Inquinamento: se in Bosnia l’emergenza diventa normalità

A distanza di pochi giorni due report indipendenti fotografano il gravissimo inquinamento industriale in Bosnia Erzegovina. Secondo gli attivisti, all’inefficienza di vecchi impianti si somma quella delle istituzioni, che forniscono dati incompleti e parziali. Così l’emergenza diventa una normalità camuffata

26/07/2019, Marco Ranocchiari -

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Zenica (foto M. Ranocchiari)

In una conferenza stampa tenutasi lo scorso 17 giugno a Zenica, le associazioni ambientaliste Arnika ed Eko Forum hanno presentato un rapporto sull’inquinamento dell’aria dovuto all’attività industriale in Bosnia Erzegovina. Lo studio, mettendo in rassegna i dati ufficiali disponibili, compila una sinistra top ten dei dieci impianti più responsabili di quella che nel paese balcanico sembra avere raggiunto le dimensioni di una piaga ambientale e sanitaria.

Sul primo gradino del podio figura l’acciaieria Arcelor Mittal di Zenica, responsabile, tra l’altro, dell’emissione di 5200 tonnellate di solfati e nitrati nel 2017. Seconda classificata, la centrale termoelettrica di Tuzla.

La lista comprende tabelle sull’emissione di particolato, gas serra e altri inquinanti.

La notizia forse più rilevante, però, è quello che non c’è. Sono infatti scarsissimi, denunciano gli attivisti, i dati messi a disposizione dei cittadini. Quando pure presenti, sono spesso incompleti o inaccurati. La lista è quindi incompleta: non è stato possibile inserire, ad esempio, le centrali termoelettriche di Gacko e Uglijevik, che pure sono stimati considerano tra le più inquinanti d’Europa.

Sebbene la legge imponga l’obbligo da parte dei gestori degli impianti di comunicare i dati sulle proprie emissioni, questo avviene con estrema difficoltà. "Le informazioni sono accessibili solo su richiesta ufficiale. Le autorità competenti rispondono di solito con grande ritardo, quando ormai è troppo tardi per permettere ai cittadini di influire sul processo decisionale", dice il professor Samir Lemeš, dell’associazione Eco Forum.

L’acciaieria di Zenica

L’impianto più inquinante della Bosnia Erzegovina risulta essere la storica acciaieria di Zenica. Ai tempi della Jugoslavia, quando dava lavoro a oltre ventimila persone, era il cuore pulsante della città sul fiume Bosna. L’impianto chiuse a causa della guerra degli anni ’90 e rimase in stato di abbandono fino al 2004, quando il colosso dell’acciaio Arcelor – Mittal (proprietario, tra l’altro, dell’ex-Ilva di Taranto) ne rilevò la proprietà. Quattro anni dopo gli altoforni ripresero la produzione. La speranza di rinascita derivante da questa impresa era scritta nel nome del progetto: Feniks, come l’uccello mitologico che rinasce dalle sue ceneri. Ma dopo undici anni, solo duemila (tremila, se consideriamo gli operai esternalizzati) lavoratori sono tornati al loro posto. L’unica cosa che, oggi, ricorda la mitica fenice sono proprio le ceneri.

Come il particolato PM10: 1400 le tonnellate emesse nel 2017. La soglia di diossido di zolfo (125 microgrammi al metro cubo), che la legge raccomanda di non raggiungere più di tre volte in un anno, è stata superate 124 volte nel 2018. Sempre meglio che nel 2012, la soglia era stata passata 192 volte, e migliaia di cittadini di Zenica erano scesi in piazza, ma la situazione resta disastrosa. Un odore acre di smog impregna perennemente i quartieri vicino agli fornaci, mentre la fornace a ossigeno sparge un fumo marrone che, nelle giornate senza vento, ristagna indisturbato nella città. Numerose evidenze mostrano un aumento nei casi di cancro e di patologie respiratorie nella città di Zenica. Eppure le autorità non hanno finora fatto molto più che fornire rapporti di poche pagine che si limitano a fare un elenco dei casi, rendendo difficilissimo dimostrare una correlazione con l’inquinamento industriale.

