Uniti contro la plastica nelle aree protette del Mediterraneo
Ricerca scientifica e buone pratiche. Questi i due elementi portanti che vedono da alcuni anni ricercatori e volontari di Italia, Spagna, Grecia, Albania, Croazia e Slovenia battersi insieme per tutelare dalle plastiche le aree naturali protette del Mediterraneo
II Mediterraneo è uno dei mari più colpiti al mondo dalla presenza di rifiuti in plastica. Dagli oggetti più ingombranti arenati sulle coste alle micro-plastiche alla deriva con le correnti, i rifiuti sono ormai una presenza costante che non risparmia neanche i bracci di mare all’apparenza più incontaminati, compresi quelli protetti.
Affrontare il problema in un mare circondato quasi completamente da paesi densamente abitati e diversi da loro non è pensabile senza una forte cooperazione internazionale. È su questo assunto che si fonda il progetto Plastic Busters MPAs , finanziato con 5 milioni di euro dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale e parte del Programma transnazionale Interreg MED tra tredici paesi dell’area mediterranea.
Il progetto vede tra i paesi aderenti Italia, Spagna, Grecia, Albania, Croazia e Slovenia e mira a salvaguardare la biodiversità e gli ecosistemi naturali delle oltre 1200 aree marine protette (MPAs) del Mediterraneo.
Plastic Busters MPAs poggia su due pilastri. Da un lato un fitto programma di ricerca scientifica, per monitorare l’impatto reale della plastica sugli organismi, dagli invertebrati come i ricci di mare ai grandi mammiferi marini, e stabilire metodi affidabili per confrontare i dati raccolti. Dall’altro favorire buone pratiche per prevenire l’arrivo dei rifiuti in mare e mitigarne l’effetto, con l’idea di favorire la cooperazione tra le aree protette di tuti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Se le iniziative per ridurre la plastica nei mari si moltiplicano da anni, Plastic Busters MPAs è la prima che si agisce su una “scala mediterranea, in cui i paesi uniscono le forze per affrontare la problematica dei rifiuti marini, con un approccio coordinato”, ha dichiarato Maria Cristina Fossi, ecologa all’Università di Siena, che coordina il progetto.
Plastic Busters MPAs, infatti, nasce come costola di Plastic Busters, un’altra iniziativa lanciata proprio dall’ateneo toscano nel 2016, a cui hanno aderito tutti i 43 paesi membri dell’Unione intergovernativa per il Mediterraneo (UpM).
Dal mare al laboratorio
Le prime fasi del progetto hanno visto gli scienziati impegnati a stabilire delle metodologie condivise per monitorare sia l’abbondanza dei rifiuti nelle diverse aree protette che i loro effetti sulla fauna marina.
Tra la primavera e l’autunno del 2019 sono salpate quattro spedizioni in altrettante aree marine protette dei paesi partner. Dal parco di Cabrera nelle Baleari a Zante, in Grecia, passando per l’Arcipelago Toscano e il Santuario Pelagos dei mammiferi marini (la vasta area che comprende il mar Ligure, il Tirreno settentrionale la Corsica e parte della Costa Azzurra, particolarmente ricca di cetacei), i ricercatori hanno potuto così studiare direttamente acque, sedimenti e organismi delle aree marine protette alla ricerca degli effetti della plastica sull’ecosistema.
Dopo giorni passati in mare a raccogliere microplastiche (i frammenti inferiori ai 5 millimetri) a diverse profondità, campionare sedimenti e organismi marini e osservare rifiuti galleggianti e censire animali selvatici, l’azione si è spostata in laboratorio.
Mentre nei laboratori ISPRA di Milazzo e Messina i ricercatori hanno concentrato i loro sforzi su specie di grande importanza commerciale come l’acciuga europea, l’Istituto Spagnolo di Oceanografia e il Centro oceanografico delle Baleari si sono focalizzati su ricci di mare, oloturie e specie di pesci presenti nel parco di Cabrera.
L’Università di Siena, invece, ha invece effettuato un gran numero di biopsie su grandi specie a rischio come i capodogli e le tartarughe marine.
Il Centro Ellenico di Ricerca marina (HCMR), invece, ha studiato l’ingestione di microplastiche in cozze, pesci, e anche due specie a rischio simbolo del Mediterraneo, le tartarughe Caretta caretta e la foca monaca.
Oltre agli istituti di ricerca e agli enti gestori dei parchi, un ruolo importante è stato svolto anche da volontari e ong, la maggior parte delle quali appartenente alla MIO-ECSDE, la Federazione senza scopo di lucro di 133 ong mediterranee per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile. L’ong greca Archipelagos, ad esempio, si è prodigata nella ricerca dell’elusiva foca monaca tra le scogliere di Zante.
Neanche le aree protette sono al sicuro
I risultati definitivi non sono stati ancora pubblicati, ma quanto si sa finora conferma che anche nelle aree marine più integre la plastica è onnipresente.
Uno dei valori che vengono di solito considerati è la quantità di rifiuti sulle spiagge. Per essere considerata in buono stato, secondo le direttive europee, su una spiaggia la guarnita di rifiuti (macroplastiche) dovrebbe essere inferiore ai venti ogni cento metri lineari. “Ma in tutte le aree studiate i valori erano almeno dieci volte più alti”, commenta Catherine Tsangaris, dell’Istituto Ellenico di Ricerca Marina.
