L’idea di Europa in Bosnia Erzegovina, tra politica, cultura e identità
Un approfondimento sui contenuti del secondo panel della conferenza “Italia e Bosnia Erzegovina: Balcani ed UE da un secolo all’altro” svoltasi a Sarajevo il 28 e 29 novembre scorsi, co-promossa da Ambasciata d’Italia in BiH e OBCT/CCI
Grande: l’Italia e l’impegno per l’allargamento UE
È stata la presidente della Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati, Marta Grande (Movimento 5 stelle) ad aprire i lavori, con alcune riflessioni sull’idea di Unione Europea e sulla posizione dei Balcani in essa. “Sarajevo è il centro di valori e principi intimamente europei, del multiculturalismo e del pluralismo religioso. Ma oggi è anche il fulcro di due direttrici, quella tra ovest ed est, che va da Lisbona e Tbilisi, e quella tra nord e sud, da Stoccolma a Lampedusa e Malta. I Balcani rappresentano dunque una centralità europea, ma anche l’ambizione di molti attori internazionali; qui si giocano i destini dell’Europa”.
Grande ha espresso un giudizio severo sull’attuale stallo del processo di integrazione europeo su cui, ha affermato, “si stanno sovrapponendo resistenze endogene ed esogene. La decisione dell’ultimo Consiglio Europeo sul rinvio dell’apertura dei negoziati con Albania e Macedonia del Nord, presa su pressioni anzitutto della Francia, ma anche di Danimarca e Olanda, costituisce un grave []e storico che rischia di minare irreparabilmente la stabilità e la prospettiva UE di tutti i Balcani occidentali”.
Questa critica allo stop dei negoziati, sottolinea Grande, è stata espressa anche dal governo italiano e dal Parlamento europeo con la risoluzione del 24 ottobre scorso. “È un []e storico perché l’allargamento è uno dei maggiori successi della politica estera dell’UE. Senza l’allargamento non sarebbe stato possibile l’emergere dell’UE come un attore internazionale impegnato per costruire pace e sicurezza, e cadrebbe ogni argomento a sostegno di un seggio per l’UE al Consiglio di Sicurezza ONU”.
L’Italia, ribadisce Grande, “è pubblicamente impegnata affinché l’integrazione dei Balcani Occidentali resti in cima all’agenda del Consiglio Europeo, come affermato dal ministro degli Esteri Di Maio. Daremo slancio al mandato della nuova Commissione europea, la cui presidente Von Der Leyen ha auspicato un’UE che dimostri ‘affidabilità’ verso i Balcani occidentali, con cui condividiamo lo stesso continente, la stessa storia, la stessa cultura, e lo stesso destino”.
Allo stesso tempo, “vi è preoccupazione sul venire meno della motivazione di paesi come la Bosnia Erzegovina sulle riforme nello stato di diritto, nella lotta alla corruzione, nel rafforzamento degli standard democratici”, ha affermato Grande. “La partita non si gioca su reciproche concessioni tra UE e Bosnia Erzegovina, bensì su bisogni e aspettative dei popoli europei. È necessario contrastare le organizzazioni criminali che controllano le rotte dell’immigrazione, il traffico di organi, il radicalismo fondamentalista”. Occorre poi “un impegno convinto per superare la frammentazione istituzionale e politica che caratterizza l’ordinamento bosniaco”. In conclusione, Grande ha annunciato che si svolgerà presto una riunione tra le commissioni affari esteri dei rispettivi paesi, per individuare “specifici indirizzi” per i propri governi e portare avanti azioni congiunte sui “temi che ci uniscono”.
