1999: una primavera a Skopje
Dopo l’inizio dei bombardamenti della Nato, il 24 marzo 1999, centinaia di migliaia di albanesi del Kosovo vennero cacciati dalle loro case e molti si rifugiarono nei paesi vicini. In Macedonia, le condizioni di vita nel campo di Blace erano terribili. Un racconto
(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 31 marzo 2019)
A fine giornata, lasciavo il campo per rientrare nella casa dove alloggiavamo sulle colline di Skopje, a Pod Kale. Facevamo parte dei fortunati, se si può parlare di fortuna in queste circostanze… Ma sì, possiamo parlare di fortuna. Avevamo lasciato il Kosovo, Pristina, il nostro quartiere di Dardania, al momento giusto. Siamo fuggiti dalla guerra il quarto giorno di bombardamenti. Prima dell’esodo di massa dell’inizio aprile 1999. In macchina, certo non la nostra, che non voleva mettersi in moto. Ma comunque in macchina e non spinti sui treni dalle forze serbe. Avevamo dato 500 marchi a dei paramilitari in passamontagna per passare. E avevamo attraversato il confine macedone con dei passaporti. Come cittadini “normali”. Ma non eravamo cittadini normali, e quello non era un mese di marzo normale, c’era la guerra e noi eravamo dei rifugiati. Nell’albergo dove i nostri amici ci avevano sistemato provvisoriamente ci siamo messi a piangere.
Arrivavano in treno, in macchina. A decine, centinaia. E si ammassavano nel campo di Blace, al confine macedone. Il campo della vergogna. La mia memoria ha occultato quelle immagini, solo le foto mi ricordano “delle scene a cui si preferirebbe non aver assistito per paura di non essere più in grado di liberasi da quel doloroso ricordo", come notava all’epoca un giornalista del quotidiano svizzero Le Temps. Persone onorevoli, persone semplici, famiglie un tempo felici, impiegati pubblici della capitale, donne della campagna, bambini malnutriti perché già sfollati interni in Kosovo da mesi, vicini, i miei vicini. Quel giorno, tendevano le mani, aspettavano del pane.
La specie umana? Un poliziotto con un guanti di cuoio nero segnava il numero di immatricolazione sulla mano di un rifugiato. Alcuni poliziotti con mascherine davanti alla bocca sorvegliavano il campo, proteggendosi dalla puzza… forse dalle malattie? Il campo di Blace era come l’inferno nei primi giorni dell’esodo. La dignità umana veniva ridicolizzata, umiliata, calpestata, violata. Un cameraman che aveva lavorato nell’aprile del 1999 per Unhcr mi ricordava recentemente come il campo di Blace era stato trasformato velocemente in un centro “decente”, grazie all’aiuto delle Ong e dell’esercito. Più tardi, il campo è stato svuotato in una sola notte, quando le autorità macedoni hanno deciso, senza chiedere il parere dei rifugiati, di mandare questi indesiderabili, questi intoccabili, ai quattro angoli della terra grazie a dei convogli “umanitari”.
Noi eravamo fortunati, vivevamo in una casa, anche se abbiamo dovuto lasciare la nostra e affittare questa sulle colline di Skopje. Lavoravamo nei campi profughi, ma la sera rientravamo in una casa che non era la nostra, eravamo dei rifugiati.
Rifugiata e volontaria
Gli aiuti umanitari erano stati organizzati. Lavoravo per Médecins du Monde, più precisamente ero la responsabile per i “diritti dell’uomo”. Il mio lavoro consisteva nel raccogliere le testimonianze delle persone che arrivavano dal Kosovo e di quelle che vivevano sotto le tende del campo di Stankovec. Dovevo fare dei rapporti. Poi traducevo, assistevo i medici, trovavo del pane (un giorno, a Blace, ho visto una madre tenere per mano la figlia di tre anni, che sanguinava dal naso. Che cos’ha? L’ho picchiata. Perché mai? Mi chiede del pane. Quella donna si era forse dimenticata forse che non si nascondeva più in mezzo ai boschi, che non era più per strada?). Facevo avanti e indietro dal confine, dove avevo diritto ad entrare nella no man’s land per riportare con me i rifugiati più deboli, i feriti. Non dimenticherò mai l’immagine di un nonno su una carriola, con la gamba rotta, né quell’autobus che aveva scaricato i primi trentasei prigionieri di guerra, con la testa rasata, il corpo blu per via dei colpi e delle torture, senza alcuna notizia sulla loro famiglia e la loro famiglia senza alcuna notizia su di loro. Il nostro medico li aveva controllati, io avevo posto delle domande e redatto un rapporto.