Se parte dei rifiuti giunge da lontano, trasportato dalle correnti, una parte cospicua della plastica è di origine locale. Sull’isola greca sono addirittura prevalenti. “Occorre considerare che, anche se godono di una protezione particolare, i parchi marini sono anche destinazioni turistiche, e questo pone una sfida aggiuntiva”, continua Tsangaris.
I ricercatori hanno cercato di valutare la percentuale di organismi che hanno ingerito plastica, dagli invertebrati come molluschi e ricci di mare alle balene, e gli eventuali effetti sul loro metabolismo.
In tutte le aree considerate i ricercatori hanno così scoperto che ben la metà degli organismi campionati aveva ingerito plastiche, con percentuali variabili dal 10% dei pesci spada al quasi l’80% dei capodogli. Anche se il dato non ha valore statistico visto il bassissimo numero di campioni raccolti, per la foca monaca la percentuale osservata è addirittura del 100%.
“Ci saremmo aspettati che all’interno aree protette la percentuale di organismi che hanno mangiato macro-plastiche sarebbe stata minore che fuori”, commenta Tsangaris, “ma almeno a Zante i valori sono praticamente identici”.
I ricercatori dell’Istituto di Oceanografia dell’HCMR greco hanno valutato anche la genotossicità della plastica ingerita, cioè la possibilità che causi mutazioni genetiche e tumori. Per fortuna, dal momento che ogni individuo aveva ingerito in media solo uno o due frammenti, non si sono riscontrati particolari problemi. Ma poiché è probabile che la plastica ingerita aumenterà nel tempo, non è il caso di abbassare la guardia.
“Trasferimento esponenziale” delle buone pratiche
Il progetto non si ferma alla ricerca, ma comporta azioni concrete per affrontare al meglio l’intero ciclo di gestione dei rifiuti marini, con azioni per la prevenzione e la mitigazione. I partner hanno messo a punto una serie di misure per capitalizzare i risultati ottenuti non solo di questo ma di altri progetti correlati, nel segno della Direttiva europea sulla Strategia marina e della Convenzione di Barcellona sulla gestione dei rifiuti marini nel Mediterraneo.
“Plastic Busters MPAs creerà e implementerà almeno 10 progetti dimostrativi sui rifiuti marini”, si legge sul sito ufficiale, in altrettante aree marine protette. Le lezioni apprese saranno raccolte in una serie di linee guida complete per sostenere le azioni di replica, con l’obiettivo di avere un “trasferimento esponenziale” che si propaghi ad altri parchi marini.
È quello che è successo nelle scorse settimane nella nuova area marina protetta di Platamuni in Montenegro, e di Debeli Rti/Punta Grossa in Slovenia. Sulla base delle esperienze ormai pluriennali del progetto, il parco montenegrino ha intrapreso un programma per ridurre i rifiuti legati alla pesca, mentre quello sloveno ha creato una rete di bar sulla spiaggia libera dalle plastiche monouso.
Nell’autunno 2021, in quattro comuni italiani e francesi situati all’interno dell’area del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano e del Santuario Pelagos il team di Plastic Busters ha invece coinvolto le imprese locali, che hanno firmato una dichiarazione di intenti a ridurre l’uso delle plastiche monouso dalle loro attività.
Nelle aree protette si sono svolte anche manifestazioni, workshop e conferenze per esportare il know – how ottenuto nel corso del progetto.
A Valona, in Albania, alla fine di febbraio si è tenuta una conferenza con oltre centodieci partecipanti, compresi alti funzionari come il vice-ministro del Turismo e dell’Ambiente dell’Albania.
Sul Delta dell’Ebro in Spagna, invece, lo scorso novembre gestori delle aree protette, ong ambientali e politici locali si si sono seduti allo stesso tavolo in un workshop di due giorni.
Lo stesso è avvenuto in ottobre a Dubrovnik, dove dopo una grande conferenza il team di Plastic Busters ha tenuto una formazione specifica per gestori delle aree protette e amministratori della regione.
Il 26 gennaio 2022, intanto, ha preso il via un nuovo progetto collegato, Plastic Busters CAP. Mentre Plastic Busters MPAs si è concentratosui paesi del Mediterraneo settentrionale (Albania, Croazia, Francia, Grecia, Italia, Montenegro, Spagna, Slovenia), la nuova iniziativa si propone di replicare le azioni nei paesi del Mediterraneo meridionale, in particolare Egitto, Giordania , Libano e Tunisia.
Mentre la plastica continua ad accumularsi nel Mediterraneo, gli sforzi per arginarla si moltiplicano. Ma se finora ogni paese ha agito prevalentemente per sé, iniziative come Plastic Busters mostrano che fare insieme è l’unica strada. Anche secondo Alessandra Sensi, Responsabile del Settore Ambiente e Blue Economy dell’UpM: “Plastic Busters mostra come l’impegno e una collaborazione senza precedenti sui rifiuti marini e sull’economia circolare, possono fare la differenza”.