Mujkić: una narrazione di speranza sociale per l’Europa
“Stiamo vivendo una delle più grandi crisi nella storia della Bosnia Erzegovina”, ha esordito Asim Mujkić, docente di filosofia politica all’Università di Sarajevo. Questa crisi, secondo Mujkić, conduce a una domanda centrale: “Quali sono le cause di una tale mancanza di speranza, soprattutto tra i giovani, che li spinge a comprare un biglietto di sola andata e lasciare questo posto per sempre? Quello che oggi ci manca, e che invece ci aveva permesso di superare gli anni del dopoguerra, è una narrazione di speranza sociale: una narrazione di stato sociale, di valori liberali e democratici, di inclusione delle minoranze e di tutti i gruppi che riconosciamo come ‘altri’, di diritti delle donne”. Questa narrazione di speranza era basata sull’illuminismo e “su una specifica interpretazione dei diritti fondamentali dichiarati dalla Rivoluzione Francese: libertà, uguaglianza, fraternità”.
Tuttavia, ha sostenuto Mujkić, “questa narrazione oggi sta svanendo, e non solo in Bosnia Erzegovina. Oggi sentiamo ancora alcuni parlare di valori europei, ma devo ammettere che suonano come un’utopia. Dopo la crisi del 2008 gli europei hanno realizzato che lo stato sociale costa, così si stanno sbarazzando di questo modello. Anche i valori liberal-democratici sono sotto attacco. I diritti delle donne sono limitati dalle idee conservatrici sulla maternità, dalle politiche demografiche. Si afferma il principio per cui il proprio modo di vivere si deve proteggere tenendo lontani i migranti. Questi valori sono di fatto simili a quelli che la Bosnia Erzegovina e i paesi dei Balcani occidentali governati dai nazionalisti già hanno. Quindi l’Europa sta, per così dire, progredendo verso quel modello”.
Di fronte a questi problemi, bisognerebbe “riaffermare una nuova narrazione di speranza sociale”, ha affermato Mujkić. Una narrazione “che dovrebbe essere inclusiva e convincente, non solo per i cittadini dell’UE, ma anche per i cittadini dei paesi balcanici. C’è bisogno di una narrativa di speranza, soprattutto in paesi come la Serbia e la Bosnia Erzegovina, che non raggiungono nemmeno il livello di PIL che avevano nel 1989. L’alternativa è un’Europa di stati sovrani e ostili l’uno con l’altro, con confini segnati da fili spinati. Non penso che gli europei abbiano davvero bisogno di questo”.
Il processo di europeizzazione iniziato a metà dell’Ottocento nella regione balcanica generò un paradosso, ha spiegato Mujkić. “L’ europeizzazione, o modernizzazione, ha portato secolarizzazione, attività commerciali, industrie. Ma ha portato anche il concetto di stato-nazione, la formazione di coscienze nazionali, il nation-building, vitale nel processo di europeizzazione, si è tradotto in una invocazione di stati-nazione etnicamente omogenei. Questo modello, applicato a società plurali come la Bosnia Erzegovina, non poteva che terminare in tragedia. L’identità politica e culturale della Bosnia Erzegovina è stata tradizionalmente marcata dalla dispersione. Questa costellazione non ha mai conosciuto una vera e propria sintesi unitaria, ma allo stesso tempo non è mai crollata, né si è mai dissolta in unità marcatamente differenti. L’eterogeneità tipica della Bosnia Erzegovina era ostile all’immaginario dei nazionalisti, che vedevano questo paese come un semplice spazio aperto per le proprie aspirazioni di unificazione territoriale. L’eterogeneità significa apertura e inclusività, mentre omogeneità significa chiusura e esclusività.
Ci è voluto, ha ricordato Mujkić, “un modello di modernizzazione totalmente diverso per affrontare la pluralità: il socialismo. Durante la Seconda guerra mondiale, le forze socialiste si sono chieste quale fosse la forma costituzionale migliore per garantire la pluralità. Il 25 novembre scorso correvano i 76 anni della prima dichiarazione del Consiglio rivoluzionario Antifascista della Bosnia Erzegovina (ZAVNOBIH) che definì la Bosnia Erzegovina come appartenente in egual misura a musulmani, serbi e croati, ma allo stesso tempo a nessuno dei tre. Il principio fondante della costituzione bosniaca iniziava, paradossalmente, con una negazione: non appartiene a questo o a quello o all’altro gruppo, ma a tutti e tre contemporaneamente. È stato un principio di negazione (la Bosnia non è né musulmana, né serba, né croata), in scambio dialettico con un principio di affermazione (la Bosnia è sia musulmana, sia serba, sia croata) ad aprire uno spazio per processi di integrazione sociale e politica.
