Albania, Kosovo | | Migrazioni
Svizzera: la bontà immanente degli albanesi
In Svizzera gli albanesi rappresentano una minoranza rilevante. Ed aspirano ad essere una "minoranza modello". Ma questo concetto, se assunto come categoria, è un mito ed ha come contraltare la stratificazione sociale e l’ineguaglianza
(Pubblicato originariamente dal portale Fabrikzeitung.ch il 1 ottobre 2015, titolo orig. "The Imminent Good Albanians")
In una calda giornata estiva, il pittoresco paesino di Grindelwald splendeva al sole nella sua piena gloria alpina. Sfrecciavano i ciclisti e i parapendii attraversavano il cielo, scendendo lentamente dalle alte cime che contornavano la valle. Mio zio Ilir e suo figlio Milot avevano deciso di mostrarmi le magnifiche Alpi. Mio zio, che ha trascorso un bel po’ di tempo in quella zona, facendo lavori vari, conosceva bene la regione di Berna.
Immigrato di prima generazione, è arrivato in Svizzera nel 1989. Come migliaia di giovani jugoslavi, che si erano spostati verso l’Europa negli anni ’80, è arrivato in cerca di un buon lavoro e una vita migliore, compensando in questo modo la necessità di manodopera dell’economia svizzera.
Al Kosovo, con la salita al potere di Milošević, venne revocata l’autonomia e decine di migliaia di kosovaro-albanesi vennero licenziati. Furono molti gli uomini kosovari, alcuni dei quali seguiti da moglie e figli, a decidere di andarsene e si diressero dove c’era bisogno di loro. Anche se non è detto fossero per questo i benvenuti.
Oggi circa 200.000 albanesi vivono in Svizzera. La maggior parte di loro sono originari del Kosovo, anche se anche altre zone della Jugoslavia e l’Albania stessa contribuiscono a quella che è la quinta comunità di immigrati residente in Svizzera. Si portano addosso l’immagine di persone legate ai delitti d’onore, di persone che trattano male le donne o, semplicemente, di persone arretrate. Secondo un rapporto realizzato nel 2015 dal Dipartimento federale per gli affari interni sul tema del razzismo gli albanesi sono al terzo posto come percezione di minaccia allo stile di vita svizzero (prima di loro solo i nordafricani e i “neri” in generale). Secondo lo stesso rapporto solo il 25% degli intervistati ha dichiarato che non avrebbe problemi a lavorare assieme a loro.
Certo, affermare che la Svizzera ha dei problemi rispetto alle comunità di immigrati non è nulla di nuovo. L’utilizzo di toni xenofobi nel discorso pubblico, la mancanza di leggi anti-discriminazione e la stereotipizzazione razzista sono temi che spesso emergono, come ha sottolineato, nel 2014, la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza. Le persone di colore sono quelle che più soffrono di queste discriminazioni, ma anche i musulmani, un gruppo che include la maggioranza degli albanesi-kosovari residenti in Svizzera, hanno opportunità limitate e subiscono aggressioni.
Negli anni ’90, mentre crescevo in un Kosovo segregato, era comune avere uno zio o zia all’estero. Si stima che siano 800.000 i kosovaro-albanesi che risiedono all’estero, circa un terzo della popolazione totale del Kosovo e quindi questo non è certo una sorpresa. Non avevo alcuna idea di cosa mio zio facesse o di com’era la sua vita in Svizzera. Ma diversamente dagli albanesi di cui leggono gli svizzeri sui titoli dei settimanali scandalistici, lo zio Ilir non ha mai pugnalato nessuno e non è mai stato parte di un cartello della droga. Gran parte della vita l’ha trascorsa a fare lavori vari, per guadagnare soldi da mandare indietro nella sua città, Peja, Kosovo occidentale, dove il 90% delle case vennero bruciate durante la guerra del 1999. Oggi ha un lavoro in un ufficio di una fabbrica, dopo aver lavorato per anni alla catena di montaggio.
Molti dei kosovari che vivono in Svizzera ed in altre parti del mondo sognano di un magnifico ritorno a casa. Spendono, tutti assieme, milioni di euro per costruire grandi case nei loro villaggi e città di origine; inviano regolarmente soldi a chi è rimasto in Kosovo, tornano indietro ogni estate, tenendo così vivo il settore dei servizi locali. Anche Ilir sognava di ritornare. Si è sposato con una kosovara e l’ha poi portata in Svizzera; ma quando hanno avuto figli il loro piano è cambiato. Ora, sia lui che la moglie lavorano duramente per far sì che i loro tre figli possano studiare ed avere quelle opportunità che loro non hanno mai avuto: frequentare un’università svizzera e fare qualcosa di buono per loro stessi.
