Tradurre Anna

Claudia Zonghetti è la traduttrice dei libri di Anna Politkovskaja. Osservatorio l’ha incontrata per parlare dell’ultimo libro uscito dopo l’assassinio della giornalista, “Per Questo”, pubblicato da Adelphi

Tradurre-Anna

spine (di Nadia di Filippo e Nb B.2007)

Per questo”, uscito dopo il tragico assassinio del 7 ottobre 2006, è stato definito il libro più tragico e potente di Anna Politkovskaja. Condivide questo giudizio e in caso affermativo in cosa consistono le principali differenze rispetto a "La Russia di Putin" e "Diario Russo"?

“La Russia di Putin” è un volume concepito “per l’Occidente”, più esplicativo, più “didattico” (virgolette d’obbligo). "Diario russo" è appunto un diario, sono pagine dettate dall’urgenza di raccontare, sono appunti di viaggio (non necessariamente geografico), sono storie per mostrare una Storia sporca di fango e di violenza, diversa da quella infiocchettata della stampa ufficiale. “Per questo” – domanda e risposta insieme: per questo l’hanno uccisa? per questo… – è un’ampia scelta degli articoli finiti e pubblicati su Novaja gazeta, è la conseguenza del Diario, il suo risultato potente e tragico – per contenuti ed esito finale.

L’incipit del libro, dove la Politkovskaja definisce “mattacini”, ossia clown quasi tutti i giornalisti russi dell’ultima generazione, riflettendo sulla sua triste condizione di giornalista che lavora oramai “solo in clandestinità”, mi è sembrato una sorta di epitaffio, quasi un’anticipazione del tragico destino che l’attendeva. Che lettura dà di quello scritto uscito peraltro postumo il 26 ottobre del 2006?

È certamente, una sorta di credo. La sua – ennesima, ultima – dichiarazione d’intenti. Gli altri hanno scelto di prestare la penna ai giochi del potere, io provo a resistere e a fare il mio mestiere nell’unico modo che ritengo lecito e possibile. Una scelta che non è priva di conseguenze: “Il veleno nel tè. Gli arresti. Le lettere minatorie. Le minacce via internet e le telefonate in cui mi avvertono che mi faranno fuori”. Una lista, tuttavia, che è più per noi – è a questo che andrete incontro se scegliete la coscienza – che per se stessa. In “Letter to Anna”, il documentario che le ha dedicato, Eric Bergkraut glielo chiede a brutto muso, se ha paura e di cosa. E Anna Politkovskaja risponde che una tradizione russa vuole che le paure non vengano mai nominate, o avranno il sopravvento.

Nell’articolo “Siamo vivi ancora una volta”, in cui l’autrice dipinge la figura del colonnello Mironov, mandato a combattere in Cecenia, si avverte quasi un senso di pietas laica verso gli uomini dell’esercito come se anche questi fossero vittime al pari della popolazione civile della macchina imperialista moscovita. Volevo innanzitutto sapere se condivide questa lettura e allargare il discorso al tema più generale della guerra e delle violenze in Cecenia presente in tutta l’opera della Politkovskaja.

La prima accusa che gli ultranazionalisti muovevano ad Anna Politkovskaja (e per la quale l’avevano iscritta nella lista nera degli sgraditi e passibili di eliminazione) era di infangare il buon – sacro – nome dell’esercito russo. È vero, Anna Politkovskaja si è occupata a lungo di storie di nonnismo con esiti letali o comunque disastrosi – sostenendo a spada tratta i Comitati delle madri dei soldati -, è vero, ha offerto storie su storie dove la violenza delle truppe federali era cornice, tela e scenario. Ma solo perché la realtà dei fatti era questa e perché di questa realtà nessun altro parlava. È stata ancora lei, però, a scrivere dell’ufficiale russo che – di nascosto, in casa propria – rieducava le kamikaze e le restituiva alla vita; lei ci ha fatto conoscere l’umanissimo colonnello Mironov e altri suoi colleghi degni della qualifica di esseri umani.