Pur con tutte le contraddizioni ideologiche e storiche la soluzione della ZAVNOBIH, secondo Mujkić, “potrebbe dare delle risposte utili alle riflessioni sulla forma futura della comunità europea, in termini di teoria politica e di come organizzare la pluralità sociale. Questa è la questione più difficile per l’Europa di oggi. O si trova qualche formula abbastanza aperta e inclusiva, oppure si insisterà ancora sulla chiave etno-nazionale, sulla supremazia, e anche sulla purezza bianca”. Lo ZAVNOBIH, ha ricordato Mujkić, “nella sua seconda dichiarazione del 1944, riconobbe anche i diritti individuali dei cittadini bosniaci, 4 anni prima della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Questa combinazione di principi comunitari e libertari ha funzionato. La Bosnia Erzegovina, pur con tutti i limiti ideologici e materiali, è riuscita a progredire economicamente e politicamente”.
È invece dopo la caduta del Muro di Berlino che, ha concluso Mujkić, “il paradigma del nazionalismo è tornato. C’è quindi una narrazione a due voci nel processo di europeizzazione, che è paradossale: plurale ed egemonica. Quest’ultima deve essere superata in futuro”.
Andjelić: una storia di incontri e scontri
Neven Andjelić, docente di relazioni internazionali alla Regent’s University di Londra, ha dedicato il suo intervento a precisare e decostruire alcune narrazioni comuni sulla storia e cultura della Bosnia Erzegovina. “Prima di tutto, ricordiamo che la Bosnia Erzegovina non è Sarajevo. È molto di più: diversità di architetture, culture, religioni è ovunque nel territorio”. Andjelić ha ripercorso gli innumerevoli incontri tra Bosnia Erzegovina ed Europa nell’epoca contemporanea, partendo dal periodo austro-ungarico. “In parte è stato un periodo positivo, di sviluppo economico, migliore amministrazione, di nuove forze lavoro e capacità. Ma alla fine dell’occupazione austro-ungarica l’88% della popolazione era analfabeta. Il nazionalismo nasce come un concetto intellettuale, impossibile da diffondersi senza alfabetizzazione. E l’impero austroungarico temeva così tanto il nazionalismo che combatté anche in questo modo contro ogni forma di autogoverno e di autonomia”.
L’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando è, notoriamente, uno degli incontri più forti e violenti tra Bosnia Erzegovina e Europa. “Questo alimenta il discorso sulla balcanizzazione, sulla presunta selvaticità dei Balcani. Eppure – ha osservato criticamente Andjelić – all’inizio del Novecento fu assassinato un presidente degli USA, un’imperatrice d’Austria fu accoltellata da un anarchico italiano, e presidenti, zar, primi ministri furono assassinati o feriti. Che piaccia o no, a inizio XX secolo l’assassinio era uno strumento legittimo di lotta politica, non dimentichiamolo. Ma il mondo ha imparato solo cosa è successo in Bosnia, cos’era la Giovane Bosnia (Mlada Bosna), la gente di qui, il processo… Eppure non sono state bosniache le forze che hanno condotto alla guerra”.