A Stankovec, all’inizio, non c’era il telefono. Durante i miei giri nel campo, mi segnavo dei numeri e poi chiamavo dalla base un figlio, un cugino, un padre in Danimarca, in Irlanda, negli Stati Uniti, per annunciar loro la buona notizia: la loro madre, la loro figlia, il loro cugino erano vivi. Degli urli, dei pianti, dei ringraziamenti dall’altra parte del telefono, delle esplosioni di emozioni – insopportabili per quanto erano forti (dei figli avevano ritrovato la loro madre grazie ad una foto di Hazir Reka apparsa su un quotidiano danese, l’abbiamo cercata l’indomani per tutto il campo, ma lei era stata mandata in Turchia).
Tutti i media del mondo erano a Skopje, con alcuni colleghi anche a Kukës, in Albania. Raccontavano la tragedia dei kosovari, la crisi dei rifugiati, lasciando le questioni militari e le decisioni politiche alle capitali europee e alla Nato. Tutti erano lì, dove nessuno aveva voglia di stare: personalità del mondo dello spettacolo, del mondo dello sport, Clinton.
Poco a poco, tanto a Stankovec come a Cegran la vita si riorganizzava. Telefoni satellitari collegavano i rifugiati alle loro famiglie, l’ospedale tedesco offriva una buona assistenza (una donna incinta del campo di Blace avrebbe messo al mondo suo figlio nella jeep di Médecins du Monde poiché il medico macedone non le aveva permesso di lasciare il campo senza un poliziotto armato a bordo). Le Ong facevano del loro meglio, i volontari facevano il giro delle tende, offrendo assistenza e conforto.
I nostri capi ci avevano chiesto di indossare indumenti decorosi per rispetto nei confronti dei rifugiati. Ma avevo davvero bisogno di quei consigli, essendo io stesso rifugiata e avendo di fronte a me miei simili? I nostri giubbotti da volontari ci facevano sudare – faceva così caldo nella primavera del 1999 a Skopje, la polvere ci si appiccicava alla pelle – ma noi li indossavamo per mostrare ai rifugiati che eravamo lì per aiutarli, per ascoltare le loro storie, per documentare le loro testimonianze. Come quella della giovane ragazza di Drenica, che raccontava ad un avvocato della Federazione internazionale dei diritti umani (FIDH) come i serbi avevano abusato di lei. Suo padre si era nascosto di sopra e aveva sentito tutto. Io avevo voglia di vomitare. Non avevo più voglia di piangere, quello veniva in automatico.
Ad aprile, ma anche alla fine di maggio, i campi erano sovraffollati, tanto che si trattasse di Stankovec quanto di Brezda. I rifugiati facevano la fila con i loro contenitori di plastica per riempirli d’acqua; facevano la fila per aver accesso ai servizi igenici, insufficienti per tutte quelle persone; facevano la fila per usare i telefoni satellitari. Sotto le tende faceva caldo, troppo caldo. Alcune persone si sdraiavano su materassi di fortuna; altri discutevano "sulla soglia di casa": ammazzavano il tempo, che non passava, che non la smetteva di allungarsi. Molti di questi rifugiati aspettavano di sentire i propri nomi e quelli dei paesi pronti ad accoglierli. Altri aspettavano notizie sui membri della loro famiglia. Erano partiti per l’Albania? Erano rimasti in Kosovo? Erano vivi oppure morti?
Quando lasciavamo il campo a fine giornata ed il cancello si chiudeva dietro di noi, rientravamo a casa, dove mio suocero aspettava che gli raccontassimo dei drammi, del caos, delle tragedie, dei giochi dei bambini nel campetto da calcio improvvisato all’interno del campo, delle donne col foulard sul capo, degli anziani con la pelle grinzosa ed il berretto tradizionale in feltro bianco. Mio suocero sapeva che, prima o poi, gli avremmo parlato dei membri della nostra famiglia: anche loro sarebbero arrivati, pur con mille difficoltà, fin al confine, dopo esser fuggiti da Ferizaj e dagli altri villaggi attorno. Avrebbe portato loro l’indomani del tè ed un samovar, delle tute, un rasoio e delle lame, del sapone. Ma solo fino alla recinzione. L’ingresso era vietato per lui. L’uscita era vietata ai rifugiati.
Mio marito Hazir si addormentava sulla poltrona, con le scarpe ancora ai piedi, stanco fisicamente così come emotivamente. Io mi occupavo di Bind, di quattro anni, che aveva cominciato a parlare con l’accento di Kaçanik, l’accento del suo amico di fronte, un rifugiato di quella città. Formavamo una famiglia di rifugiati felice: felici di non esser dietro la recinzione, felici soprattutto di essere vivi.