Gli slogan dell’89 ora sono dei neonazi

OBCT è tra i fondatori di ECPMF, centro che si occupa di libertà dei media e che ha sede a Lipsia. Proprio lì partirono nell’ottobre dell’89 le manifestazioni che portarono al crollo del Muro. A trent’anni di distanza, uno degli slogan di quell’autunno rivoluzionario, diventa una rivendicazione rabbiosa sui manifesti elettorali del partito di estrema destra AfD

11/11/2019, Paola Rosà -

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Le dimostrazioni del lunedì a Lipsia nel 1989 (Bundesarchiv, Bild 183-1989-1023-022/Friedrich Gahlbeck /CC-BY-SA 3.0 )

“Wir sind das Volk”, noi siamo il popolo. Ai primi di ottobre del 1989, mentre la DDR, Repubblica democratica tedesca, è al collasso finanziario e la stabilità dei paesi del Patto di Varsavia è minacciata sia dalle riforme in Unione Sovietica sia dai moti dal basso che stanno percorrendo un po’ tutti i paesi del blocco, nella Germania dell’Est il dissenso interno diventa protesta sempre più esplicita, ma la dirigenza si ostina a reprimerne ogni minimo accenno. Bastano un cartello, una barzelletta, una passeggiata non autorizzata, e le stazioni di polizia e le carceri si riempiono di migliaia e migliaia di “contestatori”, “agitatori”, “gente che disprezza la propria patria e la oltraggia”. Sono giovani non allineati, ambientalisti, frequentatori dei gruppi di base delle chiese evangeliche, punk e obiettori, che da quasi un decennio, sostenuti da alcuni pastori protestanti, stanno alimentando quella rivolta invisibile che sfocerà nella cosiddetta “rivoluzione pacifica”. Una rivoluzione di piazza, maturata al grido di “Wir sind das Volk”.

Urlato in faccia ai Vopos, ai Volkspolizisten che fanno da cordone attorno alla gente assembrata nella piazza di San Nicola a Lipsia tutti i lunedì, all’inizio di ottobre del 1989 quello slogan diventa una formula di tutela collettiva, il comando pacifista del servizio d’ordine del corteo. Una parola d’ordine che, per la prima volta in quarant’anni di DDR di repressioni di piazze agitate, il 9 ottobre funziona. Per la prima volta, nonostante vi siano 70mila persone a percorrere i viali del Ring, nonostante vi siano grida e canti, per la prima volta le forze dell’ordine stanno a guardare.

“Mi vengono i brividi anche adesso a ripensarci”, mi aveva detto Martin Jankowski dieci anni fa, quando le storie del dissenso nella DDR e quella data di cesura dell’autunno 1989 erano il tema di un libro pubblicato per il ventennale del crollo del Muro. “Si parlava di centinaia di sacchi neri già pronti per contenere i cadaveri, e qualcuno dei funzionari aveva prospettato una soluzione cinese, evidentemente riferendosi a quello che tutti avevamo ben presente, ovvero il massacro di piazza Tienanmen di qualche mese prima”, ricordava Martin, musicista che negli Anni Ottanta partecipava nella chiesa di San Nicola ai raduni clandestini dei dissidenti, riunioni mascherate da celebrazioni di preghiera.

E invece, il giorno dopo la grande manifestazione di Lipsia non si vedranno le carceri riempirsi di dissidenti, ma le stanze del potere aprirsi al dialogo, si vedrà il capo del partito Erich Honecker dimettersi e si sentirà il successore Egon Krenz annunciare il 18 ottobre “la svolta” (die Wende), con la messa a punto di provvedimenti che apriranno la possibilità di viaggiare all’estero senza restrizioni. Fino a quel maldestro annuncio del 9 novembre, trasmesso in diretta tv come del resto lo erano tutte le conferenze stampa del regime.

Un mese prima, a supervisionare il corteo del 9 ottobre 1989 in bicicletta c’era il pastore Christoph Wonneberger, l’inventore delle cosiddette “preghiere per la pace” che da anni si tenevano prima a Dresda e poi a Lipsia. “Già agli inizi degli Anni Ottanta abbiamo pensato alle preghiere per la pace come a una rete nazionale che permettesse di scambiarsi informazioni e restare in contatto aggirando i divieti delle autorità statali ed ecclesiastiche”, mi aveva detto dieci anni fa, quando ancora lo slogan “Wir sind das Volk” e le dimostrazioni del lunedì erano memoria esclusiva della “rivoluzione pacifica” di Lipsia. Di lì a cinque anni, nel 2014, se ne sarebbe appropriato per primo il movimento di estrema destra Pegida (patrioti europei contro l’islamizzazione dell’occidente), associazione regolarmente registrata, che dall’autunno del 2014 organizza a Dresda, proprio ogni lunedì, delle manifestazioni con diverse centinaia di persone, per denunciare la presunta islamizzazione dell’Europa e contestare le politiche migratorie della Germania.

