Fallimento dell’Aluminij di Mostar. Chi ne è responsabile?
Un tempo era la terza azienda della Bosnia Erzegovina per esportazioni, con la sua produzione di oltre 100.000 tonnellate di alluminio all’anno e quasi un migliaio di dipendenti nello stabilimento di Mostar. Ora, la Aluminij, è praticamente fallita. Chi è responsabile di questo disastro industriale?
(Originariamente pubblicato da BalkanInsight il 30 luglio 2019)
Il collasso quasi definitivo della Aluminij di Mostar , un tempo considerata un gigante della produzione di alluminio, è il tema caldo di questa torbida estate bosniaca. Per capire la portata del disastro basta citare qualche numero : all’apice dello sviluppo, la Aluminij era la terza azienda esportatrice in Bosnia Erzegovina, produceva oltre 100.000 tonnellate di alluminio all’anno e impiegava quasi un migliaio di dipendenti nello stabilimento di Mostar e altri 10.000 occupati nell’indotto.
Il fallimento della Aluminij, che sembra ormai inevitabile, avrà effetti devastanti per l’intera Bosnia Erzegovina, ma anche per la vicina Croazia, dal momento che il governo di Zagabria è il secondo maggiore azionista dell’azienda, dopo il governo della Federazione BiH.
Com’è potuto accadere che un gigante della produzione di alluminio sia fallito nel bel mezzo del boom edilizio mondiale ? Ancora più importante: chi è responsabile del collasso di una delle poche aziende profittevoli in Bosnia Erzegovina?
Il diretto responsabile è, naturalmente, il management dell’azienda, incapace e corrotto, che è “riuscito” solo ad accumulare 218 milioni di euro di debiti, perlopiù verso l’EPHZHB [l’Azienda elettrica della Comunità croata di Herceg-Bosna, una delle tre aziende elettriche pubbliche in Bosnia Erzegovina, ndt]. Nonostante la Aluminij di Mostar fatichi ormai da tempo – più precisamente dagli ultimi, caotici giorni della ex Jugoslavia – a sostenere i costi per la fornitura dell’energia elettrica, è sconcertante che un’azienda pubblica – di presunto interesse strategico nazionale – sia costretta a chiudere i battenti a causa di debiti contratti nei confronti di un’altra azienda pubblica.
La situazione appare ancora più sorprendente se diamo una rapida occhiata all’andamento dei prezzi dell’alluminio sul mercato mondiale. Nonostante i prezzi dell’alluminio non abbiano ancora recuperato i livelli record raggiunti poco prima della crisi finanziaria del 2008, sono sostanzialmente tornati ai livelli dei primi anni Duemila. In breve, il mercato dell’alluminio è un mercato liquido, ma non volatile, ed è grazie alla sua crescita che le compagnie come Rio Tinto, Alcoa e RUSAL sono diventate alcune delle più grandi multinazioinali al mondo.
Il problema quindi non è solo il prezzo dell’alluminio, né tanto meno l’incompetenza del management dell’azienda. Le cause strutturali del fallimento della Aluminij di Mostar sono da ricercare nel patrimonialismo politico.
I responsabili del collasso dell’azienda di Mostar sono i leader dell’Unione democratica croata della Bosnia Erzegovina (HDZ BiH), il principale partito dei croato-bosniaci. Sono stati loro a controllare (in)formalmente la Aluminij fin dai primi anni Novanta, mettendo in atto una vera e propria pulizia etnica della forza lavoro impiegata nella fabbrica e piazzando i propri tirapiedi incompetenti nel management dell’azienda.
Già alla fine degli anni Novanta diversi attori internazionali avevano notato che la Aluminij era diventata un covo della criminalità politica ed economica, e l’allora ambasciatore britannico in Bosnia Erzegovina aveva messo in guardia sul fatto che “la struttura [monoetnica] dell’assetto proprietario era illegale e che l’azienda era gestita in modo scandaloso”.