Ci furono anche incontri positivi, un aspetto pro-europeo della Bosnia Erzegovina che Andjelić ha voluto sottolineare. “Uno dei membri della Giovane Bosnia si chiamava Dimitrije Mitrinović, originario dell’Erzegovina. La Giovane Bosnia era in fondo simile alla Giovine Italia, alla Giovane Svizzera, ai Giovani Turchi: movimenti giovanili che volevano cambiare la propria epoca. Per sua fortuna, nel 1914 Dimitrije Mitrinović si trovava in Germania. Era membro del Blaue Reiter, era amico di Kandinsky e Ivan Mestrović, scriveva per diverse riviste, e formò il Gruppo per la Nuova Europa. La sua idea era di un’Europa federale, un’unione federale di repubbliche”. La figura di Dimitrije Mitrinović, ha segnalato con rammarico Andjelić, è poco ricordata nella Bosnia Erzegovina di oggi. “Eppure dovremmo celebrarlo: fu una delle prime idee di unità europea, con un’idea innovativa, perché cercava una terza via tra socialismo e liberalismo. È qualcosa con cui facciamo i conti ancora oggi: dopo la caduta del Muro, e soprattutto dopo la crisi del 2008, siamo ancora in cerca di un modello”.
Gli incontri tra Europa e Balcani sono fatti anche di migrazioni, e Andjelić ha ricordato l’ondata dei gastarbeiter, per lo più lavoratori manuali provenienti dalla Jugoslavia, molti dalla Bosnia Erzegovina, verso un’Europa bisognosa di forza lavoro. “In verità non fu un fenomeno specificamente jugoslavo. C’erano migranti anche da Italia, Grecia: il sud Europa che incontrava l’Europa nord-occidentale, e quest’ultima che cominciava a conoscerci”.
Sottolineare le differenze, però, può essere fuorviante: “È molto popolare dire che Sarajevo è il luogo dove ‘l’est incontra l’ovest’. Secondo me non è così, perché a est e a ovest di Sarajevo la cultura è la stessa, il linguaggio è lo stesso. Però ci sono turisti che vengono qui per questo e spendono i loro soldi, studenti che vengono qui per questo. Quindi gli abitanti di Sarajevo, e anche tanti enti istituzionali e culturali, si dicono: perché no? Loro giocano con questa definizione di est che incontra l’ovest, e anche all’Europa e alla sua élite politica e culturale piace sentirsela dire”.
Le radici dei problemi, per Andjelić, non sono nelle leggi ma nella loro applicazione. “La legislazione di per sé è positiva. Il problema è uno stato che si basa sulle relazioni personali, non sulle istituzioni e sullo stato di diritto. Questo è stato l’ultimo paese in Europa a organizzare un Pride, un fatto che doveva simbolicamente marcare l’ultimo passo verso la democrazia liberale, condizione per entrare in UE e soddisfare i suoi valori di dignità umana. Eppure, recentemente ci sono state riduzioni d’acqua a Sarajevo. Questo è un altro attacco alla dignità umana. Le limitazioni alla libertà di espressione e ai media indipendenti sono altri problemi non risolti. E poi la democrazia, i verdetti della CEDU. Ad esempio io non posso essere presidente della Bosnia Erzegovina, anche se vorrei tanto esserlo! C’è poi la questione dell’uguaglianza di genere. In un famoso e recente articolo si chiedeva se la Bosnia non fosse diventata il posto peggiore in Europa per le donne . In Ruanda, che nel 1994 ha avuto un genocidio, i due terzi dei parlamentari sono donne. Dovremmo pensare a come cambiare queste cose, ma il nostro dibattito interno non è mai su questi temi”.
Il giudizio finale di Andjelić sulle istituzioni bosniache è stato molto duro. “Noi ora non abbiamo una vera democrazia. Almeno, non una democrazia liberale. Abbiamo una democrazia guidata, simile a Ungheria, Polonia, Russia o Turchia. Abbiamo persino delle forme sottili di totalitarismo. Pensiamo alla libertà di espressione: si può discutere liberamente? Si può andare a Banja Luka e celebrare la festa nazionale della Bosnia Erzegovina [il 25 novembre, non riconosciuta dalle autorità della Republika Srpska, ndA]?” Non proprio. Si può discutere in modo costruttivo della guerra, e riflettere se è stata una guerra civile, o una guerra d’aggressione, o se ci sono elementi di verità in entrambe le interpretazioni? Non proprio. Si scoraggia la discussione pubblica e ci si aspetta che ognuno si esprima secondo la narrazione dominante. Questo è un fallimento delle istituzioni, dovuto a una forma di potere autoritaria e personalista”.
