Slobodan Šnajder, la riparazione del mondo
Un romanzo che racconta l’epopea di quei tedeschi che nel 1769 furono spinti dall’imperatrice Maria Teresa a trasferirsi in Slavonia. Recensione
Il cognome, seppur in grafia croata, tradisce le origini tedesche dello scrittore croato Slobodan Šnajder, che nel romanzo “La riparazione del mondo”, edito da Solferino per la traduzione di Alice Parmeggiani ha raccontato l’epopea, è il caso di dirlo, di quei tedeschi che nel 1769 furono spinti dall’imperatrice Maria Teresa a trasferirsi in Slavonia, a causa della carestia che la Germania stava attraversando in quegli anni.
L’avvio del romanzo ha la potenza di un quadro di Bruegel il vecchio, con i contadini di un villaggio miserrimi, affamati, puzzolenti, raccolti in una stanza che, diffidenti, ascoltano un messo inviato dall’imperatrice che li convince ad andarsene dove troveranno campi da coltivare, cibo, una nuova vita. E alla fine quel viaggio lo fanno, su una chiatta, lungo il Danubio, un viaggio, così come prima l’incontro tra gli abbruttiti abitanti del villaggio e il messo imperiale, che l’autore descrive con grande vivezza dai toni fantastici.
L’attenzione del narratore si ferma sulla famiglia Kemp, che ritroveremo anni dopo, non senza ampi intermezzi storici che illustrano, mantenendo la chiave narrativa, il quadro d’epoca. Ed è interessante il momento in cui i migranti tedeschi, giunti in Slavonia, chiedono all’imperatrice di mandar loro delle donne da sposare, perché quelle che c’erano, le solite prostitute presenti ovunque ci siano centri abitati e taverne, non erano raccomandabili. A scrivere la lettera, con questa precisa richiesta di donne da sposare, fu proprio un Kemp, Georg Kemp. E accade che “la Germania spedisce davvero un contingente di ragazze da marito, che in Slavonia, dove sono dirette, chiameranno snaše” (nuorine o cognatine, soprannome rispettoso di chiamare una donna di cui non si conosce il nome, n.d.r.). E Georg Kemp si trova a sposare la signorina Theresia “con le gote rosate e l’ampia gonna che avrebbe potuto sollevarla” cosa che accadde, tanto che “l’antenato Kemp scorse nel cannocchiale una giarrettiera bianca sulla calza rossa. Era troppo: si diede per vinto”.
Le generazioni che seguiranno avranno quell’impronta genetica tedesca, ma anche culturale, con il passaggio tradizionale nelle famiglie di trasmettere accanto al cognome il nome del padre e del nonno. Ma è inevitabile, nella integrazione con le popolazioni e la lingua locale che i nomi si trasformino. Un cambiamento che, come in tutte le famiglie, toccò anche quella dei Kemp. “Così” racconta Šnajder “anche il nome di Theresia passò di generazione in generazione, da nonna a nipote. Ma occorsero comunque un centinaio d’anni perché Theresia diventasse Tereza, e poi altri cinquanta perché diventasse Reza, Rezika…”, trasformazione che, seppur più lentamente, toccò anche il nome di Georg che diventò prima Đuro (leggasi Giuro), e quindi Đuka (Giuca). Ma non si considerarono né furono mai considerati croati. Tant’è, racconta Šnajder, che negli anni Trenta, col montare del nazismo divennero “Volksdeutsche, ossia tedeschi fuori del Reich. Condizione di nessun buon auspicio”.