Con parenti che pian piano muoiono e gemelli che crescono separati, visitano sempre meno il Kosovo. Piuttosto di trascorrere le loro vacanze estive nel caldo soffocante della piana kosovara la sua famiglia ha cambiato strada e va a fare il bagno lungo la costiera amalfitana. Non l’avrebbe mai immaginato, ripete spesso.
La loro storia è come quella di molti altri e non trova mai spazio sui quotidiani o nelle tv in Svizzera. Al contrario, gli albanesi vengono ritenuti una marmaglia violenta. Ciononostante esistono timidi tentativi di mutare su questo il sentire comune come ad esempio il documentario del 2011 «Die guten Albaner» (“Il buon albanese”, dnr) o un articolo pubblicato in aprile dal Tages Anzeiger e titolato «Was, du bist Albanerin?», (“Cosa? Sei albanese?”, ndr): tentano di dipingere un’immagine diversa degli albanesi (preferibilmente con un perfetto Schweizerdeutsch).
Gli stessi albanesi sono molto preoccupati dell’immagine che si ha di loro in Svizzera. Siti web che si rivolgono alla diaspora albanese in Svizzera, come ad esempio Albinfo.ch o Dialogplus.ch, riportano costantemente notizie sulla comunità albanese, in particolare legate alla loro madrepatria adottiva. E questi siti, come ad esempio anche KosovoDiaspora.org, danno spazio con grande evidenza a persone di successo per mostrare come tra gli albanesi non vi sono solo mele marce.
Spesso il percorso di integrazione che sono costretti a fare i migranti albanesi viene paragonato a quello a cui sono stati costretti gli immigrati italiani che a metà del ‘900 rappresentavano la maggioranza degli immigrati in Svizzera. Gli italiani spesso riportano di appartenere alla prima ondata di migranti ai quali venne impedito di portare con sé le proprie famiglie. Poi questo è cambiato. La narrativa è più o meno questa: “Vedete, anche gli italiani in passato non erano i benvenuti ma poi sono riusciti a ritagliarsi dello spazio. Vi ricordate quando tutti odiavano gli italiani?”. Ed oggi, è noto, gli italiani sono amati: “Mangiamo la pizza e quale svizzero non vuole condividere un po’ di dolce vita?”.
Mentre gli anni passano e nasce una nuova generazione di immigrati ci si appiglia alla speranza che gli albanesi diverranno una comunità amata e rispettata per i suoi valori familiari e per la propria etica del lavoro. Questo potrebbe essere ancor più vero per le terze generazioni, la cui naturalizzazione potrebbe divenire più semplice se il parlamento svizzero approverà un emendamento alla legge vigente che li faciliti in questa direzione, possibilità in discussione attualmente.
Comunque, utilizzare gli italiani come termine di paragone di una potenziale integrazione di successo degli albanesi (e di altri gruppi di immigrati) è problematico. Se idealizzati in questo modo gli italiani divengono la “minoranza ideale” della Svizzera, terminologia introdotta dal sociologo William Petersen nel 1966 per descrivere gruppi di minoranza che hanno avuto successo dal punto di vista socioeconomico. Al tempo Petersen coniò il termine per descrivere gli asiatico-americani negli Stati Uniti, che avevano vissuto una forte mobilità sociale verso l’alto, molto più ampia delle altre minoranze negli Usa.
Ma la “minoranza modello” se assunta come categoria è un mito, che crea aspettative e legami al successo di un certo gruppo attribuendo a quest’ultimo caratteristiche innate – siano esse biologiche o culturali – e però, come contraltare, crea stratificazione sociale e ineguaglianza.
