Turchia: il tesoro della grotta di Divle

A Divle, sugli altopiani della Turchia anatolica, il tradizionale formaggio "tulum" viene conservato da secoli in pelli di pecora e capra all’interno di una profonda grotta alle porte del villaggio, dove è sottoposto ad un processo di erborinizzazione. Un vero tesoro da preservare

31/12/2013, Francesco Martino - Karaman

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Karaman, Turchia - foto di Ivo Danchev

Il ronzio sordo del piccolo montacarichi scoperto, che permette la discesa a non più di due persone per volta, accompagna il passaggio verticale tra due mondi antitetici, totalmente difformi. Dall’altipiano spazzato dal vento, inondato di una luce violenta, passiamo all’improvviso nella frescura intima della grotta, dove le ombre si allungano, finché dello sfavillio del sole di luglio non resta che un bagliore latteo, quasi impalpabile.

Gli occhi tentano ancora di abituarsi al buio, quando lampade elettriche s’accendono all’improvviso. Appare allora una visione surreale, dai riflessi magici: su ampie scaffalature di legno d’abete, che accompagnano le pareti dello stretto budello, riposa un piccolo esercito di sacchi muti. Alcuni più piccoli, bianchi e levigati, altri più grandi, coperti di pelo nero o rossiccio.

Karaman, Turchia - Foto Ivo Danchev

La grotta del tesoro

E’ questo il tesoro segreto della grotta: nei recipienti, confezionati da mani pazienti con pelli di pecora e capra, riposa il formaggio erborinato “tulum” di Divle, figlio di una tradizione antichissima, che si perde nelle leggende che fioriscono negli spazi infiniti dell’Anatolia.

Turchia centrale. Siamo sulla strada che da Karaman porta ad Eregli. Il Mediterraneo, in direzione sud, non è lontano, ma per arrivare al mare bisogna superare gli alti monti del Tauro, coperti di neve fino ad estate avanzata. Tutto intorno, l’altopiano immerso nel sole è una steppa semi-arida senza fine. I turchi hanno un termine speciale per il paesaggio brullo dell’Anatolia: “bozkir”, traducibile in modo approssimativo come “pascoli gialli”, per millenni regno incontrastato di mandrie e pastori nomadi.

E in effetti, l’altopiano raccoglie tutte le sfumature pastello del colore, dal paglierino all’ocra, passando per lo zafferano. Solo i corsi d’acqua, che tagliano profondi il tavolato interminabile, sono accompagnati da rigogliosi filari di salici e pioppi, dalle fronde di un verde scuro e violento. E’ risalendo uno di questi canyon lussureggianti che si arriva a Divle, 300 anime e 3500 tra pecore e capre, in una delle aree più remote e affascinanti della regione.

“L’allevamento è stato sempre al cuore della presenza umana in questo territorio. Ancor prima del sultanato de i Karamanidi, che qui costruirono per secoli un potente stato sulla via della seta”, ci racconta davanti ad un tè fumante l’anziano Talat Duru “bey”, storico locale e memoria viva della regione di Karaman. “Per i pastori nomadi, le pelli degli animali costituiscono il metodo più razionale per la conservazione del formaggio: ecco come nasce il ‘tulum’, o ‘formaggio al sacco’. Anche l’uso di grotte per la preservazione degli alimenti, è un espediente antichissimo e un tempo molto diffuso, anche se oggi quasi dimenticato”.

La magia del formaggio di Divle nasce da una fortunata combinazione tra queste due tradizioni. Nella grotta, scavata dalle forze immani della tettonica appena fuori dal villaggio, particolari condizioni microclimatiche favoriscono infatti il processo di erborinizzazione del formaggio, che assume così aroma e consistenza uniche ed irripetibili.

“Nessuno sa da quando la grotta venga utilizzata per creare il nostro formaggio, nemmeno i nostri anziani ne portano il ricordo”, ci dice allegro ed energico Ibrahim Bayrak, giovane di Divle (ma che oggi vive in un villaggio poco lontano, chiamato Agizbogaz) che con lavoro e spirito d’iniziativa è riuscito a mettere in piedi un piccolo caseificio, dove lavora il latte di molti compaesani. “La tecnica di produzione, però, è rimasta immutata da secoli, anche se ogni famiglia utilizza una ricetta leggermente diversa ed originale”.

Come nasce il "tulum"

Per assistere alla produzione nella sua forma più tradizionale saliamo a Kaybeyli, poche case quadrate dal tetto di terriccio costruite lungo un corso d’acqua minore, a cui si arriva percorrendo una mulattiera polverosa, puntellata cardi in fiore. Qui Sibel Kuthaya e la sua famiglia lavorano sotto una tettoia, improvvisata quanto funzionale, fatta di frasche coperte da un largo telo impermeabile.

