Turchia: caccia ai gülenisti per chiudere un’era

Le operazioni all’estero contro presunti militanti del movimento gülenista rappresentano l’ultimo atto dello scontro tra Recep Tayyp Erdoğan e Fetullah Gülen? La quarta e ultima puntata di un’inchiesta sulla pervasività dell’autoritarismo del regime di Erdoğan anche al di fuori dei confini della Turchia

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Un fantoccio raffigurante Fetullah Gülen viene impiccato durante manifestazioni di piazza ad Istanbul nel 2017 (@ deepspace/Shutterstock)

Può forse sembrare strano che, fra i partiti firmatari dell’ultimo appello congiunto del parlamento turco del 9 agosto 2019 per l’estradizione dell’imam Fetullah Gülen dagli Stati Uniti, manchi l’Hdp. I rapporti fra il movimento dell’Hizmet e la questione curda sono sempre stati, infatti, quantomeno problematici: basti pensare che, per molti analisti, le prime divisioni fra i seguaci di Gülen e l’Akp sono sorte proprio in seguito al tentativo (iniziato segretamente nel 2011 e ufficializzato due anni più tardi) da parte di Erdoğan di avviare un processo di pace con i guerriglieri del Pkk.

Dopo che ci furono contatti iniziali fra agenti dei servizi segreti del Mit e il leader curdo in carcere Abdullah Öcalan, alcuni esponenti della magistratura legati a Gülen intentarono un procedimento giudiziario contro l’allora capo dell’intelligence turca (procedimento successivamente bloccato dal governo). In generale, poi, la postura ideologica del movimento dell’Hizmet viene considerata vicina al nazionalismo identitario, per cui la “turchicità” rappresenta un elemento fondamentale nella costruzione e nella coesione della comunità statale. Al contempo, però, l’imam stesso e altri esponenti del gülenismo in alcune occasioni si sono espressi in maniera apparentemente favorevole al processo di pace con il Pkk e al riconoscimento dei diritti della popolazione curda.

In qualche modo, è anche sulla scorta di tali ambiguità che il partito democratico dei popoli Hdp – a differenza di Akp, Mhp, Iyi e dell’opposizione Chp – ha deciso di non sottoscrivere l’appello. "Non è possibile limitare la questione della comunità Gülen a richieste di estradizione", si legge nel comunicato dei vice-capogruppo Fatma Kurtulan e Saruhan Oluc. "Il governo Akp dall’assunzione dell’incarico nel 2002 fino al 2014 ha prestato al movimento ogni forma di sostegno, come è stato anche citato molte volte da rappresentanti del governo di alto rango. Per questo il governo, rispetto all’espansione di questa struttura, deve riconoscere le proprie responsabilità e trattare la questione con giustizia. […] Con la limitazione dell’argomento a questioni di estradizione la coalizione di governo vuole unicamente distrarre dalle proprie responsabilità".

Non esiste ancora una versione chiara e soddisfacente di ciò che è successo in Turchia col tentativo di golpe del 15 luglio 2016, né Erdoğan ha mai fornito spiegazioni esaustive riguardo la natura del rapporto fra il suo partito e il movimento di Gülen. Quello che è certo è che i seguaci dell’Hizmet vengono perseguitati dal governo oltre che in Turchia anche all’estero, e non solo per mezzo di richieste di estradizione ma spesso con operazioni illegittime di intelligence e rapimenti forzati oppure attraverso rivalse arbitrarie da parte di ambasciate e consolati [come abbiamo raccontato nei precedenti capitoli di questa serie].

Tanto potere, poco consenso

"Nel momento in cui hanno stretto un’alleanza strategica, Gülen ed Erdoğan – ciascuno a suo modo – rappresentavano la risposta a un disagio fortemente diffuso nella società turca", dice lo studioso di storia turca e professore associato all’Università Sapienza di Roma Fabio Grassi. "C’era, da parte di una grossa fetta di popolazione, un sentimento negativo verso il laicismo di stampo kemalista e cresceva l’esigenza per una maggiore islamizzazione – o comunque per una maggiore tolleranza verso l’islamizzazione – della vita pubblica.

L’attuale presidente del paese e leader dell’Akp arrivava dall’esperienza del partito islamista dell’ex Primo Ministro Necmettin Erbakan, del quale rappresentava la corrente più moderata. L’imam Fetullah Gülen, per parte sua, propugnava una concezione della religione che potesse essere in armonia con le nuove direzioni di sviluppo del paese: modernizzare l’islam, islamizzare la modernità. Ecco dunque che si verificava una forte convergenza di interessi verso un progetto politico comune, che godeva in quel momento di largo consenso presso la cittadinanza".

Il primo decennio del governo a guida Akp vede dunque una stretta collaborazione con il movimento dell’Hizmet, che nel frattempo si era costruito una grossa capacità di potere e influenza grazie al fatto che molti dei suoi seguaci ricoprivano ruoli di primo piano nel campo della giustizia, dell’educazione e del business. La politica di Erdoğan, oltre che per un’inedita centralità della religione, si caratterizzava per la forte apertura verso l’Europa e per l’attenzione (almeno nella costruzione del discorso) verso i diritti umani, nonché per riforme economiche e sociali volte a tutelare le fasce più deboli della popolazione (e a stabilizzare così il consenso presso di esse).

