La veglia di Ljuba

Un romanzo che profuma dell’entroterra istriano, che non dimentica il tragico ‘900 e che racconta la determinazione di chi sa mettere radici. Una recensione all’ultimo libro di Angelo Floramo

07/01/2019, Davide Sighele -

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Istria rurale (foto Alessandro Coccolo)

Si è catturati inesorabilmente da questo libro se si appartiene a tre categorie. Se si è figli, e questa è condizione di tutti; se si è padri (o forse madri, ma di questo non posso essere certo) e se si è appassionati dell’Europa dell’est. Forse però è sbagliato definire categorie per parlare di “La veglia di Ljuba”, l’ultimo romanzo di Angelo Floramo, edito da Bottega Errante Edizioni. Piuttosto ha senso parlare di appartenenze. Perché è un romanzo che, almeno per quanto mi riguarda, è riuscito a sollevare l’intimità dell’essere figli, dell’essere padri, del viaggiare.

Non ho dubbi che per altri potrebbe smuovere i forti sentimenti del rapporto di coppia oppure quelli dell’impegno politico e sociale.

Il libro attraversa l’intensa vita di Luciano Floramo, padre dell’autore; la sua infanzia da ragazzetto irrequieto in Istria, in un paesino dove la madre era maestra e il padre, ferroviere socialista, aveva trovato casa dopo esservi mandato forzatamente al confino in epoca fascista dalla sua Messina; poi la Seconda guerra mondiale e, al suo termine, la decisione di andarsene: il centro collettivo a Trieste e poi lo spostamento definitivo più a nord, a San Daniele del Friuli.

Una vicenda umana quella del “Nini”, così veniva chiamato da ragazzino, che ha seguito il dispiegarsi del confine tra Italia e Jugoslavia nel corso del ‘900 e che ha attraversato, da protagonista, i suoi principali snodi storici e sociali.

Il tutto rivissuto a partire dal momento in cui Luciano, vegliato dalla sua amata moglie Ljuba, trapassa, in una stanza di quell’ospedale di cui era stato, per anni, presidente. Quel momento in cui le vite sono su un margine labile tra il prendere ed il perdere senso.

La vita del professor Luciano, agli occhi del figlio, un senso non l’ha mai perso. E in veste di scrittore, riesce a farlo capire e sentire anche a noi.

Come il ciclo della vita anche questo romanzo si apre e si chiude. Con un invito, non certo didascalico. Quello di non rinnegare ed anzi perseguire con coerenza le nostre naturali e molteplici identità. L’autore lo fa all’inizio con una citazione di Fulvio Tomizza. Lo fa poi nella parte finale del libro, con una dedica lasciata dal padre al figlio, sul risvolto di un libro: “Ad Angelo, per la comune appartenenza a queste genti che dell’Adriatico hanno lo spirito talvolta inquieto e talvolta sognante. Perché non voglia mai scegliere, nella complessità delle memorie, ma le sappia piuttosto tutte abbracciare insieme. Il babbo”.

Il protagonista di questo romanzo, Luciano, riesce a lasciarci l’insegnamento – era un professore del resto – che si può sentire appartenenza ad un luogo senza rinunciare ma “abbracciando” le proprie molteplici identità. Lui è riuscito a trovarla quest’appartenenza in Friuli attraverso l’impegno, certo la fatica, la carità e l’empatia. E – ciò che l’ha reso un uomo davvero speciale – senza rinunciare al proprio diritto e dovere di dissentire.

Respira l’altopiano Angelo”. “Aghi di pino ed erba secondo me”. Luciano sorrise: “E resina, nebbia ghiacciata. Funghi e castagne. Legno umido. Odore di cantina. Se fai attenzione anche di stalla. E appena appena di schiuma di mare, vero?”

I muretti a secco del Carso, le sue campagne, le case in pietra, una civiltà contadina che si mescola al mare, un Mediterraneo essenziale, solo a tratti e raramente rigoglioso, non certo prolisso ma nordico e di poche parole. Ma pur sempre mare. È attraverso i profumi che il padre accompagna il figlio a ritrovare le proprie radici. E il figlio accompagna noi sulla strada del comprendere che si può essere stranieri ma non sentirsi estranei, esuli e ciononostante capaci di mettere radici.

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