Sguardi adriatici: il golfo di Trieste

Trieste, il suo golfo, Miramare e sopratutto il suo vento: la Bora. Un vento a volte mite a volte impetuoso, del quale si possono sentire la voce e l’odore. Continua la nostra esplorazione dell’Adriatico, mare che accomuna

15/11/2019, Fabio Fiori -

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Molo Audace, Trieste( foto © TTL media/Shutterstock)

Quale è il regalo più bello che il Golfo di Trieste può offrire al viandante? sempre che appartenga alla genia degli anemofili, gli innamorati del vento. La Bora ovviamente, “Visitatore sgarbato e violento, per cui la città sta sempre sul chi vive”, avverte Giani Stuparich che negli anni Venti del Novecento gli ha dedicato pagine vibranti come la protagonista. La Bora è un mito adriatico, con un posto d’onore in tutti i portolani mediterranei e anche nella “Guide des vents marins”, una sorta di breviario eolico illustrato di Chasse-Marée, rivista culto della Francia marinara. La Bora, un mezzovento dicevano un tempo i marinai, perché sta esattamente al centro tra due venti principali, il Levante e il Grecale, spira cioè da est-nordest. Ma non è di mitologia, letteratura, meteorologia, cronaca, marineria che vogliamo parlare. Dalla Bora per una volta non ci siamo fatti riempire le vele, ma semplicemente gli occhi, il naso e le orecchie, andando a piedi dalla stazione di Miramare alla Lanterna di Trieste, in una lunga passeggiata, una flânerie della Bora, una ventina di chilometri di erte, scalinate, pastini, sentieri, strade e banchine, tutti abitati da questa demone eolica.

Oggi è una Bora mite, riprendendo sempre le parole di Stuparich, che soffia a venti, venticinque nodi, una Bora chiara che fa risplendere il primo sole d’autunno, dopo giorni d’ottobre vestiti d’estate. È un’aria fresca quella che mi dà il benvenuto appena sceso dal treno alla piccolissima fermata di Miramare, penultima stazione sulla gloriosa Ferrovia Meridionale, la Südbahn che collega Vienna a Trieste dal lontano 1857. Quello di Miramare è un originale “fabbricato viaggiatori” in legno, ottocentesco, elegante ma bisognoso di restauri, deserto questa mattina. Qui scendevano i reali per raggiungere il Castello omonimo, qui scende il flâneur alla ricerca di una relazione intima con la Bora. Prendo il sentiero che porta a Contovello, su suggerimento di Maila appassionata di legni, vele e venti. Sale ripido, stretto da un bosco nuovo, che ha invaso gli antichi terrazzamenti, i pastini, un tempo preziosi coltivi. Qualche piccola vigna, nei bellissimi ocra autunnali, testimonia ancora difficoltà e fertilità di un costone che scende ripido verso l’Adriatico. Ogni tanto si mostra in tutto il suo seducente fascino, impreziosito dai colori del fogliame di lecci, carpini, ornielli, aceri e terebinti. Nel controluce il mare è una lamina d’argento arabescata dalla Bora che sembra entusiasta di aver finalmente ritrovato la libertà. Raggiungo Prosecco, un borgo che ha dato il nome al ben più noto vino qui ormai quasi estinto, reinventato qualche decennio fa in Veneto, ed esportato in tutto il mondo. Un vino e una storia che è perfetta metafora dell’erranza mediterranea, di innesti felici di uomini, arti, culture e colture in terre diverse da quella d’origine. E a proposito di piante, molto meno nota, più umile, ma altrettanto esemplificativa è la storia del terebinto, lo spaccasasso. Originario dell’Isola di Chio, diffuso in tutto il Mediterraneo, oltre a tanti, dimenticati, utilizzi di legni, foglie, drupe e linfe, è anche il portainnesti del pistacchio, un archetipo alimentare mediterraneo, insieme a uva e oliva.

Subito fuori l’abitato, in direzione del Santuario di Monte Grisa, la strada si biforca e da qui parte uno dei sentieri più spettacolari dell’Adriatico, la Strada Napoleonica o più propriamente Vicentina, dal nome del progettista Giacomo Vicentini. Una strada che di napoleonico ha solo la leggenda, di vicentino ha solo il progetto, perché non è mai stata completamente realizzata; oggi diciamo per fortuna, visto l’utilizzo pedonale, meditativo, conviviale. Una strada incompiuta che diventa sentiero delle meraviglie, per la pace rupestre, per la vista sul Golfo, per il clima mite anche nei giorni autunnali e invernali di Bora. La strada prima, il sentiero poi è tutto ridossato al ciglione e qui la Bora diventa innanzitutto un odore. Di pietre carsiche, di macchia mediterranea, di calciti e di resine. Lasciata la festosa convivialità degli scalatori che si allenano sulle spettacolari bianche pareti tagliate nell’Ottocento per far passare il primo tratto della strada, che diventa poi una più stretta carrareccia, cammino in compagnia di qualche refolo ribelle che si destreggia tra rami e speroni. Sono anemoi, demoni del vento, che qualche volta invitano ad accelerare il passo altre volte a fermarsi.