Alle manifestazioni, negli ultimi anni, sono seguite le azioni legali. Le associazioni, in particolare Eko Forum, che è riuscita a coinvolgere la municipalità di Zenica, all’inizio recalcitrante, contestano ritardi e irregolarità, oltre alla cronica riluttanza a fornire informazioni.

Vengono in particolare contestate le modalità di rinnovo dei permessi ambientali dell’acciaieria, scaduti nel 2014 e 2015 e rinnovati senza difficoltà dal ministero nonostante numerose inadempienze. Come i filtri per la fornace a ossigeno, che doveva arrivare sei anni fa ed è stata invece appena installata. "È già qualcosa, ma ne servirebbero almeno altre tre", dice il professor Lemeš. Gli attivisti, dopo lunghi negoziati, hanno ottenuto criteri più stringenti per i nuovi permessi. Ma nel febbraio 2019, per una sorta di cortocircuito legale, il tribunale cantonale di Sarajevo pur riconoscendo nel merito molte ragioni agli attivisti, ha respinto il ricorso.

A Zenica si mantiene quindi lo status quo, in una cornice di formale regolarità. Gli attivisti continuano a negoziare, chiedendo, in primo luogo, maggiore trasparenza.

Il rapporto "Lifting the Smog" a Tuzla

Negli stessi giorni della conferenza di Zenica, Bankwatch e altre associazioni presentavano un altro rapporto indipendente, " Lifting the Smog", che accende i riflettori su Tuzla, dove sorge il secondo impianto più inquinante del paese.

La città dell’est del paese, già scintilla delle imponenti proteste di piazza del 2014 e da sempre a vocazione industriale e mineraria, detiene un altro secondo posto, ancora più inquietante: quello della mortalità da inquinamento dell’aria (dati della World Health Organization ). Il complesso della centrale termoelettrica di Tuzla, che comprende anche una miniera di lignite a cielo aperto e una discarica, è stato costruito tra gli anni ’60 e ’70.

In 5 mesi di monitoraggio, si legge nel report, i livelli di particolato PM10 risultavano doppi rispetto al limite medio imposto dalla legge. Al particolato PM2.5, secondo lo studio, sono dovute ben 136 morti precoci nel 2018, cioè il 17% del totale dei decessi tra gli adulti.

La piaga dell’inquinamento è nota alle autorità. La soluzione che propongono, però, appare paradossale agli attivisti: la costruzione di una nuova centrale. Un impianto a carbone da 450 MW, più moderno, che dovrebbe consentire di ridurre gli impatti. Peccato che invece di sostituire quella vecchia, due delle vecchie unità continuerebbero a operare. Difficile quindi parlare di una reale riduzione.

Secondo gli autori dello studio, anche in questo caso, a mancare è soprattutto un reale impegno da parte delle istituzioni, e soprattutto la reticenza a ricavare e fornire informazioni. A titolo di esempio, anche se la legislazione della Bosnia Erzegovina prevede il monitoraggio del particolato, a Tuzla esistono stazioni ufficiali solo per il particolato più sottile (PM2.5), e non per il PM10.

"Le istituzioni responsabili del monitoraggio della qualità dell’aria e delle misure per migliorarla" – si legge nel documento – "non raccolgono i dati che servirebbero per capire e migliorare la situazione".

Conclusioni simili a quelle cui, a Zenica, giunge il professor Lemeš: "Sembra che le autorità, invece che ammettere il problema e cercare una soluzione adeguata, cerchino di minimizzare la gravità della situazione. Usano ancora i problemi sociali ed economici come pretesto per continuare con il business as usual e garantire un po’ di occupazione mentre, in realtà, non si fa quasi niente per sviluppare o attrarre investimenti sostenibili".

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