Uranio impoverito: colpa di stato
Ancora due vittime tra i militari italiani che hanno partecipato a missioni nei Balcani ed esposti all’uranio impoverito. Secondo l’Osservatorio Militare, ad oggi sono 366 i morti e 7.500 i malati. Ora anche la Serbia ha istituito una commissione di indagine
"A soli due giorni dalla scomparsa di Daniele Nuzzi un altro militare ci lascia. Considerato il sopraggiungere improvviso del peggioramento e la successiva morte, l’Osservatorio ancora non ha avuto l’autorizzazione dalla famiglia a divulgare i dati". È Domenico Leggiero, portavoce dell’Osservatorio Militare ad annunciarlo sulla pagina Facebook “Vittime dell’uranio impoverito ” il 18 aprile scorso.
Si tratta della morte della 366esima vittima per uranio impoverito tra i militari italiani, la cosiddetta “Sindrome dei Balcani”. Il caso era scoppiato nel 2001 con l’emergere dei primi casi di militari italiani ammalatisi o deceduti al rientro dalle missioni in Bosnia Erzegovina e Kosovo. Paesi che, assieme alla Serbia, erano stati bombardati dalla Nato – nel 1995 la Bosnia e nel 1999 gli altri due – con proiettili all’uranio impoverito (DU Depleted Uranium).
L’uranio impoverito deriva da materiale di scarto delle centrali nucleari e viene usato per fini bellici per il suo alto peso specifico e la sua capacità di perforazione. Quando un proiettile al DU esplode ad altissima temperatura rilascia nell’ambiente nanoparticelle di metalli pesanti. Ad oggi viene confermato dalla ricerca scientifica che questi proiettili sono pericolosi sia per la radioattività emanata sia per la polvere tossica che rilasciano nell’ambiente.
Daniele Nuzzi, deceduto lo scorso 15 aprile a soli 48 anni di età, aveva prestato servizio nel 1^ Reggimento Carabinieri Paracadutisti del Tuscania in diverse missioni in territori bombardati con il DU e al rientro in Italia si era ammalato. Come riportato dal comunicato stampa emesso dall’Osservatorio Militare nel giorno del suo decesso, "gli era stato negato dall’amministrazione militare il riconoscimento di vittime del dovere, ottenuto solo dopo qualche anno, attraverso il legale dell’Osservatorio Militare, e al momento aveva ancora in corso il procedimento giudiziario per il riconoscimento di un adeguato risarcimento".
Una questione che rappresenta dal 2001 una vera battaglia: tra chi nega l’esistenza di una correlazione tra esposizione al DU e malattia, e chi sostiene il contrario con numeri di morti e malati alla mano e sentenze di condanna a carico del ministero della Difesa.
Lo ha ricordato il giornalista Paolo Di Giannantonio, nell’apertura della conferenza tenutasi a Roma presso la Camera dei Deputati lo scorso 4 aprile, organizzata dall’Osservatorio Militare. Dopo aver fornito i numeri del prezzo pagato dai militari italiani impegnati in missioni di pace – ad oggi 7.500 malati e 366 decessi – ha aggiunto che il mancato riconoscimento da parte dello stato italiano dello stato di malattia, o decesso, ha portato molti militari a rivolgersi alle aule dei tribunali. "Sono state emesse 119 sentenze di condanna a carico del ministero della Difesa, tutte seguite dall’avvocato Angelo Fiore Tartaglia, mentre sono ad oggi 352 le pendenze in corso di giudizio".
Tutto questo è avvenuto nonostante l’istituzione nel dicembre del 2000 della cosiddetta Commissione Mandelli , al quale è seguito il lavoro di indagine di ben quattro Commissioni parlamentari d’inchiesta che si sono susseguite tra febbraio 2005 e febbraio 2018, sulle complesse questioni che concernono l’utilizzo dell’uranio impoverito nelle missioni all’estero come nei poligoni e nelle installazioni militari in Italia.
Nella relazione finale dell’ultima Commissione , del 15 febbraio 2018, oltre a proporre un disegno di legge con diversi obiettivi relativi alla tutela dei militari, si è ribadito il "nesso di causalità tra l’accertata esposizione all’uranio impoverito e le patologie denunciate dai militari" attraverso, come ha ricordato il 4 aprile a Roma Gianluca Rizzo, presidente della Commissione Difesa della Camera e anche membro della Commissione, "sette missioni, 50 audizioni libere, oltre 50 esami testimoniali, 33 collaborazioni esterne e 109 sedute".
