Hasankeyf: l’acqua alla gola

Nel mese di giugno diverrà operativa in Turchia la diga Ilisu. Spariranno per sempre sott’acqua un centinaio di villaggi. Tra questi anche il simbolo di questo disastro sociale ed ambientale, la città di Hasankeyf e le sue millenarie architetture. Un reportage

29/05/2019, Francesco Brusa -

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Hasankeyf vista dall'alto, foto di Francesco Brusa

La decisione, insindacabile, viene comunicata per mezzo di una telefonata. "È stata costruita per voi una casa sull’altra sponda del fiume. Prendere o lasciare". I più prendono, che cosa si potrebbe fare altrimenti? C’è chi, invece, magari si è già spostato verso centri più grandi, come Batman, a circa 40 km di distanza. In ogni caso, per quelli che decidono di accettare la proposta del governo, sembra esserci un prezzo da pagare: le “case sull’altra sponda” sono nuove, appena edificate, e – in fin dei conti – valgono più di quelle vecchie, millenarie, che stanno dall’altra parte. C’è quindi da saldare la differenza: “Prendere o lasciare”.

La nuova Hasakyeft - foto di Francesco Brusa

La nuova Hasakyeft – foto di Francesco Brusa

Hasankeyf, cittadina di circa 7000 abitanti scavata nelle rocce della valle del Tigri, sta per essere completamente evacuata. I suoi monumenti sono stati smembrati pezzo per pezzo e ricomposti altrove, oppure sono stati ricostruiti ex-novo, oppure ancora lasciati dove l’acqua li sommergerà a breve. La diga Ilisu – progettata per la prima volta nel 1954, rievocata da Erdoğan e autorizzata nel 2006 – diventerà operativa a giugno di quest’anno. L’innalzamento del fiume provocherà la scomparsa di più di un centinaio di villaggi, lo spostamento di migliaia di persone, pericolosi cambiamenti idrogeologici, mutazioni microclimatiche poco (o per nulla) studiate. E, secondo le stime, una produzione di energia elettrica di 3800 Gwh all’anno.

Una città simbolo

"Non è tanto importante il fatto che perdiamo il lavoro o le nostre occupazioni. Quello che lasciamo sono le nostre radici, lasciamo 10.000 anni di storia!". Il piccolo bar all’aperto di Süleyman si trova nella parte alta della cittadina, dove la strada in salita lascia spazio alle dritte pareti di roccia e si trasforma in stretti canyon che si incuneano fra le montagne. Attorno alle sedie rosse, oltre alla vista mozzafiato, c’è il filo spinato che delimita l’area dei lavori in corso. "Come tutti, la notizia l’abbiamo saputa attraverso i social media. Poi abbiamo ricevuto la telefonata da parte dell’amministrazione, che ci proponeva una casa nella nuova Hasankeyf".

Le principali attività del villaggio curdo sono l’agricoltura e l’allevamento. Ma, nel corso del tempo, si è sviluppato anche un forte afflusso di turisti e molti degli abitanti hanno dunque aperto esercizi di ristoro o negozi di artigianato. Niente di invasivo o eccessivamente posticcio: superato il ponte sul Tigri, la “zona turistica” – se così si può chiamare – si estende sulla destra in uno stretto e corto vialetto che in breve tempo si conforma ai giardini e alle modeste abitazioni del villaggio. Artukidi, hurriti-mitanni, assiri, urartu, medi, persiani, romani, sasanidi, bizantini, selgiuchidi, ayubbidi e ottomani: sono innumerevoli le civiltà che si sono insediate a Hasankeyf e che hanno lasciato le proprie tracce. In generale, gli abitanti sanno di essere “cittadini di un simbolo”. Simbolo di una storia millenaria che si radica nella terra, cittadini di una patria immateriale che prende forma nella solidarietà di chi si sente curdo e condivide le medesime sorti di segregazione e invisibilità.

Ribaltare lo sguardo

"Ecco, vedi là sopra? Io da bambino vivevo vicino al castello, nella parte alta della città". Adesso Ridvan Hayan abita a Batman. Già militante del partito HDP, ora nel consiglio comunale di Hasankeyf, fa parte anche del Centro per l’Ecologia della Mesopotamia. Ripercorrere con lui le strade del villaggio significa ripercorre una parabola biografica e politica insieme. "I centri che verranno sommersi dalla diga sono 199. Per la nostra lotta, abbiamo puntato su Hasankeyf perché la sua immagine era la più spendibile, anche a livello internazionale. Purtroppo, la nostra richiesta di farne un Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco non è stata accettata: “solo” 9 criteri approvati su 10".

