È morto il compagno Tito

Esattamente 43 anni fa moriva Josip Broz Tito, leader della Jugoslavia socialista. Ma chi era Tito? Un dittatore autocratico o un grande statista che ha affascinato politici del calibro di Churchill e Kennedy? Le considerazioni di Eric Gobetti, studioso della storia della Jugoslavia nel Novecento

04/05/2023, Eric Gobetti -

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Willy Brand e Josip Broz Tito (foto CC Pietro Izzo)

“Umro je drug Tito”, “È morto il compagno Tito”.

Così annuncia la scomparsa del leader jugoslavo l’annunciatore della Tv nazionale nel pomeriggio del 4 maggio 1980. La notizia viene trasmessa ad arte all’ora di punta, e nel corso di un’importante partita di campionato: Hajduk Spalato contro Stella Rossa Belgrado, le due formazioni più rappresentative di Croazia e Serbia. La scena dei giocatori e dei tifosi sugli spalti in lacrime, in una sorta di isteria collettiva, è forse la più emblematica di quel momento storico.

Nei giorni successivi, la salma viene trasferita in treno da Lubiana – dove Tito è morto in ospedale – a Belgrado, per essere tumulata nella Casa dei Fiori, un mausoleo appositamente costruito negli anni precedenti, dove si trova tutt’ora. Durante il tragitto, che attraversa le principali città jugoslave, centinaia di migliaia di persone si assiepano per dare un ultimo saluto al Maresciallo. Il funerale, celebrato a Belgrado l’8 maggio, è la cerimonia funebre con la maggiore partecipazione di leader politici e capi di stato: 4 re, 31 presidenti, inviati ufficiali provenienti da 128 paesi.

Ma cosa è successo? Qual è il significato profondo di tutto ciò? Chi è l’uomo scomparso quel giorno di maggio di 43 anni fa? Il dittatore autocratico, a cui, come spesso succede, il popolino tributa onori fatui? O il grande statista che ha affascinato politici del calibro di Churchill e Kennedy, e capace di ammaliare anche star internazionali come Orson Welles e Sofia Loren?

Nell’immaginario comune Tito incarna tutti questi personaggi, come una Idra dalle innumerevoli teste: è al tempo stesso mostro ed eroe, leader carismatico e spietato autocrate, artefice del sogno jugoslavo e capro espiatorio del suo fallimento.

Umanamente, l’ex apprendista operaio Josip Broz ha espresso limiti notevoli, come notevoli qualità. Appassionato di caccia, al pari di molti uomini illustri della sua epoca, affascinato dalle divise, dalle onorificenze, dal lusso, il dirigente comunista appariva ben poco “proletario” all’apice della carriera. D’altra parte che dire del suo incredibile carisma, della sua capacità di affascinare individui così diversi (dalla regina d’Inghilterra al più povero dei contadini bosniaci) conversando in più lingue (tedesco, russo, serbo-croato e un po’ di inglese e francese), trovandosi sempre a suo agio in ogni contesto?

Ma quel che più conta è la capacità di Tito di influire sugli eventi storici del Novecento. In questo senso il giudizio su di lui non può prescindere dall’importanza dei risultati politici ottenuti. E su tutti svetta, naturalmente, la creazione della Jugoslavia socialista e federale. Costituita alla fine della seconda guerra mondiale (ufficialmente in piena lotta partigiana, il 29 novembre 1943), la federazione jugoslava scompare con la dichiarazione d’indipendenza di Slovenia e Croazia nel giugno del 1991, undici anni dopo la morte del suo fondatore. In gran parte dunque la cosiddetta “seconda Jugoslavia” (per distinguerla da quella monarchica costituita fra le due guerre) è il risultato degli sforzi e della volontà politica di Tito, suo leader indiscusso fino alla morte.

Non c’è il tempo naturalmente qui per analizzare tutta la vicenda storica di quel paese, ma vale la pena accennare almeno a due aspetti, uno di politica estera e uno di politica interna, che sono significativamente condizionati da decisioni assunte in prima persona da Tito.

I funerali di Tito (fonte Museo della Jugoslavia)

I funerali di Tito (fonte Museo della Jugoslavia)

Lo spazio jugoslavo in epoca contemporanea è sempre stato caratterizzato dalla dialettica tra le spinte centrifughe, volte alla creazione di stati nazionali separati, e la volontà di unificare il territorio in un solo paese. Non c’è dubbio che Tito abbia costituito la “sua” Jugoslavia alla fine della seconda guerra mondiale assecondando una tensione unitaria fortemente presente nella società. La federazione jugoslava non è stata imposta con la forza a una popolazione che non l’avrebbe voluta, secondo uno stereotipo molto diffuso, ma al contrario era allora un progetto politico che godeva di ampio consenso, anche a causa dei terribili massacri commessi dalle forze nazionaliste nel corso del conflitto.