La novità, rispetto al passato, è che la relazione è stata tradotta e consegnata da Gian Piero Scanu , presidente della quarta e ultima Commissione d’inchiesta, a Darko Laketić, attuale presidente della neonata Commissione di indagine sulle conseguenze del bombardamento Nato del 1999 sui cittadini della Serbia ("Komisija za istragu posledica NATO bombardovanja 1999. godine po zdravlje građana Srbije") in un incontro avvenuto a Roma a marzo 2018.
La messa a conoscenza delle indagini parlamentari realizzate in Italia, ma anche dei dati raccolti in vari studi epidemiologici che ha coinvolto i militari italiani, ha spinto la Serbia a istituire, due mesi dopo, una commissione. Secondo le dichiarazioni rilasciate da Laketić alla RTV lo scorso 19 marzo , la commissione ha già realizzato un’indagine medico-scientifica con la collaborazione dell’Istituto per la salute pubblica “Milan Jovanović Batut ” di Belgrado, centrata sui soggetti nati dopo il 1999 in Serbia centrale: "Dai primi risultati, emerge che nella fascia d’età 5-9 anni si ha una maggiore, e significativa, percentuale di malati rispetto ad altre fasce di età, oltre a una maggiore disposizione a contrarre nel tempo malattie tumorali maligne del sangue".
Ha inoltre aggiunto: "Sappiamo, dai dati in nostro possesso, che sull’insorgere delle neoplasia ha influito un fattore tossico, ma non sappiamo quale dei tanti (…). Rispetto all’uranio impoverito, che nel dibattito pubblico è dominante, devo infatti ricordare che il DU rappresenta solo la punta dell’iceberg. Perché a causa del bombardamento Nato sono state rilasciate nell’ambiente molte e diverse sostanze cancerogene".
Darko Laketić si riferisce alle bombe sganciate sulla Serbia tra il 24 marzo e il 10 giugno del 1999, con l’Operazione Allied Force, che hanno colpito fabbriche, industrie chimiche, depositi di materiale infiammabile e simili. Dai dati Nato, risultano essere stati bombardati con DU 112 siti di cui 1 in Montenegro, 10 in Serbia e 85 in Kosovo. Tra questi, le città di Pančevo e Kragujevac che la Task Force costituita dall’UNEP per indagare sulle conseguenze dei bombardamenti, definì "hot spot". Pančevo, il cui distretto industriale comprende anche un petrolchimico e una raffineria, è stato pesantemente bombardato a partire dal 24 marzo; Kragujevac è stata colpita tra il 9 e il 12 aprile e le bombe – come del resto a Pančevo – hanno provocato la diffusione di diversi agenti tossici e la combustione di agenti chimici.
Non solo. Alcuni mesi dopo la fine dei bombardamenti, il governo aveva stilato un piano di risanamento della fabbrica automobilistica “Zastava” di Kragujevac e gli operai si erano impegnati in prima persona nella bonifica affinché la produzione ripartisse quanto prima. La fabbrica – colpita, come si seppe poi, anche con proiettili al DU – è stata ripulita da decine di operai che, secondo le dichiarazioni pubbliche dei rappresentanti degli stessi, durante la bonifica hanno cominciato a contrarre neoplasie maligne e molti di loro sono poi deceduti.
Il caso di questi operai è stato persino affrontato nel 2007 in una seduta della seconda Commissione di indagine parlamentare italiana: a partire da informazioni sul caso Kragujevac recepiti da Pietro Comba, dirigente dell’Istituto Superiore di Sanità ed esperto di epidemiologia connessa a inquinamento ambientale, era stato proposto di avviare un’indagine epidemiologica approfondita sui circa 1500 operai definiti “casi a rischio” e di cui vi era traccia completa dei anagrafici e medici.
Non se ne fece nulla, né da parte italiana, né da parte serba. Solo il 17 aprile scorso la commissione di Laketić ha scelto Kragujevac come sede della sesta seduta . I membri della Commissione hanno incontrato, tra gli altri, anche una rappresentanza degli operai coinvolti nel 1999 nella bonifica della Zastava, dai quali si è fatta consegnare la documentazione medica.
