Zone d’ombra
Il lavoro svolto dal Tribunale dell’Aja per la ex Jugoslavia su Srebrenica ha permesso di ricostruire l’intera dinamica della strage. Rimangono tuttavia alcune inquietanti zone d’ombra, che hanno fermato il tempo all’estate del 1995
Se non fosse per il Tribunale dell’Aja, non sapremmo praticamente nulla. La terza fase del più grave massacro avvenuto in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale, dopo la presa dell’enclave e le fucilazioni di massa dei prigionieri, prevedeva infatti l’occultamento dei cadaveri. Un’operazione nella quale l’esercito serbo bosniaco (VRS) si è applicato con metodo, e che ha reso il dolore dei sopravvissuti ancor più lacerante. I processi all’Aja tuttavia, in particolare la collaborazione del soldato semplice Erdemovic (1996) e degli ufficiali della VRS Dragan Obrenovic e Momir Nikolic (2003), hanno vanificato quello sforzo. Le confessioni hanno prodotto un meccanismo a catena, che è culminato nelle ammissioni di responsabilità dei vertici della Republika Srpska (2004), dopo la pubblicazione del lavoro della Commissione istituita da Banja Luka su pressione dell’Alto Rappresentante. Nonostante le mille contraddizioni che attraversano il nascente sistema penale internazionale, si è trattato di un lavoro estremamente importante.
L’inchiesta
E’ stato un giovane commissario di polizia francese, Jean René Ruez, a coordinare l’inchiesta per conto della Procura dell’Aja. Ha iniziato il suo lavoro subito dopo la strage, il 20 luglio del 1995. Ha raccolto pazientemente tutti gli indizi, vagliato i racconti dei testimoni sopravvissuti, catalogato i reperti, incrociato i propri risultati con quelli delle inchieste giornalistiche, cercato i riscontri fossa dopo fossa. Alla luce di quell’inchiesta, della collaborazione di alcuni degli imputati e delle dichiarazioni dei vertici della RS, ogni residuo di negazionismo – che pure resiste – appare oggi grottesco, per certi versi sinistro. Compreso il negazionismo "soft", di quanti sostengono che i morti di Srebrenica sono in realtà soldati morti in combattimento. Non è andata così. Erano tutti prigionieri, civili e/o militari, ammassati a migliaia e poi assassinati, dopo la cattura, per lo più con le mani legate dietro la schiena. Sulla dinamica della strage, la tempistica, la logistica, non rimane praticamente alcun mistero. Perché allora è ancora così difficile "elaborare" il lutto di Srebrenica?
Partiamo dall’inchiesta. Il lavoro di Ruez ha permesso di conoscere fin nei minimi dettagli la meccanica della strage, presentandoci persino la contabilità dei litri di benzina occorsi per portare i prigionieri dai luoghi di raccolta a quelli delle esecuzioni. Eppure, come ha sottolineato recentemente la rivista francese "Cultures et conflits" (n.65, primavera 2007: "Srebrenica 1995: Analyses croisées des enquêtes et des rapports"), alcune zone d’ombra resistono. L’inchiesta dell’Aja, ad esempio, ha messo in luce solo il ruolo e le responsabilità dell’esercito serbo bosniaco. Tutti gli imputati, anche quelli del maxi processo attualmente in corso (Popovic et al.), sono militari. Un’operazione di questo tipo, tuttavia, non poteva essere compiuta senza il sostegno della polizia e delle autorità civili di tutte le comunità locali coinvolte nella strage. Difficilmente un evento di queste dimensioni, per il quale sono stati utilizzati come luoghi di esecuzione anche degli edifici pubblici (la Dom Kulture di Pilici ad esempio) poteva avvenire senza la complicità dei funzionari dell’amministrazione civile o delle forze di polizia. Queste categorie sono però state risparmiate dall’inchiesta.
Pochi processi
In generale, si può sostenere che i processi per la strage di Srebrenica sono stati molto pochi. Sei quelli conclusi, uno ancora in corso. Una sola la condanna per genocidio (Krstic, confermata in appello), mentre i giudici del secondo grado nel processo Blagojevic non hanno considerato genocidio quello che invece era tale per i colleghi del primo grado. Le sentenze pronunciate hanno spesso sollevato le critiche delle associazioni dei sopravvissuti (troppo pochi gli anni comminati), alcuni dibattimenti hanno suscitato forti perplessità anche tra i giuristi (è possibile patteggiare un’accusa di genocidio?). Il punto centrale però è che una strage di queste dimensioni, nelle sue diverse fasi, ha previsto verosimilmente il coinvolgimento di centinaia, se non di migliaia di persone. Quelle processate sono solo sei. Di qui l’angoscia dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime, e la difficoltà del poter immaginare di ricominciare a vivere in condizioni accettabili di sicurezza, tanto più alla luce del fatto che i principali responsabili di quella strage (Radovan Karadzic e Ratko Mladic) sono ancora in libertà.
C’è tuttavia anche un ulteriore elemento. Torniamo all’esempio della Dom Kulture di Pilici. Dal racconto di Drazen Erdemovic veniamo a sapere che di fronte alla Dom Kulture c’era un bar. Al bar c’era gente. I soldati ogni tanto, sfiniti dal lavoro di dover uccidere nel teatro con mitragliatori e granate circa 500 persone, andavano lì a riposarsi. Il bar era aperto, c’era gente.