Del resto, non era colpa sua se gli emuli del colonnello Budanov erano in numero maggiore rispetto a quelli del suo omologo Mironov.

Il pezzo “la politica del nero”, che la Politkovskaja scrisse nel settembre 2004 dopo un incontro con il presidente georgiano Mikheil Saakashvili, si conclude con l’amara riflessione – “il gioco dei leader russi esige che il presidente filo-occidentale venga punito a suon di bombe”. Crede che la forza principale della Politkovskaja sia stata quella di denunciare ciò che avveniva in Russia e in Caucaso o quella di formulare delle analisi politiche rivelatesi ex post tragicamente vere?

“Io non faccio politica”: Anna Politkovskaja lo ripeteva di continuo. “Io vivo la vita e scrivo ciò che vedo”. E soprattutto – Goethe mi perdoni se manometto una sua affermazione – il buon giornalismo non è politico in quanto giornalismo politico, ma in quanto giornalismo. La sua lucidità di analisi, la sua urgenza di verità, di fatti non edulcorati doveva servire ai lettori a trarre le proprie conclusioni. Lei non indicava la soluzione, ma sempre e soltanto la strada.

Questo è il terzo libro della Politkovskaja che traduce per i tipi di Adelphi, il che significa ore ed ore trascorse in compagnia delle pagine di Anna. Che cosa ha provato mentre traduceva i suoi primi libri e cosa invece ha provato lavorando a “Per questo” visto che lei era già scomparsa?

Ho passato quasi cinque anni e milleduecento pagine con Anna Politkovskaja. Una convivenza spigolosa, ruvida, feroce, fatta di stupri, di cadaveri sbrindellati, di sevizie, di gas, di bambini prigionieri in una scuola, di madri sconvolte, e di profonda desolazione e sconforto per una realtà che si ostina a non voler cambiare. Le rughe che ho in mezzo agli occhi sono “le rughe di Anna”, dice mia figlia di 8 anni. Stavo lavorando a Diario russo quando ho ricevuto la telefonata che mi annunciava il suo assassinio e il mio più grande rimpianto è di non essere riuscita ad andare a Mantova, a vederla, a sfiorarla… Tuttavia, la sua morte non è servita ad aumentare il rispetto – già profondissimo – che nutrivo per lei: non ho avuto “bisogno” che morisse per comprendere l’importanza di ciò che faceva. La verità non dovrebbe avere bisogno di vite umane…

Lo scorso anno ha curato sempre per Adelphi Vita e Destino di Grossman, considerato oggi il romanzo più importante dell’era sovietica. In quel libro Grossman denuncia tutte le aberrazioni del sistema sovietico arrivando a paragonare il comunismo al nazismo. La figura della Politkovskaja, quale giornalista di denuncia, ha qualche punto di contatto con quella di Grossman? Possono entrambi – fatte le debite proporzioni – essere accomunati dall’idea orwelliana di “scrittura politica come arte”?

Direi, piuttosto, di scrittura che diventa politica suo malgrado. Per il coraggio di cui dà prova nello scrivere il rumore, i rumori della verità. Nel necrologio che scrisse su El Pais, André Glucksmann definiva čechoviana la lingua di Anna Politkovskaja. Non sono d’accordo. La sua era una lingua sporca, frettolosa, lo stile sincopato, convulso, a volte. Di čechoviano Anna Politkovskaja aveva la democrazia delle voci: nei suoi articoli erano ammessi tutti, dai capi di stato alla madre sconvolta dal dolore, dal generale al profugo, dai kamikaze ai bambini abbandonati, dal nuovo ricco al collega giornalista. E non è un caso che per parlare di libertà (e non solo di libertà di stampa), di democrazia, anche Grossman abbia evocato Čechov: rileggete il capitolo 66 del Primo libro di “Vita e Destino”…

 

 

Politkovskaja Anna

Per questo. Alle radici di una morte annunciata. Articoli 1999-2006

Autore: Politkovskaja Anna

Prezzo: € 25,00

Dati 2009, 489 pp., brossura

Traduttore: Zonghetti C.

Editore Adelphi (collana La collana dei casi)

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