Il continuo uso degli italiani quali esempio di integrazione di successo è inoltre problematica perché non considera il contesto storico e culturale nel quale gli italiani sono divenuti parte integrante della Svizzera. Ora è facile affermare che gli italiani sono ben integrati perché godono del diritto di vivere e lavorare in Svizzera come lo godono nei paesi dell’Ue. Ed è quantomai facile non considerare che gli italiani sono in maggioranza cristiani e bianchi, come la maggior parte della popolazione svizzera. Puntualizzare questo non vuole disconoscere le durezze incontrate dagli immigrati italiani ma vuole mostrare come l’integrazione di alcuni gruppi cammina di pari passo all’esclusione di altri, percepiti come maggiormente alieni.
L’idea generale è che gli albanesi debbano seguire l’esempio italiano. Gli immigrati di seconda generazione, come i miei cugini il cui sogno è di diventare dentisti e veterinari, riusciranno più facilmente ad “integrarsi” dato che si sono abituati ai “valori” svizzeri. La seconda generazione, c’è da crederci, è fatta di cittadini formati, rispettosi delle leggi, contribuenti del fisco. E’ questa l’immagine offerta dall’articolo summenzionato del Tages Anzeiger, un’intervista a tre studenti dell’Università di Zurigo di origine albanese. Permeato senza dubbio di molte buone intenzioni per superare ogni sorta di stereotipo sugli albanesi, il giornalista pone una serie di domande “naive”: E’ vero che gli albanesi sono o calciatori, o buttafuori o praticano le arti marziali? Esiste un “macho” balcanico? E per quanto riguarda l’eguaglianza di genere, come vanno le cose tra gli albanesi?
Nel porre queste domande così vincolanti il giornalista non rende giustizia né agli intervistati e neppure ai lettori. Gli intervistati non hanno infatti la possibilità di parlare di loro stessi ma sono obbligati ad attenersi a queste generalizzazioni; e i lettori del Tages Anzeiger vengono trattati da perfetti ignoranti a cui serve dire, in modo didascalico, che gli stereotipi sono categorie semplificate che non sopravvivono al test della realtà.
La giornalista poi chiede candidamente cosa accadrebbe se uno studente imprecasse nel cortile di una scuola di Pristina, come se l’espressione “Figg dini Mueter”, da lei usata ad esempio, fosse un’invenzione albanese. Inoltre la domanda è posta a tre studenti nati e cresciuti in Svizzera che si pretende debbano sapere cosa gli albanesi fanno in generale e come se, tra l’altro, non fosse del tutto inutile provare a dire in modo preciso cosa fanno gli adolescenti. Questo falso invito, questa domanda retorica, questa richiesta di fornire una testimonianza su qualcosa che di fatto non possono commentare essendo informatori “non informati” può solo risultare in una generalizzazione, o peggio, in una considerazione razzista.
Il problema di quest’intervista è che considera l’identità essenziale e non tenta di illuminare sulla complessità degli esseri viventi e della comunità, ma riafferma nuovi stereotipi, che si suppone essere positivi: gli albanesi, una minoranza modello. Una minoranza che si presume sia acculturata, ben educata, di successo. Sono cittadini modello dello stato neo-liberale: fanno soldi, sono autosostenibili e, cosa più importante, sono intraprendenti e non fannulloni. Un campione di thai-boxe è sposato con una bellissima – ma anche intelligente – consulente finanziaria; un banchiere che vive con i suoi genitori e la sua moglie kosovara vuole “trovare la sua strada”; una giovane politica dei social-democratici vince la presidenza del suo distretto ed è andata a vivere da sola; un dottore, praticante musulmano, riesce a trovare una sua modalità per sintetizzare l’identità svizzera e quella albanese: questi sono gli albanesi buoni.
Ma cosa è il buono? Prendendo una pagina dal discorso sulla felicità di Sara Ahmed, in questo caso la faccia della felicità “sembra piuttosto la faccia del privilegio” (2010). I buoni albanesi, come i buoni italiani o i buoni asiatico-americani rappresentano una classe di persone privilegiate, rispetto sia agli altri immigrati ma anche ai locali. Diversamente da mio zio, che è un operaio, tutti gli esempi di buoni albanesi sono la prova di una Svizzera che consente la mobilità sociale, nonostante tutte le critiche su xenofobia e razzismo, un paese che è inclusivo rispetto a tutte le persone che vi vivono.
Ciononostante, secondo un rapporto pubblicato dall’Ufficio federale per la migrazione la maggior parte degli immigrati originari dell’ex Jugoslavia sono lavoratori manuali, in campo artigianale o nell’agricoltura. Sembrerebbe quindi che i principali protagonisti dei «Die guten Albaner» non siano la regola ma piuttosto l’eccezione.