Mi siedo sul muretto al sole, sotto di me troneggia il Faro della Vittoria e più lontano si vedono i porti triestini, le navi alla fonda, i profili della costa istriana. Ma chiudo gli occhi e respiro profondamente, per concentrarmi sulla relazione olfattiva con la Bora, perché questi profumi pungenti si facciano ricordi duraturi. Riprendo il cammino e raggiungo l’Obelisco, simbolo dei fasti asburgici e del progresso, qui fattosi Strada Nuova nel 1830, da Trieste a Opicina. Se la strada asfaltata è molto trafficata in questo giorno di festa, chiusa e desolante è la situazione della strada ferrata che collega piazza Oberdan a Trieste con Opicina. “Il servizio della linea 2 (tram di Opicina) è temporaneamente sospeso”, si legge sul sito dell’azienda di trasporti triestina, un lungo temporaneamente che dura dall’agosto 2016. Scendo così a piedi per la Scala Santa, che non ha gradini! ma delle scale ha strettezze e ripidità. Un’erta di 2.050 metri di lunghezza, 16,5% di pendenza media, con picchi al 21%, fondo in pavè, raccontano con orgoglio pedalatorio gli organizzatori della “Rampigada Santa”, una cronoscalata che è anche una dichiarazione d’invito all’andare in bici. Io scendo, spinto dalla Bora e dalla voglia di ritornare a camminare sulle rive, attraversando il quartiere popolare di Roiano, dal passato industriale legato alle distillerie Stock, al presente incerto e malandato di tante periferie italiane. Passato Ponterosso si aprono le rive, rese oggi ancora più festose dal sole e dalla Bora. Il Molo Audace è la più conosciuta e frequentata negli itinerari della Bora. Anche io non mi sottraggo alla ritualità, che si compie su una panchina rileggendo a voce alta la travolgente poesia futurista “bora+polvere”:

ssssssSSSSSSSSSSSSSSSSSssssssssssSSSSSSSSSSSSsssssss

impetuose raffiche di bora ssssssssssssibilando sbattono usci e

finestre…

VELOCITA’ 80 – 90 – 100 – 120 – 160 chilometri all’ora

(desiderio di usufruire de la sua potenza per essere trasportati oltre i / limiti d’ogni concepimento umano)

B spazzina insuperabile concorrente degli a la pubblica nettezza

O ladra di tegole e comignoli

R alimentatrice di incendi

A migliore disinfettante contro le malattie infettive.

Una lettura che suscita una certa, anche se discreta, curiosità in una coppia di ragazzi orientali impegnati a raccogliere fotografie per una loro “storia della Bora” che immagino soffi in diretta sui social. La sosta è breve perché della Bora voglio ascoltare la voce in un teatro d’eccezione: la vecchia Lanterna, inaugurata nel 1833 che proprio tra pochi giorni celebra i 50 anni dalla dismissione. Arrivo nel tardo pomeriggio e ad attendermi c’è Pierpaolo, presidente della Lega Navale Italiana di Trieste, orgoglioso custode di questa monumentale icona, un farista dell’anima, quello che conserva la memoria di una lampada spenta tanti anni fa. Con un sorriso complice mi lascia salire da solo i 145 gradini in pietra che portano al penultimo piano, dove s’apre il ballatoio che corre tutt’intorno alla sommità della torre. Ma non apro la porta, non esco subito, non mi getto tra le mani della Bora. Salgo invece ancora; dieci gradini in ferro che portano alla lanterna, vuota senza il fanale ma per paradosso forse ancora più perfettamente acustica. O almeno la mia attenzione è rapita dalla voce della Bora, che quassù regala un concerto indimenticabile, sonorizzando in maniera perfetta il film sulla città, sempre differente per colori del cielo e del mare, per situazioni portuali e urbane. La sala è un ottagono che ha struttura in ferro verniciata di bianco, con tre finestre lunghe e strette per ogni lato. Lassù si sente ancora il rumore delle gesta epiche dei faristi adriatici, evocate nel racconto di Paolo Rumiz. Protagonista è nonna “Onca”, la moglie dell’ultimo fanalista, morto proprio nel faro negli anni Sessanta. Storia di solitudini e tempeste in isole istriane e dalmate, di una vita che brulicava sulle rive triestine. Alzo gli occhi dalla pagina e il fiammeggiare del crepuscolo m’inebria.

La Lanterna è ancora un caleidoscopio su Trieste, sul Golfo, sull’Adriatico che navighiamo tutto fino a un altro faro, quello della Palascia che segna il confine con lo Ionio. È un viaggio felice, con la Bora che riempie le vele di fantasie selvatiche e fanciullesche.

 

PS

Non di sola geografia, storia e cultura sono fatte le città, ma anche di meteorologia. Quindi prestate particolare attenzione alle previsioni del tempo prima di andare a Trieste. E se comunque vi capiterà di visitarla in una maledetta giornata di bonaza, andate almeno a vedere, sentire, annusare la Bora nel Magazzino dei Venti “lo spazio del vento e della fantasia”, in via Belpoggio 9.

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