Mića Popović, i disegni di una vita
In occasione del centenario della nascita di Mića Popović (1923-1996), la galleria belgradese Haos propone, fino al 6 luglio, una mostra di disegni e grafiche di uno dei più grandi artisti serbi e jugoslavi della seconda metà del Novecento
Se nel periodo di apertura della mostra che presenta una sessantina di disegni e grafiche di Mića Popović doveste recarvi a Belgrado, non mancate di visitare la galleria Haos. La troverete facilmente anche senza il vostro smartphone. È situata in via Dositejeva 3, nelle immediate vicinanze del Museo nazionale e del Teatro nazionale. Stavo per scrivere “non mancate assolutamente”, ma ho resistito alla tentazione per evitare che le mie parole assumessero una connotazione totalitaria. Comprendo che qualche uomo d’affari non riesca a dedicare una manciata di minuti ad una mostra che rende omaggio ad un grande artista, ma non ho la benché minima comprensione per i turisti che, pur avendo a disposizione tutte le informazioni sulla mostra, decidono di non visitarla.
Considerando la mancanza di informazioni su Mića Popović in lingua italiana (è disponibile solo una voce a lui dedicata su Wikipedia e un testo ben scritto, ma molto breve, pubblicato da una galleria commerciale), mi sembra opportuno dire qualcosa di più su questo artista versatile (pittore, regista cinematografico, teorico dell’arte, scrittore), autore di una decina di migliaia di disegni e di alcune migliaia di dipinti.
La vita e l’opera: dai disegni da due spicci alla pittura di genere
Mića Popović nacque a Loznica il 12 giugno 1924. Tre anni dopo, nel 1927, la famiglia si trasferì a Belgrado. Nella capitale del Regno Mića iniziò a disegnare sin da piccolo. Negli anni in cui frequentava il Terzo ginnasio maschile aiutava alcuni suoi compagni – provenienti da famiglie più agiate della sua, ma evidentemente pigri – a fare i compiti di disegno in cambio di due spicci. Nel 1938 decise di dedicarsi seriamente alla pittura, continuando a visitare le gallerie della capitale e a leggere libri di storia dell’arte e biografie dei grandi artisti. Durante i primi anni di guerra fu costretto al lavoro forzato. Nel 1943, dopo essersi ripreso da una malattia, fu deportato al campo di Franken, vicino a Žagubica, per poi essere trasferito in uno straflager (campo di punizione per detenuti ribelli) nei pressi della miniera di Bor. Dopo la liberazione di Belgrado fu assegnato all’Ufficio per la propaganda dell’esercito jugoslavo. Nel 1945, su sua esplicita richiesta, fu inviato al fronte dove rimase ferito. Il suo battaglione si spinse fino a Leibnitz, in Austria. In quel periodo divenne membro della Lega della gioventù comunista di Jugoslavia (SKOJ), poi anche del Partito comunista della Jugoslavia (KPJ), dal quale però ben presto fu estromesso a causa di una lettera in cui, impiegato presso la Casa della fanteria sovietica a Belgrado, criticava la propensione degli alti ufficiali sovietici e jugoslavi ad acquisire privilegi. “Non sopportava l’ipocrisia”, affermerà molto tempo dopo Jovan Popović, figlio del pittore. A spifferare sul suo conto fu un ufficiale dei servizi segreti. Mića fu condannato a sei anni di reclusione, ma avendo ricevuto la grazia da Tito, fu rilasciato dopo soli quattro mesi di carcere.
Nel 1946 Mića si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Belgrado. Nella primavera dell’anno successivo, alcuni studenti del professor Ivan Tabaković fondarono il cosiddetto Gruppo di Zara, la prima comunità artistica della nuova Jugoslavia. Una comunità libera, espressione della resistenza al predominio del realismo socialista. Tra i fondatori del gruppo [1] c’erano anche Mića e sua futura moglie, Vera Božičković [2]. Nell’autunno del 1947 i membri del gruppo furono espulsi dall’Accademia, per poi essere riammessi. Tutti tranne Mića. Avendo deciso di diventare un artista indipendente, Mića intraprese un percorso – perché, come affermò lui stesso, l’arte è un percorso, non un obiettivo – in cerca di una propria espressione artistica, sempre godendo dell’appoggio del professor Tabaković.
