Italia | | Diritti, Religioni, Società civile
Verona, vento dell’est
Da Verona a Chişinău, in Moldavia, il mondo dei movimenti che si oppongono al World Congress of Families, associazione statunitense che si prefigge il compito di perorare, a livello internazionale, istanze di stampo conservatore relative alla famiglia. Un commento
"Il fascismo non ha confini, dunque anche la nostra lotta non può averne". Con queste parole, pronunciate durante l’assemblea di domenica 31 marzo, alcune esponenti del femminismo curdo centrano uno dei punti fondamentali dei “tre giorni di Verona”. L’appello del gruppo cittadino di Non una di meno per una manifestazione in risposta al Congresso Mondiale delle Famiglie ha raccolto in breve tempo l’adesione e la solidarietà delle altre sedi italiane del movimento (Roma, Milano, Bologna, Pisa, Treviso, Trento e molte altre) e di numerose realtà femministe straniere, dando così un respiro transnazionale alla protesta. “Verona città transfemminista” è stato il titolo-auspicio di un vero e proprio (contro)evento (contro)culturale, che si è snodato lungo tre giornate consecutive. Conferenze, incontri e assemblee, culminati sabato pomeriggio in un corteo cittadino che ha visto la partecipazione di circa 100.000 persone.
Sorellanza oltre i confini
Molte le “sorelle” arrivate da lontano per sfilare assieme alle attiviste locali, e una sembra essere la parola d’ordine comune: “Intersezionalità”. Intersezionalità dei gruppi sociali in lotta, delle rivendicazioni e dei metodi di protesta, ma anche (appunto) delle singole nazionalità che provano a connettersi per articolare un discorso condiviso. A Verona erano infatti presenti gruppi spagnoli, argentini, francesi, statunitensi, svizzeri, tedeschi, ecc. Non è mancata inoltre l’adesione dell’Europa orientale, con la partecipazione di una delegazione croata di Solidarna – Foundation for Human Rights and Solidarity” e del gruppo polacco “Polish women strike” che nell’ottobre 2016 – grazie alle ingenti proteste di piazza a difesa del diritto all’aborto – avviò la lotta femminile e LGBQT canalizzata poi dal movimento argentino “Ni una menos” (anch’esso presente con Marta Dillon), in poco tempo diffusosi velocemente a livello mondiale.
La consapevolezza è che, ancora nelle parole delle attiviste curde impegnate con le YPG, "le espressioni locali del fondamentalismo, come da noi l’ISIS, fanno parte del più ampio fenomeno dell’imperialismo globale". Gli fanno eco le rappresentanti croate: "La solidarietà femminile deve oltrepassare ogni paese. Qui in Croazia, il governo sta togliendo sempre più finanziamenti alle ONG per darli ad associazioni legate alla Chiesa, promuovendo di fatto una politica patriarcale". Si ha cioè la sensazione – pienamente confermata dalla dimensione internazionale del Congresso di Verona e dalle partecipazioni istituzionali – che le forze del neo-conservatorismo (“sovranismo religioso”, secondo alcuni) stiano cercando di rinsaldare i legami fra i gruppi lobbistici di diverse nazioni, per assumere il controllo di posizioni chiave all’interno dei singoli governi. Uno “schema” già in atto nel contesto est-europeo, dove spesso sono le stesse persone (dietro magari a sigle differenti) a spingere per normative reazionarie e retrograde, come la legge contro la propaganda gay in Russia o le proposte di restrizione dell’accesso all’aborto in Polonia.
Flashback: Chișinău, 2018
Significativo è il fatto che l’edizione precedente del World Congress of Families (WCF) sia stata ospitata tra il 14 e il 16 settembre 2018 nella capitale moldava, Chişinău. In quell’occasione circa 2000 persone provenienti da 40 diversi paesi parteciparono alla conferenza intitolata: “East and West coming around the beauty of the family”. L’evento ottenne un forte sostegno politico ed economico da parte del governo moldavo, con un impegno in prima persona della “coppia presidenziale”: il capo di stato Igor Dodon appose il proprio patrocinio così come la ONG “Din suflet” guidata dalla first lady Galina.