Per cambiare questo quadro così desolante, sono più importanti le forze interne alla Bosnia Erzegovina o quelle esterne? La risposta di Andjelić è stata netta: “Forze interne esistono, ma sono troppo deboli. Non può esserci cambiamento dall’interno a meno che non ci sia una rivoluzione. Quindi servono forze esterne. Ma il problema è che non c’è una minaccia di sicurezza proveniente dalla Bosnia Erzegovina. È un luogo sicuro, quindi UE e USA non sono preoccupati. Si preoccupano solo quando pensano che la Russia stia combinando qualcosa, o che la Cina stia investendo, e solo allora si informano su cosa succede e su come possono aiutare. Solo le forze esterne possono contribuire a cambiare il sistema elettorale, a una riforma delle istituzioni che de-personalizzi la politica, a introdurre accountability e controllo delle privatizzazioni”, ha concluso Andjelić.
Puhalo: Bosnia-UE, la “dura realtà”. Valori che cambiano, percezioni che si allontanano
L’intervento di Srdjan Puhalo, sociologo e analista politico di Banja Luka, è iniziato con una riflessione sul concetto di identità, da lui definita come “qualcosa di fluido e mutevole, una totalità dell’essere umano che lo lega con ciò che egli/ella è stato, ciò che è oggi, e ciò che prevede che sarà in futuro. Però questo principio è valido sul piano individuale. Una identità collettiva è solo un insieme di individui o qualcosa di più? Rispetto alla Bosnia Erzegovina, parliamo di una identità o più identità? E come si relazionano con l’Europa?” Queste domande sono servite a Puhalo per riportare a quella che lui stesso ha definito più volte come “la dura realtà di questo paese”: “In un sondaggio svolto nel 2010, alla domanda ‘Vi sentite europei?’, il 54% dei cittadini bosniaci ha detto sì. Nel 2017, alla stessa domanda, i sì sono stati il 57%, quindi un risultato molto simile. Ma in Bosnia Erzegovina siamo davvero europei? Oppure vogliamo essere serbi, croati, bosgnacchi, oppure turchi, russi? Io non darei per scontato che vogliamo essere solo europei”.
A questo punto Puhalo ha segnalato un paradosso: “Se scorporiamo i dati secondo l’appartenenza etnica, sono i bosgnacchi a sentirsi più europei, poi i croati, e per ultimi i serbi. Eppure dall’UE giungono messaggi che la Bosnia Erzegovina è la ‘polveriera’ del radicalismo, anzitutto quello islamico, e poi tutti gli altri. Pensate alle dichiarazioni della presidente croata Kolinda Grabar Kitarović e del suo omologo francese Macron: su cosa si basa il loro messaggio? Su fatti o sulla necessità interna per le loro campagne elettorali? Pensate alle ultime elezioni in Austria, in cui uno degli argomenti di cui si è più parlato è che la Bosnia Erzegovina è pericolosa per l’UE”.
L’auto-identificazione con l’Europa deve essere esaminata con attenzione. “Chiediamoci cosa ci rende europei. Geografia, storia, valori? Io non sono sicuro che l’Europa geograficamente o storicamente ci voglia con sé. Quindi dovrebbero essere certi valori. Ma quali? Quelli che propone l’UE sono diritti umani, dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, diritti delle minoranze. Ma siamo sicuri che questi valori siano davvero un patrimonio reale nell’UE di oggi? L’UE di oggi è Orban, Merkel o Macron? Ciascuno di loro rappresenta valori contrapposti, e sono convinto che oggi in Bosnia Erzegovina a molti piacciano quelli di Orban”.
