Istriana: Trieste
È dalla stazione di Trieste che parte questo viaggio di Fabio Fiori in Istria. La bicicletta, un libro di poesie di Rainer Maria Rilke e il suo sguardo inquieto
Arrivando a Trieste in treno, l’Adriatico si palesa nella sua aura mediterranea. Appare per frammenti, tra la verde macchia cara alle dee silvestri. Rapisce per incanti, negli azzurri orizzonti cari agli dèi pelagici. È un Adriatico liminare, la soglia acquea accarezza la pietra carsica. Dal Ciglione lo sguardo si apre su un pontos che invita a mollare gli ormeggi, a mettersi in viaggio. Una visione pelagica che mi interroga.
Perché continuiamo a viaggiare in un mondo senza più luoghi remoti? Perché dobbiamo scoprirci.
Ancora una volta sono partito, per scoprire una terra che più spesso ho visto dal mare. Ma sono partito anche per scoprire un corpo, il mio. Spogliarlo dalle preoccupazioni quotidiane e dalle abitudini stanziali. Quelle della famiglia e del lavoro, quelle di un europeo benestante, comunque inquieto.
Preoccupazioni risibili e abitudini borghesi, nel confronto con quelle dell’umanità migrante che incontro uscendo dalla stazione, nel giardino di Piazza della Libertà. Decine di ragazzi, tutti maschi, con corpi e facce che raccontano un’Asia, vicina, vibrante, affamata, di pane e libertà mi appunto sul taccuino. Ma guardando un ventenne, poco più grande di mio figlio, seduto di fianco a me sulla panchina, che scrolla sullo smartphone, mi chiedo quanta inevitabile retorica ci sia nella mia annotazione. A meno che per pane non intenda ciò che serve oggi, anche nell’accezione consumistica, e per libertà non consideri pure quella dogmatica legata ad esempio ai precetti alimentari. “Is there no pork?” chiedono pochi minuti dopo, in un inglese elementare, due ragazzi davanti a me dal kebabbaro che c’è sulla strada perimetrale alla piazza. Perché anche pane e libertà possono essere equivocate.
Pensieri spazzati via dal “Wonderful water!”, che mi dice Raschid, sdentato e sorridente, che si è appena lavato la testa alla fontana pubblica. Fontane e panchine, amate dai viandanti, qualunque sia età, provenienza, motivazione. Fontane e panchine, testimoni di una civiltà urbana europea di cui dobbiamo andare fieri. Fontane e panchine da difendere se la città è bene comune, a prescindere dal luogo di nascita e da quello di residenza. Ho solo il tempo di ricambiare un sorriso e chiedergli il nome, perché scappa dicendo “My friends wait me”.
Anch’io parto, ma in bici da solo, in direzione sud. Cento chilometri in linea d’aria separano Trieste da Capo Promontore, estrema propaggine meridionale dell’Istria. Centocinquanta se si percorrono strade e sentieri costieri, da Capodistria a Pola, con qualche divagazione all’interno. Ho una bici da trekking, d’alluminio con forcella in acciaio. Guarnitura tripla e pacco pignone a sette corone, freni a pinza, portapacchi posteriore con due borse. Una bici semplice e affidabile, con cui viaggio da una decina di anni. Pedalate appenniniche o alpine di qualche giorno. Oppure di una o due settimane, magari su isole piccole e grandi, vicine e lontane. Spesso prendo il treno con la bici al seguito, altre volte un traghetto o un aereo, come quando sono andato a Cipro.
Qualunque sia il mezzo usato per il trasferimento, qualunque sia il luogo raggiunto, salendo in sella rivivo entusiasmi e curiosità fanciullesche. La bici è una wundermachine, una macchina delle meraviglie. Quando si pedala il mondo s’accende e s’illumina; tutti i paesaggi diventano miracolosamente prodighi di emozioni, bucolici o degradati che siano. Attraversandola in bici, non c’è campagna che non regali un profumo imprevisto, non c’è periferia che non offra un’immagine inattesa. Pedalando stimoliamo il rilascio di serotonina, dopamina e ossitocina, perciò il viaggio regala felicità, qualche volta faticose.
Poche centinaia di metri e faccio già una prima tappa, per me sempre obbligatoria quando sono a Trieste. Perché nel raggio di cento metri, in qualunque stagione e con qualunque tempo, la città mi regala tre piaceri: un silenzio, un tuffo e un caffè. In ordine differente a seconda dell’umore e delle circostanze. Oggi vado prima a respirare il silenzio che odora d’incenso della chiesa di San Nicolò dei Greci, dove la spiritualità prescinde dalla fede. Poi un tuffo proibito, perciò ancora più sensuale, dalla cima del Molo Audace. Infine un caffè al Tommaseo, per rinnovare una gustosa ritualità ottocentesca, per celebrare quello che è ancora oggi il più grande porto caffeicolo del Mediterraneo. Mi fermerei volentieri a leggere e a scrivere a uno dei tavolini esterni, ma sono già le tre del pomeriggio e in settembre le giornate non sono tanto lunghe. Voglio raggiungere prima di sera Punta Salvore in Croazia, prima tappa di questa mia pedalata istriana. Una cinquantina di chilometri, con seicento metri di dislivello, all’inizio sulle strade trafficate della periferia portuale triestina, poi sulla bucolica ciclovia Parenzana. Trovo comunque il tempo per leggere al banco in piedi, una poesia di Rilke, che reinterpreta il mito di Leda e il cigno. Quando il dio nel suo affanno entrò nel cigno, / quasi si spaventò al trovarlo così bello; / confuso in lui scomparve, ma il suo inganno / già lo spinse ad agire, ancor prima di saggiare / i sensi del suo mai provato essere.
Anch’io salendo sulla bici metamorfoso, anche noi mettendoci in viaggio aneliamo bellezza.
PS
Per capire meglio o semplicemente per farsi un’idea delle difficoltà, dei rischi e dei soprusi subiti dai migranti che percorrono quella che noi chiamiamo rotta balcanica e loro il “game”, si può vedere il nuovo film-documentario Trieste è bella di notte, di Andrea Segre, Stefano Collizzolli e Matteo Calore. Invece per una prima pianificazione del viaggio, per chi come me è ancora affetto da cartafilia, suggerisco la mappa stradale in scala 1:100.000 di Freytag & Berndt e la guida dettagliata ripubblicata pochi mesi fa da Ediciclo: La Parenzana in bicicletta – da Trieste a Parenzo lungo la ex ferrovia istriana.