UE: le redini alla Slovenia
Dal primo gennaio la Slovenia assume la presidenza di turno dell’UE. Si tratta del primo Paese tra i nuovi membri a prendere in mano il timone dell’Unione. Le sfide e le difficoltà nel commento del nostro corrispondente
Dal primo gennaio la Slovenia assume, per i seguenti sei mesi, la presidenza di turno dell’Unione Europea.
L’avvenimento non è di poco conto, la sua valenza politica è rilevante. La Slovenia è il primo tra i nuovi membri UE dell’Est a prendere in mano il timone dell’Unione, così come l’anno scorso fu il primo paese ex socialista ad introdurre l’euro. Inoltre la Slovenia è il primo – e per ora l’unico – paese della ex Jugoslavia membro dell’UE. La Slovenia è considerata nelle cancellerie europee ed a Bruxelles una «succes story», un caso esemplare il cui ruolo dovrebbe essere soprattutto quello di stimolo per gli altri paesi dell’area e dell’Europa centro-orientale in genere.
Il calcolo ha una certa logica; il paese è piccolo, giovane, duttile, la sua economia è relativamente stabile, politicamente appare poco stressato, è più europeista dell’Europa, ha un apparato di stato zelante, ha un austroungarico talento organizzativo, un simpatico protocollo, più che ad una grande impresa assomiglia ad un’azienda familiare. Insomma il paese ideale per essere esposto e coccolato come un fiore all’occhiello della nuova Europa. Inoltre ci sono le coccole al governo di centro-destra capitanato da Janez Janša della grande famiglia popolare europea. Ottimi rapporti con Barroso e Poettering. Ancora migliori con George Bush. La Slovenia ha inoltre un’opposizione ben disposta sui temi europei. Janša propone che la Slovenia sia il primo paese UE a ratificare il trattato di Lisbona.
Luci e ombre di una «succes story»
Ma a prescindere dall’immagine di una Slovenia «prima della classe» che l’establishment politica europea vuole a tutti i costi diffondere per incoraggiare il processo d’integrazione, l’europeissima Slovenia deve fare anche i conti con alcuni problemi ed un certo malcontento in casa. La popolarità di Janez Janša, uno dei principali protagonisti dell’indipendenza del paese, – considerato un abile politico, un alleato di ferro dell’amministrazione Bush, oggi pragmatico e ben disposto verso l’ Europa ma in un passato non proprio lontano arroccato su posizioni nazionaliste e persino xenofobe, populiste e militariste – è in picchiata. La sua guerra di nervi con i media ed i giornalisti, che nel suo mandato ha cercato goffamente di sottomettere con fare autoritario, direttamente o indirettamente, ha fortemente intaccato quell’immagine di politico moderato che si era accuratamente costruita negli ultimi anni. Il clientelismo con cui ha cercato di ottenere la complicità dei nuovi ricchi, dei «tycoon» locali, per controllare le maggiori testate del paese, gli si è rivolto contro come un boomerang. Il capitale lo sta abbandonando in fretta cercando l’inciucio con i partiti che già si prospettano vincitori alle prossime elezioni nell’autunno 2008.
Sul governo Janša inoltre incombe ancora l’ombra dei cancellati, varie migliaia di persone di origine jugoslava che nel ’92 – per una cancellazione arbitraria dal registro dei residenti – persero ogni diritto e che oggi aspettano ancora riconoscimento e soddisfazione. Migliora invece l’immagine del paese rispetto alla problematica dei Rom. Una serie di leggi e la soluzione del caso della numerosa famiglia rom Strojan, scacciata a furor di popolo e con la complicità delle autorità nell’autunno del 2006 dalla propria casa e che ora potranno rimanere definitivamente a Roje, presso Lubiana – hanno calmato le acque, e la Slovenia può ora vantare in Europa una delle legislazioni più avanzate in tema di minoranze.
