Sara Manisera: le difficoltà del giornalismo investigativo

Fare giornalismo investigativo non è certo facile, oltre ai rischi del mestiere si incorre spesso in querele per diffamazione, SLAPP, ecc. soprattutto se come la giornalista Sara Manisera ci si occupa di temi delicati come la criminalità organizzata. L’abbiamo intervistata

01/06/2023, Sielke Kelner -

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Sara Manisera © Yahia Kareem

Sara Manisera è una giornalista freelance che fa parte del collettivo di giornalisti, fotografi e autori Fada . Scrive di questioni di genere, minoranze, agricoltura, ambiente, e società civile. I suoi contributi sono stati pubblicati da diverse testate internazionali tra cui Al Jazeera, Liberation, The Nation. Ha scritto Racconti schiavitù e lotta nelle campagne, un libro che ha avuto origine dalla sua tesi di laurea in sociologia della criminalità organizzata a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria. Dal 2023 è affiliata a Bertha Challenge Investigative Journalist Fellow , una borsa che le sta permettendo di dedicarsi ad un progetto di durata annuale sulla filiera del grano. Il 1 settembre 2022, il Comune di Abbiategrasso ha adottato una delibera per avviare una querela per diffamazione penale aggravata nei suoi confronti . Una frase pronunciata a Cutro nel giugno del 2022 durante il discorso di accettazione del premio Diego Tajani, circa la pervasività dell’infiltrazione mafiosa anche in comuni come quello di Abbiategrasso, non è andata giù alla giunta del comune lombardo.

Si tratta della prima querela per diffamazione che affronta?

Sì, è la prima querela che ricevo, mi è stata notificata dai carabinieri a gennaio 2023. Non sono stata denunciata per un articolo pubblicato, ma per una frase che ho pronunciato in un discorso in cui ho citato il Comune di Abbiategrasso durante una premiazione di fronte a studenti e studentesse. Quel giorno avevo davanti a me alcune scolaresche di Cutro che probabilmente nella loro vita hanno solamente sentito parlare di ‘ndrangheta e di Calabria, di meridione in un certo modo. Io ho voluto mostrare loro che le mafie non sono solamente al sud, ma anche al nord. E si sono infiltrate nell’economia del nord da decenni. L’amministrazione comunale di Abbiategrasso non ha chiesto nessuna rettifica rispetto alla frase che ho pronunciato; non ha invitato ad un confronto pubblico sul tema. Questa sarebbe stata la risposta più adeguata da parte di una politica locale attenta all’infiltrazione delle organizzazioni di stampo mafioso e che si sarebbe potuta ritenere offesa per le frasi pronunciate a Cutro.

Perché la giunta di Abbiategrasso secondo lei si è sentita risentita dal suo commento?

Non lo so. Io le parlo dei fatti. Stiamo parlando di un territorio che è nel sudovest milanese, attaccato a Gaggiano, Corsico, Trezzano, Buccinasco. Territori che, da oltre 30 anni, hanno visto non l’infiltrazione, ma la colonizzazione da parte della ‘ndrangheta e, nel territorio di Abbiategrasso, di boss legati a Cosa nostra. Su questo territorio sono stati mandati diversi esponenti di cosche legate a Cosa nostra in soggiorno obbligato. In questo territorio, ci sono pezzi dell’economia che si nutrono anche di tutto quello che è il riciclaggio di capitali provenienti da attività illecite da parte di organizzazioni di stampo mafioso. Questo non lo dice Sara Manisera, lo dicono le sentenze, lo dicono le operazioni dirette dalle Direzioni Distrettuali Antimafia come Crimine-Infinito, che ha sancito la presenza delle mafie al Nord. Ora, non volerlo vedere o non volerlo raccontare è quello che il professore Nando dalla Chiesa sintetizza come: “O sei un cretino, e quindi sei complice in qualche modo, o sei realmente complice”. Ma andando oltre questo ragionamento, io penso che si parli molto poco di etica pubblica e del ruolo che dovrebbero avere i politici, cioè dei politici con la schiena dritta che non dovrebbero andare a prendersi il caffè con quello che è considerato un esponente di quella cosca o di quell’altro clan. Quanto al Comune di Abbiategrasso, non so perché nel 2023 si siano sentiti lesi la loro immagine. Ci sono altri modi per tutelare la reputazione e l’immagine del proprio territorio, a partire da politiche ambientali serie volte alla tutela reale del territorio e del paesaggio.

Parliamo di cause vessatorie. In che modo questa querela ha influenzato il suo lavoro e la sua vita personale?