La rottura tra Tito e Stalin del 1948 portò, oltre che alla creazione del campo di Goli Otok, anche ad una virata della Jugoslavia verso Occidente. Nel 1950, dopo la prima mostra personale organizzata a Belgrado, a cui presentò 160 dipinti e disegni, riscuotendo grande successo, Mića ottenne una borsa dallo stato per un periodo di studio di tre mesi a Parigi. Il giovane pittore, insieme alla moglie, decise di rimanere nella capitale della Francia, trascorrendovi quasi ininterrottamente un intero decennio. Nulla sintetizza meglio questo periodo delle parole del pittore che a Parigi, pur avendo avuto un proprio atelier e un gallerista, conobbe anche lunghi mesi di povertà, tanto che fu costretto a guadagnarsi la vita pitturando case, travolto da una lotta dentro di sé “pro e contro un’eccessiva libertà nelle arti figurative, pro e contro il diritto assoluto dell’artista di modificare il mondo visibile”. Furono proprio questi dilemmi a spingere Mića a recarsi spesso al Louvre, focalizzandosi sull’opera di Courbet. Ebbe il coraggio di esprimere apertamente le proprie osservazioni sui modernisti che, a suo avviso, decisero di diventare “moderni” perché non erano in grado di disegnare né figure né oggetti, né tanto meno paesaggi. La battaglia portata avanti dal giovane pittore alla ricerca di sé fu segnata in modo decisivo da un soggiorno in Bretagna, sull’Île-de-Bréhat. Lì Mića e Vera conobbero un gruppo di giovani buddisti, sperimentando la profondità di una concezione del mondo che poneva l’enfasi sulla modestia, la semplicità e la ricerca dell’essenza. In quel periodo riconobbero nell’arte informale un mezzo per esprimere il proprio credo.
Durante i suoi sporadici ritorni in Jugoslavia, Mića tenne diverse mostre a Belgrado, accettando anche gli inviti ad esporre le sue opere in alcune gallerie all’estero. In quegli anni pubblicò anche il suo primo libro di teoria dell’arte Sudari i harmonije [Scontri e armonie]. La fase della sua produzione artistica focalizzata sull’estetica dell’informale si protrasse fino alla fine degli anni Sessanta quando, senza mai abbandonare i principi dell’arte informale, Mića decise di ritornare all’arte figurativa. Iniziò così una nuova fase incentrata sullo slikarstvo prizora (pittura di genere), che culminò con l’omonima mostra organizzata nel 1971 nel Museo d’arte contemporanea di Belgrado. In quegli anni Mića si dedicò intensamente anche al cinema, riscuotendo notevole successo come regista [3]. Le sue opere cinematografiche non piacquero però ai censori tra le fila del partito, tanto che il suo Čovek iz hrastove šume [L’uomo della foresta di querce], presentato al Festival di Pola del 1964 e visto anche da Tito, fu subito etichettato come espressione del Crni talas (Onda nera).
Nel 1974 una mostra di Mića Popović fu vietata all’ultimo momento per via dei due dipinti: Ričard Titovog lika ili Životinjsko carstvo [Richard nei panni di Tito o il Regno animale], in cui il celebre attore [Richard Burton, che nel film Sutjeska del 1973 interpretò Tito] passeggia insieme a Tito in uno zoo privato del leader jugoslavo nell’arcipelago di Brioni, e Svečana slika [Immagine cerimoniale] che mostra Tito e Jovanka Broz insieme alla famiglia reale olandese. C’erano molte persone davanti alla galleria del Centro culturale di Belgrado in attesa dell’inaugurazione della mostra quando qualcuno affisse sulla porta un cartello con la scritta “Izložba se odlaže” [La mostra è rinviata]. Il pittore ricorda che tra i presenti c’era anche un francese che, conoscendo bene la lingua serbo-croata, commentò: “Odložba je izložena” [Il rinvio in mostra].
In molti ritengono che la goccia che fece traboccare il vaso della pazienza dei censori sia da intendersi in un contesto più ampio, che va ben oltre i due dipinti di cui sopra. Il ritorno di Popović all’arte figurativa segnò una svolta nel suo percorso artistico verso un maggiore impegno civico, verso una pittura che, intesa come “l’ultimo bastione di difesa di un popolo”, potesse esprimere la posizione politica del suo autore. A questa fase appartengono un ciclo di dipinti raffiguranti scimmie (metafora del degrado culturale) dai titoli che lanciano messaggi molto chiari – Ne, hvala [No, grazie], Manipulacija [Manipolazione], Oštra osuda Crnog talasa [La dura condanna dell’Onda nera], per citarne alcuni – e un ciclo di disegni e dipinti dedicati alla figura di un gastarbeiter ed ex comunista di nome Gvozden. Mića realizzò quest’ultimo ciclo grazie all’aiuto del suo attore preferito, Danilo Bata Stojković, che gli posò per la figura di Gvozden.
Alcuni amici di Mića gli suggerivano di abbandonare l’arte impegnata, chiedendosi perché un artista come lui, capace di dipingere qualsiasi cosa, avesse scelto quella strada. “Per testimoniare”, rispondeva il pittore. Ad ogni modo, Mića riuscì sempre a mantenere uno stato d’animo positivo, grazie anche ai viaggi compiuti in Cina, Thailandia, India e Iran (dieci anni dopo la morte del pittore fu pubblicato un libro che raccoglie i suoi racconti di viaggio.
Nel 1983, dopo due anni trascorsi negli Stati Uniti, Mića tenne una grande mostra a Belgrado. Cinquecentomila visitatori, un vero e proprio referendum. Pur non essendosi mai diplomato all’Accademia di Belle Arti, Mića fu invitato ad insegnare presso l’University di Albany (Alla fine dell’anno accademico diede a tutti gli studenti il voto massimo, lasciando sbigottiti i membri del collegio dei docenti.)
