Moreno Locatelli: morire di pace a Sarajevo

Ricorrono oggi i trent’anni dalla morte di Moreno Locatelli, pacifista e volontario dei “Beati Costruttori di Pace”, ucciso da un cecchino il 3 ottobre 1993 sul ponte Vrbanja a Sarajevo. Un ricordo di quel periodo nel contesto della commemorazione odierna

03/10/2023, Nicole Corritore - Sarajevo

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Moreno Locatelli a Mir Sada, agosto 1993 © foto Mario Boccia

Oggi saremo in alcune decine sul ponte Vrbanja, uno dei tanti sul fiume Miljacka che attraversa Sarajevo – e che collega il quartiere di Grbavica con quello di Marin Dvor – per ricordare Moreno Locatelli. Volontario dei “Beati Costruttori di Pace”, nell’estate del 1993 aveva deciso di rimanere a Sarajevo – sotto assedio dall’aprile del 1992 – assieme ad altri compagni per partecipare ad azioni a sostegno della popolazione. Ma solo dopo due mesi Moreno fu ucciso.

Oggi, 3 ottobre, a trent’anni dalla sua morte, su questo ponte per la prima volta si ritrovano insieme anche Luigi Ceccato e Luca Berti, due dei quattro volontari che con Moreno avevano tentato di attraversarlo. Alla commemorazione saranno presenti anche l’Ambasciatore italiano Marco Di Ruzza, la vicesindaca di Sarajevo Grad – Anja Margetić, accanto ad altri volontari che con Moreno avevano operato a Sarajevo, familiari e amici arrivati da Canzo, cittadina lombarda dove Moreno è nato e cresciuto.

Nonviolenza e diplomazia dei popoli

L’associazione “Beati Costruttori di Pace”, fondata a Padova nel 1985 dal prete diocesano Albino Bizzotto, all’inizio del conflitto nei Balcani si era attivata, accanto a tante altre realtà italiane, in diverse iniziative. Nel dicembre del 1992 si  assunse l’organizzazione della “Marcia dei 500” pacifisti italiani – che riuscirono ad arrivare a Sarajevo – raccogliendo l’appello di Don Tonino Bello affinché si avviassero concrete azioni a sostegno della pace e della giustizia in Bosnia Erzegovina con iniziative nonviolente.

Nonostante le difficoltà incontrate, quell’iniziativa ebbe successo e soprattutto diede il via a nuove e concrete azioni “dal basso” di aiuto alle popolazioni dei Balcani, reinventando la cooperazione e la solidarietà internazionale italiana che vide coinvolti a diverso titolo circa 20mila italiani, come raccontato da OBCT nel progetto “Cercavamo la pace”.

Nell’estate del 1993, I Beati decisero di organizzare un’altra marcia – “Mir Sada – Pace ora” – con l’intenzione di far arrivare a Sarajevo migliaia di attivisti e pacifisti, nono solo italiani. Alla fine furono poco più di duemila persone, per l’80% italiani, e l’iniziativa non riuscì nell’intento a causa della recrudescenza del conflitto, a parte un piccolo gruppo che decise comunque di raggiungere Sarajevo.

Tra gli italiani c’era anche Moreno Locatelli che dopo la marcia decise di rimanere nella città assediata. Assieme a lui altri volontari, che si erano occupati di distribuire aiuti umanitari in arrivo dall’Italia e fungere da “postini” delle lettere di scambio tra i sarajevesi e i loro familiari fuggiti e accolti in Italia. “Questo servizio fornì un’ancora di salvezza durante il lungo isolamento della città, evidenziando il profondo significato di una semplice lettera in un momento di incertezza", mi ha scritto Luigi Ceccato pochi giorni fa.

"Lettere provenienti da tutta Europa, trascendevano le barriere fisiche. Ogni parola dava vita, avvicinava le persone ai loro cari, stimolava nuovi dialoghi e riaccendeva la speranza”, prosegue Ceccato, sottolineando che fu un servizio di grande importanza, portata avanti da "un gruppo di Signor Nessuno…"  che però "portarono a casa traumi e anni di lutto e tristezza”.

3 ottobre 1993

Luigi Ceccato si riferisce anche a quel 3 ottobre di trent’anni fa. Per iniziativa dell’associazione "Beati i Costruttori di pace", fu deciso l’attraversamento del ponte Vrbanja con l’intento di posare una corona di fiori in ricordo delle prime due vittime civili di Sarajevo – Suada Dilberović e Olga Sučić, uccise in quel luogo da un cecchino il 5 aprile ’92– e rivolgere un appello di pace alle parti in conflitto.

Mario Boccia, fotoreporter che ha seguito tutti i conflitti della dissoluzione jugoslava, era lì in quei giorni e con Moreno trascorse diversi momenti: “Moreno era generoso, testardo e ribelle, con un forte senso della giustizia. Se non fosse stato così, non sarebbe andato a Sarajevo”, ha scritto Boccia per Il Manifesto nel ventennale anniversario della morte di Locatelli.