La giravolta è completa e le manipolazioni lessicali, con il contributo di un’ironia da sempre politicamente molto attiva in Germania, abbondano: da una parte, le richieste di democrazia e le iniziative per il disarmo, per il dialogo, contro l’inquinamento, di Wonneberger, insignito nel 2014 del Premio per la libertà e il futuro dei media della Fondazione per i Media di Lipsia ; dall’altra, venticinque anni dopo, gli slogan antieuropei e anti-Islam degli estremisti di Lutz Bachmann, più volte indagato per istigazione all’odio razziale, per arrivare nel trentennale del crollo del regime alla città di Dresda che, approvando a maggioranza del consiglio comunale (39-29) una mozione di Max Aschenbach, esponente del partito satirico Die Partei (il partito), pochi giorni fa dichiara “l’emergenza nazista” (Nazinotstand). Emergenza tutt’altro che satirica.

La complessità dello scenario politico è acuita dalle suggestioni di una memoria linguistica masticata in quarant’anni di divisione fra le due Germanie – quarant’anni durante i quali anche la lingua, come quasi tutto il resto, assume connotazioni diverse – e riesumata in questi ultimi quasi trent’anni di riunificazione per molti aspetti malriuscita. Con le spinte naziste mai efficacemente sepolte (alcuni gruppi naziskin esistevano nella stessa Germania dell’Est, ma la stampa di regime semplicemente non ne registrava la presenza), e le difficoltà economiche che spingono e motivano rivendicazioni anti-europee ma in primis anti-Germania dell’Ovest, lo scenario attuale dell’est tedesco è la prova che il fermento rivoluzionario dell’autunno del 1989 si è spento troppo in fretta. Quei dialoghi fra movimenti di base e regime di fine ottobre sono stati troppo in fretta silenziati a favore della reale “svolta”, quella economica degli aiuti internazionali, della parificazione delle due valute, della riconversione delle industrie, dell’occupazione delle accademie. Neppure Helmut Kohl, il cancelliere di Bonn il cui partito risulta vincitore all’est (marzo 1990) ancor prima della riunificazione (3 ottobre 1990), vuole inizialmente una Germania unita; ma la sua idea di confederazione ha dovuto retrocedere di fronte alle spinte statunitensi per una Germania unica, membro affidabile della Nato.

Non si è andati per il sottile, questa l’impressione di molti. E questa era l’impressione anche di Christian Führer, pastore di San Nicola ai tempi delle manifestazioni del lunedì a Lipsia, intervistato dieci anni fa per il domenicale del Sole 24 Ore: “Basti pensare al 9 novembre, il giorno tragico del pogrom del 1938 a quindici anni dal fallito putsch di Hitler del 1923 ("Putsch di Monaco"), un giorno che in quello stesso ventesimo secolo corrisponde anche al crollo del Muro di Berlino. Certo, come adesso sappiamo, si è trattato di una fatalità, di uno scherzo del destino. Sarebbe potuto accadere cinque giorni prima, poteva anche succedere cinque giorni dopo. Ma il fatto che sia successo proprio il 9 novembre crea tuttora molto imbarazzo, e le celebrazioni ufficiali di quel giorno, ogni anno, hanno sempre un retrogusto spiacevole: si festeggia la caduta del regime della Germania socialista, la ritrovata libertà di un popolo, ma allo stesso tempo si commemorano le migliaia di vittime della "Notte dei Cristalli", e si chiede scusa al mondo per le colpe dei tedeschi nello sterminio degli ebrei. Ecco perché a questa data così sovraccarica di significati, io preferisco di gran lunga il 9 ottobre. Un mese prima del crollo del Muro, un mese prima della festa in mondovisione che avrebbe portato alla riunificazione della Germania; con epicentro a Lipsia e non a Berlino”.

E proprio quando la memoria di quel 9 novembre 1938 sembrava essere ormai seppellita dalla retorica delle celebrazioni del 9 novembre 1989, ecco che in Germania torna l’imbarazzo per le spinte nazi-populiste. Con lo slogan “Wir sind das Volk” sui manifesti elettorali dell’AfD, Alleanza per la Germania, e con la città di Dresda che ufficialmente dichiara la sua “emergenza nazi”. La fretta di archiviare la storia, forse, fa sempre pagare un prezzo.

 

* Paola Rosà è autrice del libro "Lipsia 1989. Nonviolenti contro il Muro", Il Margine

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