del settore del bracciantaggio in piccole cooperative, mentre le situazioni più problematiche sono state smantellate. Tuttavia, in termini di sommerso è difficile dire quanto sia cambiato.
Certo è che la filiera si è ridotta, tagliando via le parti non più utili, tra cui le figure di intermediari come Goran. All’inizio del film abbiamo introdotto una frase provocatoria. Presentandosi, Goran dice di essere chiamato dagli italiani un caporale e dai macedoni un “cowboy”, con tutto il significato semantico che queste parole portano con sé. Negli anni d’oro Goran arrivò a movimentare oltre 140 persone, possedere più furgoni e quando tornava in Macedonia da molti era considerato un eroe, un cowboy appunto. Non si portava dietro lo stigma che la parola italiana “caporale” implica. Lui si sentiva piuttosto un imprenditore, che portava a casa l’utile e instaurava un rapporto umano con gli operai. Durante il viaggio compiuto in Macedonia abbiamo tastato la sua popolarità nei suoi luoghi d’origine, il che è un dato sensibile importante. In concomitanza con la trasformazione produttiva si sono imposti altri attori, tra cui piccole cooperative, che l’hanno gradualmente estromesso dal mercato.
La figura di Goran, con i rapporti di potere che lo circondano, mantiene un carattere di ambiguità. Il film cerca delle risposte? Quanto il documentario racconta una parabola umana individuale o piuttosto tematizza l’impatto della crisi su immigrati già stabilizzati in Italia da molti anni?
Nel film, che non è un lavoro d’inchiesta, la questione del caporalato si mantiene sullo sfondo, mentre in primo piano emerge il dramma umano del personaggio, un uomo di mezza età che viene tagliato fuori dal mercato del lavoro, un immigrato che ha fatto fortuna e poi è arrivato a perdere tutto. Ma dall’altra parte la figura di Goran diventa l’emblema della testardaggine nel voler ricominciare, continuare a insistere, come lo vediamo fare quando gioca alle slot machine, pigiando sempre lo stesso tasto. Sicuramente la sua storia parla di molto altro, per esempio degli immigrati che, giunti con le prime ondate migratorie, non sono stati in grado di assecondare le trasformazioni in corso e si son trovati costretti a ripartire. Nel film vediamo lo stesso Goran lasciare l’Italia per la Germania, come hanno fatto molti macedoni. Tuttavia, anche in Germania, che a Goran appariva come un West ancora più a West, non è andata bene e così lui è tornato in Macedonia, dove sta cercando di ricominciare per l’ennesima volta.