Puhalo ha citato diverse ricerche svolte tra i cittadini bosniaci, i cui risultati possono apparire sorprendenti: “Alle domande sui valori che a loro importano, le risposte più numerose non sono libertà e democrazia, ma questioni molto pragmatiche: lavoro, stato sociale, giustizia. Per me non è importante se entreremo davvero in UE oppure no, ma quali sono i valori su cui si basa la nostra integrazione, e chi riuscirà ad affermarli”.
Un’altra questione importante, secondo Puhalo, è “come l’Europa vede noi dei Balcani, cosa siamo noi per l’Europa”. Ma anche in questo caso, le risposte non sembrano scontate né prive di paradossi. “In questo periodo tutti parlano di Macron e della sua decisione di chiudere ai negoziati con Macedonia del Nord e Albania. Ma questa vicenda non è solo di queste settimane: viene da lontano. Guardate la situazione dei migranti: la Bosnia Erzegovina è un filtro per bloccare i migranti in arrivo. Oppure è possibile che i Balcani servano all’Europa per avere qualcosa con cui compararsi e verso cui sentirsi superiori, così che gli europei possano dire ‘non siate come loro, siate migliori di loro’. Parlo di come l’UE percepisce noi, ma anche di come noi percepiamo noi stessi. O forse avremmo bisogno di essere partner uguali con l’UE? Ma non sono sicuro che i paesi entrati più recentemente nell’UE, rispetto ai paesi del nucleo storico comunitario, siano davvero percepiti come partner. La gente qui in Bosnia Erzegovina si accorge di questo. D’altra parte, forse oggi siamo percepiti come ‘più europei’ di una volta, perché è meglio essere bosniaci erzegovesi che afgani, siriani, iracheni… Il paradosso è che In Austria l’estrema destra ha raccolto voti dai serbi perché questi preferiscono che, se proprio deve arrivare qualcuno, vengano ‘questi dei Balcani’ invece dei migranti dell’Asia.
Quindi, in definitiva, i bosniaci vogliono l’UE? “Secondo un sondaggio del 2019, il 56.2% dice sì”, ha risposto Puhalo. È emersa però subito un’altra domanda: “Cosa succede allora con il restante 40% e oltre? Visti questi numeri così incerti, non penso che accettare che noi vogliamo entrare in UE a priori sia una buona strategia. In fondo, quelli che vogliono davvero entrare in UE cercano di ottenere il visto per emigrare. E poi con chi entreremmo in UE? Con l’attuale classe politica, che non ha interesse di cambiare la situazione. Questa è la prima cosa che dovrebbe capire la gente qui: i nostri politici attuali non vogliono il bene della propria gente. Hanno avuto 25 anni per dimostrarlo”.
Quando si parla del cammino della Bosnia Erzegovina verso l’UE, un argomento frequente è che “non ci sono alternative”. Puhalo ha messo in discussione anche questo punto, riprendendo il sondaggio del 2019 già citato in precedenza: “Alla domanda se c’è alternativa all’UE, il 42% dice no, il 43.2% sì. Però non è stata chiesta quale alternativa. L’Unione Eurasiatica? L’autosussistenza? Non lo so. Ma in ogni caso, su questo bisogna riflettere”.