Karaman, Turchia - Foto Ivo Danchev

Sibel è una donna semplice e solare. Mentre ci illustra il processo di lavorazione, i suoi due figli restano attaccati timidamente alle pieghe dei suoi “shalvari”, pantaloni a falde larghe diffusi in buona parte del mondo musulmano. “Dopo la cagliatura, il formaggio, fatto esclusivamente di latte di capra e pecora, va lasciato riposare un giorno intero. Poi viene pressato sotto grandi massi rotondi, e infine salato. Riposa ancora per otto o dieci giorni, prima di essere sbriciolato e infilato a mano nei sacchi di pelle”.

La preparazione dei sacchi è un processo lungo e paziente: dopo lo scorticamento, le pelli vengono lavate, salate e fatte asciugare al vento dell’altipiano per alcuni giorni. Conservate in un luogo areato per almeno un anno, possono essere utilizzate una sola volta.

“Il ‘tulum’ viene portato nella grotta di Divle nella stagione della produzione, che va da maggio, quando i pascoli sono ancora verdi, fino a settembre. Qui resta per almeno quattro mesi. In questo periodo”, spiega Ibrahim, accompagnando le parole con movimenti posati delle mani, “i sacchi vengono attaccati da funghi del ceppo Rocheford. Quando il sacco è ricoperto da uno strato sottile color porpora, allora è maturo, pronto ad essere mangiato. Ci sono molti modi di gustarlo”, prosegue Ibrahim, mentre un sorriso sornione gli si allarga sul viso brunito dal sole. “Ad esempio come ingrediente di piatti a base di pasta sfoglia come il ‘borek’ o il ‘gozleme’, ma soprattutto come ‘meze’ (antipasto), magari accompagnato da melone e da un bicchiere di buon ‘raki’, l’acquavite turca aromatizzata all’anice”.

In paese, la produzione di formaggio è un processo collettivo, che quasi sempre riguarda non tanto le singole famiglie, quanto il “komsuluk”, cioè gli stretti rapporti di vicinato. Il prodotto viene oggi utilizzato soprattutto per il consumo privato, oppure venduto attraverso canali di conoscenze personali.

La grotta può contenere fino ad un massimo di 70 tonnellate di formaggio. La produzione attuale, però, non supera le 25-30 tonnellate annue, e in anni recenti ha toccato appena le 13-14 tonnellate.

Un ecosistema fragile

“In paese mancano i giovani: nei decenni passati l’emigrazione, diretta a città come Istanbul e Izmir, ma anche verso paesi lontani come Germania e Olanda, l’ha letteralmente svuotato ”, ci racconta nella sua casa dall’arredamento essenziale, e davanti all’immancabile bicchiere di tè Cenan Kuthaya, “muhtar” (sindaco) di Divle dal 2008. “Negli anni ’70 qui vivevano tremila persone, e i capi di bestiame erano più di 18mila. Oggi siamo appena trecento, con poco più di cento capi a famiglia. E’ difficile portare avanti le tradizioni, quando le nuove generazioni preferiscono una vita diversa, lontana da qui”.

A mettere in pericolo la tradizione del “tulum” non è però solo lo spopolamento. L’altipiano anatolico è un ecosistema fragile, sottoposto oggi col tumultuoso sviluppo economico della Turchia alla crescente pressione dello sfruttamento umano, ma anche dai processi globali del mutamento climatico.

“La regione di Karaman, e soprattutto l’area intorno a Divle hanno precipitazioni scarse, e col riscaldamento globale, il rischio di desertificazione cresce”, sostiene Zafer Yasar, agronomo di Karaman e membro del convivium Slow Food di Ankara, impegnato da anni in prima persona nel complesso tentativo di salvaguardare il “tulum”di Divle. “Un rischio aumentato dall’agricoltura industriale nell’area di Karaman, che fa ricorso massiccio allo sfruttamento delle falde acquifere, processo che potrebbe portare alla salificazione dei terreni coltivati, con ricadute sull’intero ecosistema”.

Nato sulla linea che divide e unisce luce ed ombra, sospeso tra le estensioni sconfinate dei pascoli anatolici e gli angusti interstizi delle profondità sotterranee, il formaggio “tulum” di Divle si trova oggi di fronte all’incrocio più delicato: quello tra passato e futuro.

“Questo pezzo di cultura, di sapere e sapore, non può sopravvivere da solo. Per essere consegnato alle generazioni future, ne vanno salvaguardate le radici culturali, sociali e ambientali”, dice convinto Zafer. Una sfida aperta in una Turchia che cambia, cresce e si modernizza in fretta, ma che rischia di perdere per strada il respiro dei grandi spazi. E i sapori che ne hanno disegnato l’anima.

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