“Moreno non seguiva tutte le regole, ma solo quelle che condivideva. (…) Non gli piaceva nemmeno la regola che se qualcuno cade in azione dimostrativa gli altri non devono fermarsi a soccorrerlo, ‘per minimizzare il numero delle vittime’. La sentiva militarista e inumana. Si può avere paura, ma non teorizzare il rifiuto del soccorso”, scrive ancora Boccia.

Dopo i preliminari incontri con le forze militari che si contrapponevano attorno al ponte, per richiedere loro il cessate il fuoco, Moreno comprese il rischio altissimo e si disse contrario all’iniziativa. La maggioranza però decise di realizzarla e Moreno, per mettere in salvo i compagni in caso fossero stati colpiti – contrariamente alla regola imposta di non fermarsi – seguì la scelta dei compagni.

Contro i cinque volontari italiani – Moreno Locatelli, Luigi Ceccato, Pier Luigi Ontanetti, Luca Berti e padre Angelo Cavagna – a circa metà del ponte furono esplose raffiche di mitra. Nel tentativo di tornare al riparo, Moreno Locatelli fu colpito da un cecchino. I restanti quattro proseguirono, come loro imposto dalla regola dell’organizzazione, senza fermarsi.

Morì poche ore più tardi, dopo due interventi chirurgici d’urgenza effettuati dal leggendario chirurgo Abdulah Nakaš che in quegli anni salvò centinaia di persone. Nakaš, nelle poche volte in cui si è espresso pubblicamente sulla morte di Moreno, ha dichiarato che era arrivato in ospedale già gravemente dissanguato.

Responsabilità e memoria

“Moreno è vittima della barbarie della guerra e lo piangeremo a lungo”, scrivevano il 10 ottobre 1993 su Il Manifesto, Giulio Marcon e Luisa Morgantini portavoce dell’Associazione per la Pace. “Ma la sua morte è anche un evento che deve interrogarci rispetto a un’azione improvvisata e di una simbolicità fine a se stessa, anche se in nome della nonviolenza; simbolicità che non può essere inseguita ad ogni costo quando sono in gioco vite umane”.

Perché, sottolineano, la vita di pacifisti come Moreno non vale meno di quella delle vittime civili di guerra. Non per niente quel lungo articolo, in cui invitavano il movimento per la pace alla riflessione sulla sua capacità di intervento nei territori della ex Jugoslavia, portava il titolo “Morire di pace. L’amara lezione di Sarajevo”.

Domenica 1 ottobre a Canzo è stata posto un cippo in sua memoria, nei pressi della via a lui intitolata, in presenza del sindaco e di suoi omologhi dei comuni limitrofi, accanto a decine di cittadini e cittadine. Brescia ha da anni un parco intitolato a Moreno, con la scritta "testimone di pace". Una via in suo ricordo è apparsa anche nel piccolo comune di San Minaito Basso in provincia di Pisa. Da dieci anni a Sarajevo c’è una via intitolata a lui e una targa commemorativa nel quartiere di Grbavica.

Ma ciò che è accaduto su quel ponte è rimasto in tutte e tutti noi attivisti di quel movimento di solidarietà – compresa la sottoscritta – una “crna tačka” (punto nero) della nostra memoria di quegli anni. E per chi era su quel ponte, oltre ai compagni di Moreno che hanno condiviso settimane di impegno nelle vie di Sarajevo, un trauma e un dolore che nessuno ha aiutato a elaborare e superare.

Un evento che, inoltre, ha portato negli anni qualcuno a speculare e costruire ipotesi, ma presentandole come certezze, sui mandanti dell’uccisione e su chi ha fisicamente sparato. Senza che – purtroppo – siano mai state fornite esaustive informazioni su quali indagini sono state portate avanti, e quindi rese pubbliche prove chiare e indiscutibili, né dalle autorità italiane né dalle Nazioni Unite, né dalle autorità della Bosnia Erzegovina o dai comandi degli eserciti delle parti in conflitto.

“Sapere chi ha tirato il grilletto è importante, e molto è stato scritto, indagato, accertato (e discusso). Ma su una cosa non ci sono dubbi: Moreno l’ha ammazzato la guerra. Come gli altri undicimila a Sarajevo”, concludeva Mario Boccia nel suo articolo dell’ottobre 2013.

Dopo trent’anni, mi chiedo se la morte di Moreno può rappresentare ancora oggi la prima pagina di un percorso di riflessione per un rinnovato pensiero politico all’interno del movimento per la pace. Penso potrebbe, anzi dovrebbe. E così riprendere la strada del “pacifismo concreto” non dogmatico, tifoso e urlato, dell’indimenticato Alexander Langer.

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