Le esecuzioni di massa non sono avvenute solo su montagne sperdute nella Bosnia dell’est, ma anche in contesti urbani. I dibattimenti hanno quindi portato alla luce, senza poterla affrontare, anche la questione della cosiddetta responsabilità collettiva. Su questo un sistema giudiziario tradizionale ha poco da dire. Valgono le riflessioni fatte a suo tempo – per un contesto storico completamente diverso – da Primo Levi (v. in particolare la lunga intervista con Ferdinando Camon, pubblicata nel 1987 come "Autoritratto"). Quelle carte però, oltre a descrivere i limiti della giustizia tradizionale, ci aiutano a capire qualcosa sulla Bosnia di oggi.
Oggi
Mercoledì 11 luglio, come ogni anno, ci saranno le commemorazioni presso il Memoriale di Potocari. Come ogni anno, verranno sepolti i desaparecidos identificati in questi ultimi mesi (440) grazie al lavoro infaticabile della Commissione internazionale per le persone scomparse (ICMP). Tra di loro, per la cronaca, ci saranno anche Smail Ibrahimović, Juse Delić, Sidika Salkić e Dino Salihović, quattro delle persone assassinate dai cosiddetti "Scorpioni" nel video reso pubblico nel giugno di due anni fa. Le persone ancora da identificare sono tuttavia migliaia, e per i loro familiari il tempo è rimasto fermo al luglio 1995.
Il dibattito pubblico su Srebrenica, invece, è in continuo movimento. Dopo la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 26 febbraio scorso nel caso BiH contro Serbia, che ha confermato essersi trattato di un genocidio, i bosgnacchi ritornati a Srebrenica hanno richiesto la costituzione di un distretto internazionale, una sorta di extraterritorialità che sottragga la cittadina all’autorità della Republika Srpska. Per ora l’Ufficio dell’Alto Rappresentante (OHR) ha garantito che il Centro Memoriale di Potocari verrà posto sotto l’autorità dello Stato (e non della RS), ma ha rimandato ogni possibile modifica di Dayton al dibattito sulle riforme costituzionali. Il campo allestito dai ritornanti di Srebrenica a Sarajevo verrà verosimilmente smontato nei prossimi giorni. Eppure il problema è tutto lì, nei ritorni.
Diversamente da altri episodi della guerra bosniaca, a Srebrenica è stato messo in atto un vero e proprio piano di sterminio, il cui obiettivo era quello di eliminare i bosgnacchi dalla Bosnia orientale. Una prima fase contrassegnata da vendette e omicidi individuali, subito dopo la caduta dell’enclave, venne infatti seguita dalla decisione di eliminare tutti i prigionieri di sesso maschile. E’ quanto il Tribunale dell’Aja per la ex Jugoslavia, e poi la Corte Internazionale di Giustizia, hanno a buon diritto definito "genocidio". Liquidare anche un solo genere, quello maschile, corrisponde all’annientamento di una intera comunità, che non potrà riprodursi. E’ questa verosimilmente la ragione dell’intera operazione. Non bastavano il t[]ismo o la "semplice" pulizia etnica. Volevano essere sicuri che i bosgnacchi non sarebbero mai più ritornati. Invece stanno ritornando, e reclamano diritti.
Vergogna
C’è un’ultima zona d’ombra, che le varie inchieste su Srebrenica non hanno neppure lambìto. Questa non riguarda i bosniaci, riguarda noi. Srebrenica è potuta avvenire solo grazie al tradimento delle Nazioni Unite, che avevano dichiarato quella una "zona protetta". I caschi blu olandesi presenti nell’enclave non hanno reagito all’attacco dell’esercito di Mladic. Hanno sì richiesto un intervento aereo, che però non è mai arrivato, ma poi, dopo la caduta dell’enclave, secondo le testimonianze dei sopravvissuti hanno collaborato con i serbo bosniaci. Infine, e soprattutto, hanno lasciato in fretta l’area, quando l’intera operazione genocida doveva ancora iniziare.
La recente decorazione di quei caschi blu, considerato che l’esito della loro missione sono state oltre 8.000 vittime, non è solo un affronto nei confronti dei familiari e dei sopravvissuti. E’ una vergogna per noi europei. Rappresenta nella forma più evidente la nostra persistente volontà di rimozione, la nostra incapacità di fare i conti con il passato. E’ come se non fosse successo nulla. Anche se è successo, in ogni caso non ci riguardava e non ci riguarda.
Quel conflitto invece riguarda il futuro dell’Europa. Continuerà anche dopo l’arresto (se mai ci sarà) di Karadzic e Mladic. Continuerà fino a quando non sarà sconfitta la loro politica, basata sul razzismo e la pulizia etnica, che ha raccolto tanti adepti durante e dopo la guerra, non solo in Bosnia Erzegovina. Se l’Europa si autoassolve per le proprie responsabilità nelle crisi degli anni ’90, o volta la testa, sarà il segno della loro vittoria.