Gli operai della fabbrica Aluminij non hanno alcun dubbio al riguardo. Quando Dragan Čović, ormai da anni leader dell’HDZ BiH – che per due volte ha ricoperto l’incarico di membro croato della Presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina – , si è recato a Mostar per partecipare ad alcuni incontri convocati d’urgenza in vista dell’ormai imminente chiusura della Aluminij, è stato accolto da una folla di alcune centinaia di lavoratori inferociti. La folla ha gridato: "Dragane lopove!" [Dragan, ladro!], attaccando con ripetuti lanci di bottiglie e pietre il corteo di automobili e il cordone di poliziotti in tenuta antisommossa che accompagnava Čović.
È stata la più chiara e impetuosa dimostrazione pubblica di rabbia in Bosnia Erzegovina dopo le proteste del 2014 . Esattamente come in quegli esaltanti giorni di febbraio di cinque anni fa, anche questa volta i manifestanti sono stati spinti da motivazioni socio-economiche, piuttosto che etniche. Il caso della Aluminij illustra chiaramente le conseguenze fatali della cleptocrazia etno-nazionalista che ha contrassegnato l’economia della Bosnia post-bellica.
Del resto, la dirigenza della Aluminij ha fatto tutto quello che le élite etno-nazionali in Bosnia Erzegovina avevano promesso alle rispettive comunità: il management e la forza lavoro sono stati omogeneizzati etnicamente, l’azienda è stata messa sotto il controllo del principale partito dei croato-bosniaci, alla cui leadership è stato consentito di utilizzare la Aluminij come una mucca da mungere. Nessuna sorpresa quindi che la fabbrica, invece di crescere, è andata in fallimento, un fallimento che pesa soprattutto sulle spalle dei semplici cittadini, appartenenti alla comunità i cui interessi avrebbero dovuto essere tutelati dalla cricca dirigente: la comunità croata dell’Erzegovina.
Tuttavia, la protesta di Mostar indica una possibile nuova strada da intraprendere: i croato-bosniaci devono insistere affinché le autorità competenti della Federazione BiH e quelle a livello nazionale portino davanti alla giustizia tutti i responsabili del fallimento della Aluminij, compresa la leadership dell’HDZ BiH.
Čović e la sua cerchia di fedelissimi non devono uscire impuniti da un altro scandalo di corruzione, come già successo tre volte, nel 2006, nel 2010 e nel 2012. Inoltre, se le autorità bosniache possono arrestare il fratello di un magnate dell’acciaio indiano , sono senz’altro in grado di affrontare anche i responsabili del fallimento di una fabbrica di alluminio locale.
Se, com’è probabile, le istituzioni bosniaco-erzegovesi – ormai pesantemente infiltrate dalla criminalità – non dovessero avviare indagini e processare tutti i responsabili del fallimento della Aluminij, saranno i cittadini a punire Čović e compagnia. HDZ BiH non può continuare a derubare i croato-bosniaci, grazie ai cui voti mantiene il controllo sugli ampi segmenti dell’economia grigia ormai dilagante nel paese.
Se dopo il fallimento della Aluminij gli elettori dell’HDZ BiH dovessero continuare a mostrarsi riluttanti a dare il proprio voto a uno dei partiti multietnici – come il Partito socialdemocratico (SDP), il Fronte democratico (DF), l’Alleanza civica (GS) o Naša Stranka – , potrebbero decidere di votare uno dei tanti partiti croato-bosniaci di opposizione.
Come ho già sottolineato più volte, in Bosnia Erzegovina non sarà possibile compiere alcun progresso senza rompere il monopolio politico ed economico della triade etno-nazionalista al potere, composta dall’HDZ BiH, dal Partito di azione democratica (SDA, il principale partito dei musulmani bosniaci) e dall’Unione dei socialdemocratici indipendenti (SNSD, il primo partito dei serbo-bosniaci).
Se i responsabili del collasso della Aluminij di Mostar non dovessero essere identificati e puniti, e se un’efficace strategia anticorruzione non dovesse essere adottata e implementata in tutto il paese, auspicabilmente con l’appoggio della comunità internazionale, il fallimento della fabbrica di Mostar non sarà l’ultima catastrofe sociale ed economica le cui conseguenze peseranno sulle spalle dei cittadini bosniaco-erzegovesi.
Qualora le istituzioni bosniaco-erzegovesi non dovessero adempiere al loro compito di garantire giustizia, le recenti proteste dei lavoratori a Mostar, come quelle del 2014, sfoceranno inevitabilmente in rivolte e tumulti.