"Credo che, fin da subito, ci fosse una sotterranea rivalità", prosegue Fabio Grassi. "Ciascuno dei due leader era convinto di essere la vera guida politico-spirituale del paese. Ma, da un certo punto in poi, è divenuto sempre più chiaro come fosse Erdoğan a essere diventato la figura di riferimento indiscussa agli occhi della società turca. Si è verificata una rottura soprattutto per questo, più che per divergenze ideologiche. Anche nel caso dell’apertura dei negoziati di pace con il Pkk, probabilmente, l’appoggio del movimento dell’Hizmet è venuto a mancare per evitare che il leader dell’Akp si intestasse pure quel merito: nel caso fosse riuscito a portare a termine il processo di riconciliazione, la sua popolarità sarebbe aumentata a dismisura. Il punto è che il gülenismo è stato da sempre un fenomeno elitario ed elitista. Elitario perché profondamente gerarchico ed esclusivo; elitista in quanto espressione dell’alta borghesia turca e dei suoi ideali. Insomma, è stato un movimento che ha avuto un grande potere economico, strategico e sociale, ma pochissimo consenso".

Contro-jiadismo

Il fatto che si possa parlare del gülenismo al passato è significativo: con oltre 30mila incarcerazioni, più di 150mila persone rimosse da lavori statali e circa 600mila indagati con accuse di terrorismo, è infatti difficile che in Turchia possa verificarsi la ricostituzione del movimento e una “ripresa” del suo ruolo nella società. Va inoltre ricordato come la “collaborazione” fra i seguaci dell’Hizmet e l’Akp di Erdoğan avveniva in un momento storico in cui molto più forte e profonda di adesso erano l’influenza e gli interessi statunitensi nell’area.

Dopo le ristrutturazioni economiche del Fmi all’inizio del millennio e in seguito all’attentato dell’11 settembre, infatti, la Turchia diventava un alleato-chiave nella lotta al terrorismo ma, più in generale, nelle ipotesi di costruzione di un contesto politico democratico in medio-oriente e di un “islam moderato”. In questo senso, e sebbene la natura di tali rapporti non sia del tutto chiara (tanto che c’è chi vede la realtà dell’Hizmet come completamente “manovrata” dall’intelligence americana), Gülen e il suo movimento rappresentavano un fenomeno dall’alto potenziale strategico agli occhi degli Stati Uniti e hanno dunque goduto di un sostanziale appoggio da parte di questi ultimi.

Ad ogni modo, l’elemento “moderato” e la natura tollerante del pensiero religioso elaborato dall’imam Fetullah Gülen sembrano essere ancora fra i maggiori fattori di attrazione per alcuni dei suoi simpatizzanti: "Io credo che il movimento dell’Hizmet e le persone a esso legate stessero riuscendo a creare le basi per una ‘riconciliazione sociale’ della Turchia", dice il giornalista ed ex-corrispondente per Today’s Zaman Abdullah Bozkurt. "Aleviti, curdi, liberali, molte comunità e fazioni del paese si stavano avvicinando grazie a una ‘narrativa’ e a un dialogo non divisivi. Tutto il contrario della strategia erdoganiana, che invece ha finito per esacerbare i conflitti e acuire le differenze. Una figura come quella di Gülen è allora molto pericolosa per il regime, perché si tratta di un esponente religioso capace di colmare i divari e ricomporre le divisioni nel mondo musulmano e non. Rappresenta, secondo me, una ‘contro-narrazione’ dello jiadismo, un’opposizione credibile ed efficace a quelle concezioni pericolose dell’islam a cui si stanno sempre più allineando la visione e le pratiche di Erdoğan e dell’Akp. Ecco perché, oltre alle persecuzione e alle incarcerazioni interne, la repressione si estende ben al di fuori dei confini turchi. Si vuole intimidire, creare insicurezza, far capire che anche il più piccolo segnale di dissenso basta per far scattare ritorsioni. Nemmeno le dittature militari degli anni ’80 si spinsero a compiere operazioni di questo tipo all’estero".

Quale futuro?

La determinazione di Erdoğan nel colpire qualsiasi espressione del gülenismo sembra conoscere ben pochi freni. Ambasciate, consolati, agenzie legate al governo come il Direttorato per gli Affari Religiosi Diyanet o l’Agenzia di Cooperazione e Coordinamento Tika, e i servizi segreti sono tutti attori statali o para-statali attualmente impegnati in una “caccia all’uomo” a livello internazionale, che si sta concretizzando in estradizioni forzate, rapimenti, raccolta illecita di informazioni sensibili e pressioni di varia natura.

Difficile dire quanto e come tutto ciò andrà a influire i futuri sviluppi del movimento dell’Hizmet e delle comunità a esso vicine. Se [come abbiamo mostrato nel primo capitolo di questa serie] in contesti come quello italiano la maggior parte dei centri gülenisti ha ridotto le proprie attività e cercato di diminuire la propria visibilità pubblica, in altri paesi, come la Svezia, si sono formate nuove realtà con il preciso scopo di denunciare la repressione erdoganiana, quale lo Stockholm Center for Freedom diretto dallo stesso Abdullah Bozkurt e sostenuto dal governo svedese.

In generale, al di fuori della Turchia e al netto di arresti e pressioni, scuole e istituti educativi legati all’Hizmet continuano a esistere nell’ordine di migliaia di centri sparsi per tutto il mondo (in particolare in quei paesi con cui la diplomazia turca ha stretto fitte relazioni a partire dagli anni 2000 in avanti: oltre che negli Stati Uniti, dove Fetullah Gülen risiede dal 1999, i Balcani, l’area asiatica del Caucaso e molti stati africani a maggioranza islamica), mentre – anche all’interno delle diaspore – principi e precetti del movimento continuano a essere tramandati e abbracciati da nuovi fedeli.

Di certo è cambiato per sempre il suo ruolo di “guida” e influenza negli sviluppi sociali della repubblica anatolica e, con esso, è cambiata radicalmente la vita di migliaia di persone, che subiscono una repressione governativa in continua espansione.

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