La conclusione di Puhalo non ha fatto sconti a nessuno: “Mi spiace essere deprimente, ma questa è la dura realtà che bisogna considerare. Forse l’UE è stata attrattiva dieci o quindici anni fa, oggi non lo è più come allora, perché quella narrazione non funziona più. Quell’innamoramento è passato. Ora vediamo un’UE totalmente diversa, che compie violenza contro i migranti, che guarda agli interessi dei propri singoli paesi, da cui peraltro la gente va via. Per noi in fondo l’UE è anzitutto la Croazia, un paese con cui ci possiamo confrontare e in cui possiamo vedere cosa succede. In Croazia vediamo la gente che emigra in Irlanda o in altri paesi, vediamo la gente che non rinuncia a ideologie della Seconda guerra mondiale. Quindi è lecito chiedersi se è questa l’UE a cui vogliono aderire i cittadini della Bosnia Erzegovina. E sorge un’altra domanda: chi si prende la responsabilità della mancata integrazione? La comunità internazionale, che è qui ferma da 25 anni? I politici locali, che in questo paese fanno quello che vogliono? I cittadini, da cui forse ci si aspetta troppo?”
Belloni: Dare risposte ai cittadini per rilanciare l’allargamento UE
Roberto Belloni, professore ordinario di scienza politica all’Università di Trento, ha ripreso ad analizzare la disillusione in Bosnia Erzegovina e nella regione rispetto all’UE, che “è sempre più visibile. Vi erano grandi aspettative all’inizio degli anni 2000. Si pensi alla Dichiarazione di Salonicco che affermava la prospettiva UE con forza e decisione. L’integrazione sembrava costituire un passo avanti fondamentale, e in parte lo è stato, soprattutto per la Bosnia Erzegovina, introducendo strumenti nuovi. Nei primi anni 2000 si pensava che l’integrazione potesse stimolare un processo di riforma interno, non più con un’imposizione dall’esterno, non più con i “poteri di Bonn”, ma spingendo per una riforma dall’interno che facesse riferimento ai valori fondanti dell’UE: democrazia, diritti individuali, autodeterminazione e tutele collettive, stato di diritto”.
Questo processo non ha però funzionato come previsto, ha osservato Belloni. “Dall’idea alla prassi, qualcosa si è perso nel passaggio di implementazione. Sarebbe lungo discutere in profondità i motivi per cui è avvenuto. Tuttavia si possono fornire alcuni dati empirici, che confermano l’intervento di Puhalo: alla domanda ai cittadini bosniaci se l’adesione è una buona cosa, l’evoluzione dal 2006 a oggi è notevole. Il picco di sì è stato nel 2010 con il 75%. Poi inizia un crollo, fino al 45% dell’anno scorso. Naturalmente questi sondaggi di opinione hanno limiti giganteschi, ma questo ci dà l’idea di come la prospettiva UE sia in grave difficoltà”.
Come rilanciare, dunque, l’avvicinamento all’UE nei Balcani occidentali? “Commissione e istituzioni comunitarie devono impegnarsi più attivamente”, ha sostenuto Belloni. “Il motore dell’allargamento è sempre stata la Commissione, a cui va dato credito per il lavoro fatto, ma che ha subito molte critiche. Una delle ragioni di difficoltà è che l’allargamento si basa sul rapporto con le élite politiche, e non con i cittadini. Questo ha accentuato la distanza istituzioni-cittadini, le prime spesso pro-europee ma solo a parole, e i secondi sempre più distanti e sfiduciati. Inoltre l’allargamento mette al centro i membri dei governi dei paesi, cioè i premier e ministri, rispetto ai parlamenti.
Belloni ha infine insistito che “non si può rilanciare l’allargamento senza pensare a come rendere la prospettiva UE concreta per i cittadini. I cittadini vogliono risposte, in assenza delle quali lasciano la Bosnia Erzegovina, e non solo, in migliaia ogni anno. I cittadini dei Balcani spesso hanno la sensazione di vivere in quella che Florian Bieber ha definito ‘stabilito-crazia’: l’approccio UE è sempre più percepito come volto ad appoggiare élite locali dubbie in nome della lotta al t[]ismo, della chiusura dei confini, della misura in cui vengono soddisfatti gli interessi geopolitici dell’Europa. Il paradosso di questa situazione è che l’Unione Europea viene vista come ostacolo alla democratizzazione, invece che come alleato”.