È a questo punto che il romanzo, da saga si trasforma in una vicenda di guerra e d’amore, con epicentro i Balcani, la storia di questi nel Novecento vissuta con protagonista un Kemp, Đuka Kemp, nato nel 1919, alla fine della Prima guerra mondiale. Il racconto di Šnajder si allarga al momento storico, a come i tedeschi della Slavonia – i Kemp vivevano nella cittadina di Nuštar, nei pressi di Vukovar – seguissero assai poco ciò che avveniva in Germania, e all’avvento di Hitler non diedero più importanza di un fatto accaduto in un mondo che non li riguardava personalmente. Ma poi scoppiò la guerra e accadde l’imprevedibile: dal Reich arrivò a Nuštar un emissario che un po’ alla volta, facendo leva sulle origini tedesche dei Volksdeutsche vennero coinvolti in una passione tale per quella patria lontana per cui “a un tratto erano tutti ‘camerati’, anche quelli che come veri scavezzacolli della Slavonia se l’erano date di santa ragione nelle fiere paesane.”
In realtà la situazione è più complicata, perché nel paese la divaricazione ideologica, con i comunisti dalla parte opposta, si fa più marcata. Tra ustascia e comunisti “i Volksdeutsche sono un gruppo a parte; è come se fossero schierati in tanti, che però dall’esterno sono percepiti come uno solo”. E ancora: “Solo da poco hanno scoperto la propria germanicità, non sanno bene chi seguire, dove schierarsi. E tutti oggi vorrebbero aderire lealmente a un’idea, e in tal modo eventualmente nascondersi; o forse vincere”. Il fatto che nel 1941 la Germania riporti vittorie su vittorie è uno stimolo non da poco a scegliere di schierarsi con Hitler. Đuka Kemp, il nostro protagonista, diventerà soldato tedesco, ritrovandosi sul fronte orientale. Ciò che incontra e vede lo segnerà per sempre. Šnajder ci regalerà, a riguardo, pagine superbe di guerra e umanità – Treblinka, Auschwitz, Jasenovac – mai disgiunte dal quadro storico e militare, attraverso le quali vedremo passare il destino di Đuka che, a un certo momento, diserterà per tornare a casa in bicicletta dove troverà una situazione completamente diversa da quella che aveva lasciato. La figura di Tito compare tra le pagine, insieme all’amore per una partigiana, Vera, che sposerà. Ma il peso dei fronti opposti che i due avevano servito resterà tra loro un macigno che li porterà al divorzio, anche perché drammatiche verità, risvolti taciuti della guerra partigiana emergeranno tra loro, con rimozioni da parte di Vera, che esploderanno in liti con il marito. Sono pagine interessanti che, in filigrana raccontano anche quel che succedeva in Jugoslavia, dal campo di sterminio di Jasenovac all’espulsione del Partito Comunista Jugoslavo dal Cominform e, più avanti, dentro lo stesso Partito.
Šnaider lo racconterà per vie traverse con accostamenti di diversi materiali, come per esempio l’accusa di corruzione all’interno dello stesso Partito, accusa che a profferire è la stessa Vera che in un testo di suo pugno scrive: “O io non sono una brava persona, o nel Partito ci sono persone negative! Ammettere che nel Partito ci sono persone negative significa farla finita con l’idealizzazione dei superuomini del Partito. Ma allora, chi sono io per mettere su un piatto della bilancia ciò che penso e sento, e sull’altro il nostro Partito?” e conclude con una frase che esprime il masochismo ideologico di chi vive un Partito come una Chiesa: “Ho paura di essere terribilmente superba e di dover essere punita”, pur di fronte a una verità della quale, nella sua purezza, si era resa conto: “Per quanto apparissero un ‘gruppo’ monolitico, i partigiani erano diversi fra loro”.
Da parte sua Kemp, che si era avvicinato al socialismo, scrivendo anche versi interessanti, morirà la stessa notte in cui dalla Germania aveva ricevuto una telefonata con la quale lo informavano che, fuggito dall’esercito tedesco, ufficialmente non era stato considerato un disertore bensì… un disperso. Il che gli sembra confermare l’onta del suo passato. Da qui il senso della sua morte. Gli ultimi passaggi vengono affidati al figlio di Kemp, che scriverà in prima persona. Il che legittima il lettore a chiedersi quanto di Slobodan Šnajder ci sia in questo figlio.