Grazie alla solidarietà della società civile e alla mobilitazione che c’è stata sul mio caso si sono attivate diverse persone provenienti da realtà come FNSI, Articolo21, Ossigeno, Libera, Un Ponte Per. Ci sono state tante voci pubbliche e non che hanno preso le mie difese. Questo ha fatto sì che Ossigeno per l’Informazione mi inserisse nei casi di giornalisti cui è accordata la loro difesa pro bono. Molti altri colleghi non ricevono questo tipo di copertura mediatica, o come molto spesso viene definita, scorta mediatica. Nel momento in cui sei solo e non hai una scorta mediatica questo tipo di querele hanno un impatto enorme, sia sul tuo lavoro perché intimidiscono, ti fermano, ti scoraggiano. Ma anche sulla salute mentale perché rappresentano un pensiero costante: tutte le carte, i documenti che devi raccogliere per comporre la memoria difensiva. La lunghezza del processo: procedimenti che vanno avanti per mesi, anni. Questo ha un impatto maggiore su persone che svolgono questo lavoro da freelance, perché un conto è avere alle spalle un editore con un direttore o una testata, un avvocato della testata, una squadra che ti accompagna in questo percorso; un altro conto è trovarsi da soli.

Di cosa avremmo bisogno per contrastare il fenomeno delle cause vessatorie?

Sicuramente una copertura legale gratuita per tutti i giornalisti che subiscono questo tipo di querele. Un fondo ad hoc costituito proprio da altre cause destinato ai risarcimenti danni.

Qual è il rapporto tra stampa e politica, anche locale?

Io penso che lo stato di salute tra stampa locale e stampa nazionale ed istituzioni locali e nazionali  non sia dei migliori. Osservo, a livello locale, un’assenza di giornalismo-giornalismo, citando Giancarlo Siani, quel giornalismo che dovrebbe fare le pulci al potere. Il giornalismo locale, salvo rare eccezioni, è megafono del potere. Questo succede perché non ci sono soldi; perché le testate locali molto spesso hanno editori che vanno a braccetto con l’economia locale e quindi con la politica locale; perché manca una reale indipendenza del giornalista, anche a causa di modelli di business.

Va da sé che il potere politico che non è abituato al confronto con la stampa, il tipo di stampa che gioca un ruolo di dialettica e di confronto, nel momento in cui subisce una critica ricorre alla querela, perché è l’arma più facile. La querela è l’arma utilizzata per silenziare, allontanare, mettere a tacere e in qualche modo anche un po’ intimorire. Non è solo un monito per quel particolare giornalista che scrive, parla e dice determinate cose. È un monito anche per gli altri giornalisti.

Questo tipo di azioni vessatorie messe in atto da persone che detengono il potere rivelano molto sullo stato di salute del giornalismo in Italia, e sul rapporto tra stampa ed istituzioni. Ma anche sulla libertà di parola e sul diritto ad informare, ovvero su quello che è l’Articolo 21 della nostra Costituzione. Le mafie non sono solamente un fenomeno giudiziario, sono un fenomeno sociale, culturale, economico, politico e pertanto bisogna parlarne e io credo che i giornalisti oggi abbiamo il ruolo di informare e di spiegare ai cittadini anche le forme e la metamorfosi delle organizzazioni di stampo mafioso. Come diceva Paolo Borsellino parlatene. Parlatene alla televisione, parlatene alla radio. Però parlatene. Se non è il giornalista ad informare il pubblico dicendo: badate bene che le mafie oggi riciclano nel cemento, badate bene che le mafie sono entrate anche nei Comuni del nord, ma chi lo deve fare? 

Cosa vuol dire per lei essere una giornalista e in particolare una giornalista investigativa indipendente?

Credo che il giornalismo che porto avanti insieme anche al collettivo Fada, di cui faccio parte, sia un giornalismo impegnato. È un giornalismo militante, che ha uno sguardo anche politico. Nel senso che è un giornalismo non neutrale, perché si prende il tempo di guardare alle fratture ecologiche e sociali di determinate società e di determinate questioni. Io faccio sempre questo esempio, citando una collega francese Salomé Saqué, la quale spiega che decidere di dare la parola all’amministratore delegato di Total, che è responsabile di crimini ambientali in Uganda che costringeranno milioni di persone ad abbandonare il paese, o decidere di dare la parola agli ambientalisti che lottano contro quel progetto, significa operare una scelta precisa. Quindi scegliere di raccontare la storia delle lotte degli ambientalisti in Uganda o Iraq vuol dire portare le loro voci al centro dell’attenzione del dibattito pubblico.

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