Il pittore che – come sostiene il critico e storico dell’arte Sreto Bošnjak – era sempre rimasto legato al disegno come ad un fedele compagno di vita, morì a Belgrado nel 1996. Poco prima della morte partecipò alle massicce proteste contro il regime di Milošević. Una volta all’opposizione, sempre all’opposizione.
Qualche informazione sulla mostra in corso
Nel saggio introduttivo al catalogo della mostra belgradese, Borka Božović, curatrice della mostra e direttrice della galleria Haos, sottolinea alcuni aspetti particolari dell’arte del disegno di Mića Popović.
“Tutte le opere che abbiamo raccolto per l’occasione provengono da istituzioni e collezioni private, oppure appartengono alla famiglia dell’autore. La mostra è composta da disegni e grafiche che abbracciano un’ampia gamma di scelte tematiche, caratteristiche stilistiche e approcci tecnici. A unire i disegni esposti, ciascuno dei quali è una storia a sé, è l’acutezza dello sguardo nata dall’incontro con la realtà percepita e sperimentata, ma anche un’atmosfera suggestiva, frutto dell’intenzione di raggiungere il traguardo desiderato con pochi mezzi. Emerge poi la forza dell’anima e dell’immaginazione e, altrettanto importante, la mano ingegnosa dell’artista. Mića Popović non percepiva il disegno solo come un processo volto a sistemare e immortalare un’esperienza artistica, ma anche come un segno, traccia, impronta, un atto consapevole, un’idea, un mezzo di conoscenza, ossia uno specchio dell’anima. Disegnava in continuazione sin dalla prima giovinezza, lasciando dietro di sé diversi grandi cicli di disegni. Eseguiva schizzi e abbozzi, illustrazioni, disegni preparatori per dipinti, appunti di diario, ma soprattutto i cosiddetti ‘disegni puri’, come autentiche opere figurative. Utilizzava la matita, l’inchiostro e la penna stilografica, il carboncino, il pennello, i marker, raramente i colori e il collage, senza però mai abbandonare queste ultime due tecniche”.
Un disegnatore instancabile
In alcune interviste, Jovan Popović, figlio di Mića, ha parlato dell’amore perseverante per il disegno coltivato da suo padre. “Ha disegnato per tutta la sua vita. Anche quando era dedito alla pittura informale, o quando vestiva i panni del regista, ha continuato a disegnare. Ha disegnato per il puro piacere di farlo… mentre aspettava in una sala d’attesa o ad una fermata degli autobus, ha sempre disegnato. È stata la sua vera vocazione artistica, ma anche esistenziale […] I suoi disegni sono veri e propri studi, eseguiti con diligenza e cura. Alcuni di questi disegni hanno funto da base per la realizzazione dei grandi quadri su tela. Altri invece, paradossalmente, sono stati eseguiti dopo le grandi tele. Così facendo, mio padre ha voluto rievocare alcuni dei suoi dipinti da cui si è dovuto separare e che ormai sono sparsi per il mondo. Ad esempio, la celebre Manipulacija è stata realizzata prima dell’omonimo dipinto, invece il disegno Gvozden istresa nos [Gvozden si soffia il naso] è stato eseguito solo in un secondo momento, dopo che l’omonimo dipinto è stato venduto, finendo in Italia”.
La Collezione memoriale
Se siete viaggiatori curiosi e se doveste recarvi a Loznica, non perdete l’occasione di visitare la Collezione memoriale di Mića Popović inaugurata nel 1989 in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria all’artista. È l’unica collezione memoriale dell’epoca jugoslava composta da opere selezionate dall’autore stesso. Forse osservando le opere esposte vi torneranno utili le parole dell’artista: “La vita – è come attraversare il cortile… lentamente fino ai quarant’anni”.
E il resto? Lo lascio immaginare a voi lettori. Immaginate anche come sarebbe bello poter visitare una retrospettiva di Mića Popović in divrse città europee, e ovviamente vedere tradotto almeno uno dei suoi libri, ad esempio Ishodište slike [L’origine del dipinto], o U ateljeu pred noć [Nell’atelier sull’orlo della notte]…
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[1] Mile Andrejević, Kosara Bokšan, Ljubinka Jovanović, Bata Mihajlović, Petar Omčikus [2] Vera Božičković Popović (Brčko, 1920 – Belgrado, 2002), nota pittrice, esponente dell’arte informale. Ha partecipato a numerose mostre in Jugoslavia e all’estero, dedicandosi anche al disegno e all’arte dell’arazzo e del costume. [3] A questo periodo, oltre a diversi film diretti da Popović, risale anche lo spettacolo Viktor ili deca na vlasti [Viktor o i bambini al potere], messo in scena al teatro Atelje 212 di Belgrado. [4] Potete scoprire di più su questa mostra e su molti aspetti importanti della vita e la produzione artistica di Popović consiglio in alcuni brevi documentari, tra cui consiglio questo (con sottotitoli in inglese).