Nel suo discorso d’apertura, il Presidente moldavo si concentrò sull’emigrazione come una delle principali minacce all’integrità e allo sviluppo della famiglia. Dodon stigmatizzò la scelta di centinaia di migliaia di genitori, specialmente madri, che decidono di lasciare il paese, affidando i propri figli alle cure dei nonni, dinamica che porterebbe alla disintegrazione dei nuclei familiari, alla sofferenza dei bambini e al loro abbandono, infine all’incremento del fenomeno dei cosiddetti “orfani sociali”. Pur accennando in maniera sbrigativa al fatto che il fenomeno migratorio sia generato dalla crisi economica e dai bassi salari, Dodon si scagliò soprattutto contro le “ideologie anti-famiglia” nonché contro i “soliti spauracchi” dell’aborto, della denatalità, dell’omosessualità, del femminismo e delle teorie “gender”, per proporre infine come rimedio il ritorno ai valori tradizionali per cui la famiglia è "composta da un uomo e una donna, da un padre e da una madre". Si dimenticò però di menzionare – nel paese – gli allarmanti dati sulla violenza di genere e domestica (1 donna su due tra i 15-49 anni è stata vittima di violenza fisica, psicologica o sessuale da parte di un partner nell’ultimo anno), sulla mortalità infantile (12,4 morti su 1000 entro il primo anno di vita, rispetto ai 4 della media Ue) e sul lavoro minorile (più di 100.000 minori coinvolti).
Appare difficile credere che politiche tese a favorire la maternità o addirittura a incentivarla possano fungere da risposta alle centinaia di migliaia di madri lavoratrici migranti che si trovano all’estero in primis per garantire un futuro ai propri figli oltre che, spesso, per fuggire da partner violenti o da matrimoni falliti. Quello di Dodon – e di altri leader est-europei – è una sorta di “neofamilismo” che vede per le donne la biologia come unico destino possibile e che, al tempo stesso, propone il destino biologico come unico rimedio possibile a problemi che affondano invece le proprie radici in tutt’altri campi.
Consapevolezza che prende corpo
"Cosa bisognerebbe fare, invece? Promuovere la giustizia sociale, la solidarietà fra i cittadini, il diritto delle donne a decidere della propria sessualità", afferma Vitalie Sprinceana di Occupy Guguţă (movimento di protesta nato a Chişinău l’anno scorso in opposizione ad alcune politiche urbane), che è stata di fatto l’unica realtà moldava a contestare il Congresso del 2018. "Le parole di Dodon sono ipocrite: è favorevole a incrementare la natalità ma solo per le persone privilegiate, non certo per i migranti o per chi si trova in una situazione di disagio economico. Credo che il suo interesse nell’iniziativa dell’anno scorso sia dovuto ai finanziamenti che arrivano dalla Russia per il Congresso e alla volontà di mostrarsi “religioso” e vicino alla Chiesa Ortodossa".
Tornando a Verona, la risposta dei movimenti provenienti dall’Europa post-socialista è apparsa tuttavia esigua rispetto alla presenza istituzionale e religiosa invitata a relazionare al WCF (lo stesso Dodon figurava fra i partecipanti, assieme agli ungheresi Katalin Novak e Attila Beneda, l’ucraino Pavel Unguryan, il patriarca Smirnov e i russi Alexey Komov e Victor Zubarev). Come accennato, all’assemblea transnazionale di domenica erano presenti, oltre a quelli di paesi occidentali e balcanici, rappresentanti femministi dalla Polonia, dalla Croazia e dalla Bielorussia. Le società est-europee scontano spesso un deficit di partecipazione e attivismo della comunità civile alla vita politica. In particolare, poi, il femminismo e le questioni a esso legate faticano più di altre a imporre la propria legittimità nel discorso ufficiale e nella sfera pubblica.
Eppure, proprio da Verona, arrivano segnali per una possibile svolta. Il movimento di "Non una di meno", gli scioperi internazionali dell’8 marzo si sono generati anche sulla scorta delle proteste del 2016 in Polonia, che hanno visto – inaspettatamente – migliaia di donne scendere in piazza e opporsi con successo ai tentativi di restrizione dell’accesso all’aborto. Durante le iniziative di Verona le rappresentanti polacche hanno ricordato questo fatto, rimarcando come "secondo le ricerche, più della metà delle donne che hanno organizzato le manifestazioni a livello locale nel 2016 non avevano avuto in precedenza alcuna esperienza di attivismo". L’attacco ai diritti femminili, lo smascheramento dell’ipocrisia governativa – per cui, se da una parte si dice di voler difendere la “famiglia”, dall’altra si assegna tutto il peso del sostentamento di quest’ultima alle donne deresponsabilizzando lo stato e i sistemi di welfare – stanno creando una nuova consapevolezza condivisa. "Un’esperienza di protesta che si incarna nel corpo", concludono in assemblea, e che nei corpi del corteo di Verona ha trovato voce e rabbia da tutto il mondo, anche da est.