Tito poi ha adottato un modello di Stato federale ricalcato su quello sovietico (l’unione delle repubbliche), ma anche ispirato all’Impero asburgico in cui era cresciuto, esempio di stato multietnico e multilinguistico, rispettoso delle diverse appartenenze culturali. La progressiva accentuazione delle autonomie federali nel corso dei decenni era certamente orientata a conservare l’integrità del paese, sulla base però dell’aumento delle differenze regionali e del valore politico attribuito alle appartenenze nazionali piuttosto che a quella “jugoslava”.

Più che impedire la disgregazione del paese, il federalismo “radicale” ha finito per favorirla: l’ultima costituzione, quella del 1974, consentiva l’eventuale secessione delle singole repubbliche, cosa che si è puntualmente verificata nel 1991. Dunque, per sfatare un ulteriore stereotipo, la Jugoslavia non è rimasta unita tanti anni grazie alla centralizzazione forzata voluta da Tito – che avrebbe negato le identità nazionali costringendo popoli tanto diversi a convivere – ma si può dire che sia entrata in crisi proprio a causa di un approccio particolarmente conciliante nei confronti delle autonomie nazionali.

In politica estera le scelte di Tito sono state ancora più originali e significative. Nel 1948, in un contesto internazionale già estremamente polarizzato, la Jugoslavia è stata il primo paese del blocco socialista a cercare di svincolarsi dall’asfissiante dominio sovietico. Se ci riuscì (al contrario di Ungheria e Cecoslovacchia nei due decenni successivi), ciò fu dovuto allo straordinario consenso che Tito godeva nel paese e, naturalmente, all’appoggio economico e diplomatico americano. Il controllo del paese fu reso possibile anche dalla spietata repressione che colpì i dirigenti del partito meno allineati, repressione che rappresenta sicuramente la pagina più buia della storia della Jugoslavia socialista.

Grazie a una indiscussa abilità diplomatica, Tito è riuscito però a non sottostare al controllo statunitense, mantenendo un sistema politico socialista e arrivando a capitanare una cordata di paesi in via di sviluppo che, a partire dagli anni Sessanta, hanno preso il nome di Non Allineati. Si è trattato senza dubbio di una brillante intuizione, che ha portato diversi Stati importanti, ma ancora deboli dal punto di vista politico (tra cui India, Egitto, Indonesia) a svincolarsi dal rigido sistema dei Blocchi contrapposti. Quelli sono stati senza dubbio i decenni “d’oro” della Jugoslavia di Tito, che si afferma come paese di importanza globale e al tempo stesso “mediano” fra i due sistemi politici e ideologici in conflitto.

Nel 1983 Sandro Pertini, con la voce spezzata dall’emozione, ricordava Tito, a tre anni dalla scomparsa, come uno dei “più cari compagni incontrati sul mio cammino”. Per questa e per altre dichiarazioni analoghe, Pertini viene oggi da più parti ostracizzato, come se avesse subìto un abbaglio, la fascinazione di un essere spregevole. Ma come avrebbe potuto esprimersi altrimenti, il nostro presidente socialista e partigiano? Con Tito aveva condiviso la lotta antifascista, di cui il leader jugoslavo era stato uno, se non forse il più significativo protagonista europeo. A lui riconosceva lo sforzo di costituire una società socialista alternativa a quella sovietica e l’impegno per conservare la pace mondiale nel contesto di tensione della Guerra fredda, anche attraverso quel “terzo polo” capeggiato dalla Jugoslavia.

Si dice che Tito avesse più volte preconizzato la fine dalla Jugoslavia dopo la sua morte. Può essere. Ma la Jugoslavia non è stata un progetto assurdo realizzato solo grazie al genio (o alla spietata crudeltà, a seconda dei punti di vista) del suo leader. Né si è dissolta a causa della sua scomparsa. Con i suoi mezzi, le sue capacità, le sue debolezze, con qualche errore e alcune astuzie, Tito è riuscito a creare un paese forte e stabile, offrendo ai popoli jugoslavi quarant’anni di pace e di benessere. D’altra parte la repressione di fine guerra contro nazionalisti e collaborazionisti, l’epurazione all’interno del partito dopo il 1948 e l’autoritarismo degli anni successivi hanno impedito ogni forma di opposizione politica e hanno reso rigido e inalterabile il sistema politico.

Quando il paese è entrato in crisi, per ragioni contingenti, nel corso degli anni Ottanta, questi elementi hanno giocato un ruolo rilevante nel processo che ha portato alla disgregazione della Jugoslavia. Forse a questo pensava Tito, preventivandone la scomparsa. Alla sua morte lasciava un paese all’apice del successo interno e internazionale, ma privo degli anticorpi democratici necessari per impedire che cadesse preda degli appetiti di nazionalisti e populisti assetati di potere e senza scrupoli.

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