Più di qualche perplessità suscita però il principale fiore all’occhiello sloveno: l’economia ed il welfare. L’ombra che più sembra incombere sull’euro di Lubiana è l’inflazione che in dicembre ha toccato il 5,7% uscendo di brutto dai parametri della moneta unica. E lo scontento sociale per il carovita e le differenze sociali sempre più accentuate si fa sentire anche in piazza. I sindacati reclamano una sorta di «scala mobile» e soprattutto – in virtù della forte crescita economica – una legge sulla partecipazione dei lavoratori nella partizione dei profitti. C’è poi il «no» deciso dei sindacati e dell’opposizione alla privatizzazione selvaggia ed ai privilegi della potente Chiesa cattolica paventata dal governo anche per i settori chiave del bene pubblico, la scuola e la sanità.
La patata bollente del Kosovo
Lubiana subentra alla testa dell’UE in un momento non certo facile per la stabilità nell’Europa sud-orientale. L’indipendenza del Kosovo – annunciata dai suoi leader per il prossimo gennaio o febbraio, e di fatto politicamente già accettata dall’UE e dagli USA – potrebbe far riesplodere nei Balcani una crisi dagli scenari imprevedibili. La Serbia non sembra disposta a cedere sul tema della sovranità nella provincia a maggioranza etnica albanese che, formalmente, appartiene ancora a Belgrado. Persino il moderato presidente Boris Tadić ha caldeggiato in questi giorni, a fianco del più nazionalista premier Vojislav Koštunica, persino una rinuncia all’UE o un congelamento dei negoziati con Bruxelles, se questa dovesse riconoscere l’indipendenza del Kosovo. Le lusinghe europee, comprese gli ammiccamenti e le allusioni – primi fra tutti quelli di Romano Prodi – a chiudere un occhio sui due criminali di guerra più ricercati dall’Aja, Radovan Karadžić e Ratko Mladić, nonché l’offerta di una trattativa accelerata per l’adesione della Serbia all’UE in cambio del Kosovo, non sembrano – almeno per ora – aver sortito un qualche effetto incoraggiante per Bruxelles.
Inoltre c’è l’ombra di Putin, la nuova icona dei serbi del Kosovo che si sentono – non senza qualche ragione – minacciati da uno stato etnicamente esasperato e in mano a personaggi come Hashim Thaci, malgrado la costituzione kosovara garantisca uno spazio politico alle minoranze. La Russia non sembra avere più voglia di guardare dalla finestra mentre gli USA la circondano da ogni quadrante, Balcani compresi. Nei prossimi sei mesi, proprio durante la presidenza slovena, è previsto l’inizio del negoziato su un accordo strategico sul gas tra Russia e UE. Le trattative potrebbero complicarsi anche a causa del Kosovo.
E allora? Alla Slovenia, membro UE ma anche paese ex jugoslavo, viene affidato il difficile ruolo di mediatore. Mediatore per procura, ovvio. La Slovenia sta ormai da tempo portando avanti idee e iniziative che certo non nascono a Lubiana, bensì a Washington, Parigi, Berlino e Londra.
Janez Janša ha inoltre fama di aver avuto anche in passato ottimi rapporti politici con i leader dell’UCK, l’esercito di liberazione del Kosovo, mentre il ministro degli Esteri Dimitrij Rupel è da un po’ di tempo che lancia messaggi d’amore a Belgrado mentre ostacola la Croazia lasciando intendere di voler portare Serbia e Croazia nell’UE in un unico pacchetto.
I prossimi sei mesi non saranno certo facili per la Slovenia e l’UE. Ma a Lubiana tutti sperano che le grandi decisioni siano già state prese. Si spera in un passo avanti nell’impegno per ridurre l’emissione di gas nocivi. L’altro tema in agenda è il «dialogo interculturale», che sembra però più un titolo da simposio che un programma vero e proprio. I sei mesi di presidenza saranno senz’altro un susseguirsi di atti protocollari e di riunioni di lavoro, nell’organizzazione dei quali la Slovenia dovrebbe – stando alle sue esperienze – cavarsela bene.