Laketić, ha concluso il suo intervento del 4 aprile alla Camera dei deputati riportando alcuni dati: "In Serbia abbiamo un grande problema sanitario: assistiamo ad un significativo aumento dell’incidenza delle malattie maligne soprattutto nei giovani, mentre nei paesi dell’Ue è in calo. E siamo certi che dipende dall’esposizione a sostanze tossiche. Come Commissione abbiamo avviato la raccolta nelle zone bombardate con DU e alcuni casi mi hanno colpito molto. Ad esempio il gruppo di 40 persone che hanno bonificato la montagna Pljačkovica (vicino alla città di Vranje, distretto di Pčinj, sudest della Serbia, ndr) sulla quale c’era un ripetitore radiotelevisivo: subito dopo la bonifica tutti avevano presentato lesioni cutanee, 25 sono poi morti di tumori maligni.”
Infine, ha sottolineato l’importanza della collaborazione con l’Italia, che permetterà alla Serbia di proseguire nelle indagini; ha aggiunto che per parte serba c’è la totale disponibilità ad avviare collaborazioni europee e internazionali perché un tema che non riguarda solo i nostri due paesi. Che la questione vada ben oltre i confini italiani, e sia un "tema europeo", è stato dichiarato anche da Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente del Parlamento europeo uscente. Impossibilitato a partecipare all’incontro di Roma ha inviato agli organizzatori un video-messaggio: "Tanti anni fa il presidente della Commissione europea Romani Prodi promise l’istituzione di una commissione d’inchiesta europea, mai mantenuta. Noi (M5Stelle, di cui Castaldo è membro, ndr) porteremo di nuovo quest’istanza in Parlamento europeo, perché dobbiamo pretendere la verità".
Nel frattempo, sul fronte italiano prosegue la battaglia legale. Lo scorso 4 ottobre è stata emessa dalla Corte di Cassazione un’importante sentenza: oltre a ribadire il nesso causale tra uranio impoverito e malattia, ha dichiarato la Difesa colpevole di aver ignorato i pericoli ai quali aveva esposto i propri militari in teatri operativi in cui era stato usato munizionamento al DU, e dunque ritenuto legittimo il risarcimento richiesto dai familiari del militare. La sentenza riguarda Salvatore Vacca, morto di leucemia l’8 settembre del 1999, all’età di 23 anni, dopo aver partecipato ad una missione in Bosnia Erzegovina. Per ottenere giustizia ci sono voluti 20 anni.
Le domande aperte sono ancora molte. Perché lo stato italiano, nonostante l’evidenza di prove, non fa sì che i militari che ne hanno diritto ricevano i dovuti riconoscimenti di legge, senza obbligarli a passare per l’interminabile tunnel delle aule dei tribunali? Perché dopo le indagini promesse, male avviate e poi sospese, dedicate ai civili italiani delle Ong e associazioni che hanno operato nei territori bombardati dalla Nato non sono proseguite? Come mai il governo serbo si sta muovendo solo oggi, dopo che per anni i cittadini di questo paese hanno chiesto (invano) che si avviassero indagini ad hoc come, ad esempio, l’associazione costituitasi anni fa a Vranje ("Udruženja uranijumskih žrtava Pljačkovica 99 ") perché si riconoscessero le vittime della bonifica della montagna?
Come mai in Bosnia Erzegovina, a seguito di un primo tentativo nel 2004-2005 di indagine per parte governativa, i cui risultati per altro non sono stati resi pubblici, vige il silenzio assoluto? Come mai non si alza l’attenzione sulla situazione dei civili in Kosovo, considerato che dei 31mila proiettili al DU usati nel 1999 ben 25mila hanno colpito il Kosovo e, di questi, il 56,47% (17.237) concentrato sul quadrante del paese a nord-ovest (quello, appunto, sotto controllo del contigente Kfor italiano )? Ed infine: viste le molteplici e numerose conferme scientifiche della pericolosità radioattiva e chimica delle munizioni al DU e delle devastanti conseguenze su popolazioni e ambiente, perché non ne viene bandito l’uso?
A 24 anni dai bombardamenti sulla Bosnia Erzegovina e 20 anni da quelli su Serbia e Kosovo, lo scandalo uranio impoverito rimane vergognosamente attuale.