Ridvan ha lo storico delle decisioni e dei numerosi ricorsi nella sua macchina. Continua a “guidare” chiunque glielo chieda attraverso la storia della città e delle battaglie che sono state intraprese per salvarla. "Abbiamo prodotto dei dossier, abbiamo formato dei comitati e organizzato sit-in nel villaggio. Nel 2012 mi hanno accusato di t[]ismo e sono rimasto in carcere per un anno e mezzo". Ma perché a Hasankeyf vince l’AKP? A differenza infatti di altri centri dell’area orientale della Turchia, non c’è stato “bisogno” di imporre il commissariamento. Il partito di Erdoğan è saldamente al controllo del villaggio. "È stato disposto un rimescolamento delle circoscrizioni. Vedi quella parte della città che si trova appena dopo il ponte? Ecco, loro per esempio hanno votato a Batman. Viceversa, abitanti di altri villaggi – che magari non conoscono la causa di questo centro o non le sono vicini – hanno votato alle urne di Hasankeyf".

Ridvan Hayan, foto di Francesco Brusa

Ridvan Hayan, foto di Francesco Brusa

Quello che Erdoğan ottiene attraverso l’attivazione della diga di Ilisu sono sostanzialmente tre cose: un maggiore controllo nell’area della Turchia orientale, un parziale annullamento della storia e dell’identità curde, una leva di “ricatto” verso le popolazioni curde del nord della Siria e dell’Iraq, che sarebbero interessate da una potenziale chiusura o riduzione dell’approvvigionamento idrico.

Nel corso degli ultimi anni, in realtà, Hasankeyf di visibilità ne ha ottenuta molta. La sua vicenda chiama in causa importanti questioni geopolitiche e la stampa, anche internazionale, si è interessata alla zona con reportage, servizi e documentari.

"Ma non è questo che conta!", dice uno degli accompagnatori (che non risiede nell’area), tra il serio e il faceto. "Si è fatto di Hasankeyf una questione politica, e lo è. Ma oramai la politica è tutta marketing ed è su quello che bisogna puntare!". Mentre lo dice è davanti alla “Nuova Hasankeyf”. Una distesa di villette “standard”, che si sviluppa sulla sponda opposta del fiume Tigri. Una caserma, la scuola e qualche piazza di cemento appena aggregato. Alcuni monumenti sono già stati trasportati qui e delle persone si fermano a guardarli, non sappiamo se futuri residenti o semplici visitatori. "Immagina un mockumentary girato per questa città fantasma. Sembra che sia stata appena abbandonata. Cos’è successo? Una catastrofe? Gli abitanti non si trovavano bene? Occorre ribaltare lo sguardo. Qui, ora, è la vera Hasankeyf".

Fino alla fine

Pare che nella Nuova Hasankeyf, dove alcuni già vivono e dove sono già in funzione alcuni servizi (come la scuola), l’elettricità sia ancora intermittente e l’attuazione di un vero e proprio piano urbanistico sia lungi dall’essere completato. "Lì è tutto cemento. In più la coltivazione e l’allevamento sono vietati". Eyüp ha ben chiaro quello che attende lui e la sua famiglia. "Non potrò più lavorare e non potrò più continuare l’attività del piccolo punto ristoro che gestisco alla sommità del paese, dove ci sono le cave". Il piccolo spiazzo in cui serve il çay a visitatori e locali mostra la valle nella sua interezza, e il Tigri sembra ormai più una divisione temporale che geografica. "Che cosa mi mancherà di più di Hasankeyf? Le rocce, il panorama, tutto!". A Eyüp fa eco İlyas, che invece ha una locanda proprio a ridosso del fiume. "La storia della diga va avanti da 40 anni e con questa scusa, qui, non hanno mai costruito una fabbrica, una scuola o un ospedale. Lo sappiamo che ci devono spostare, tanto vale che accada in fretta. Meglio che restare in un limbo dove né ci permettono di vivere dignitosamente né ci sgomberano".

Verrebbe da dire che la Nuova Hasankeyf non sarà mai realmente abitata, poiché nessuno sta realmente scegliendo di farlo. La sua cifra è già quella dell’abbandono, ancor prima che venga vissuta e nonostante – almeno in parte – stia funzionando come città. Ma è una mockucittà, l’imitazione di un passato che, per i suoi prossimi “dis-abitanti”, diventa il segno presente di un’oppressione. "Sono tutte bugie", dice senza mezzi termini Mehmet, uno degli ultimi tessitori dell’area. "Non è vero che devono veramente far passare la diga da qua, potevano tracciare un percorso diverso oppure mantenere il livello del fiume più basso. Vogliono solo distruggere la nostra storia e la nostra cultura. Io, comunque, resterò qua fino all’ultimo. Rimarrò qui col mio corpo, fino a quando non avrò l’acqua alla gola". Con la mente e col cuore, sicuramente anche oltre.

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