“Essere buoni” implica essere benestanti ed avere una buona formazione. La bontà è la materializzazione dei valori della classe media. E tutto questo si nota negli sguardi dati alle case “degli albanesi buoni”, alle loro cene o pranzi di famiglia, che rivelano gusto e di conseguenza classe.
Dopo aver mostrato la sua casa svizzera, Azem Maksutaj, il campione di Thai box, accompagna la troupe televisiva nel suo villaggio natale, Pozhar, in Kosovo. Anche lì il pubblico può ammirare la grande magione che Maksutaj ha costruito per i suoi genitori.
In modo simile, Sysret Kastrati, banchiere di origine albanese nato in Svizzera, mostra i suoi vestiti alla moda, disposti in modo ordinato, prima ancora di mostrare il resto della casa, in sottofondo la voce del narratore che spiega che si è formato a Zurigo e Londra. Kastrati possiede anche una motocicletta costosa, con la quale attraversa il panorama svizzero assieme ai suoi amici albanesi.
E’ dopo le immagini di un nutrito gruppo di biker albanesi immigrati in Svizzera, le Aquile (Shqiponjat), che si fermano per mangiarsi uno snack alla balcanica (qebapa) e a fare due chiacchiere, che al pubblico viene proposta una conversazione nella quale si spiega cosa significa essere integrati in Svizzera. Un biker dice che ciascuno dovrebbe preservare la propria cultura e valori, affermando che a suo avviso integrazione in Svizzera significa “a ciascuno il suo”. Un altro biker, vestito in rosso e nero, colori della bandiera albanese, dice di non sentirsi affatto albanese. Un altro ancora ribatte rapidamente: "Sei albanese e rimarrai sempre tale”. E non serva che aggiunga “che ti piaccia o no”.
Per fortuna queste persone che ogni tanto si incontrano per sentire il vento tra i capelli mentre accelerano lungo le strade delle Alpi svizzere possono scegliere se sentirsi albanesi oppure reclamare i loro diritti in Svizzera. Lo stesso non si può dire per quelli che appartengono a gruppi sociali più precari, come ad esempio il disabile kosovaro a cui, come riportato dalla BBC, è stata negata la cittadinanza perché la comunità locale del suo cantone lo considerava un peso per i contribuenti. Il fatto che fosse musulmano non ha aiutato. L’Islam è probabilmente il problema principale che gli albanesi devono infatti affrontare prima di divenire una “minoranza modello”.
Dopo un referendum nel 2009, la Svizzera ha vietato la possibilità di costruire minareti. A spingere in questa direzione è stato il Partito del popolo (SVP) che ha fatto la voce grossa per spingere ad agire contro l’”islamizzazione” della Svizzera. Nel 2007 l’SVP è stato il partito più votato in Svizzera, anche se da allora ha progressivamente perso consensi. Ciononostante ne ha ancora e questo mostra il sentimento generale che vi è, in Svizzera, nei confronti dei musulmani ed in generale degli immigrati.
E proprio dato questo atteggiamento anti-immigrati, sono pochi gli albanesi che hanno deciso di darsi alla politica e lottare per i loro diritti nelle assemblee locali oppure in altre istituzioni statali. Attualmente Arbër Bullakaj, immigrato d’origine albanese di seconda generazione, è in lizza per un posto del parlamento nazionale. Se verrà eletto sarà il primo parlamentare d’origine albanese della storia della Svizzera.
Altri politici, di livello locale, come Ylfete Fanaj, consigliera nell’assemblea di Lucerna, hanno già fatto parte di istituzioni locali (l’elezione di Fanaj nell’assemblea cantonale è stata anch’essa descritta nell’articolo «Die guten Albaner»). Come i colleghi Bullakaj e Fanaj, anche Blerim Bunjaku, dell’SP, è profondamente coinvolto sul tema dell’integrazione degli immigrati: ha sviluppato una app che permette agli immigrati di prepararsi per superare il test per la cittadinanza. Bunjaku in passato ha concorso per il consiglio locale del Winterthur, ma non ha vinto. Si è candidato per il partito di matrice cristiana EVP, anche se, come la maggior parte degli albanesi, è un musulmano praticante.
Il fatto che un musulmano si candidasse tra le fila dell’EVP ha fatto sollevare più di un sopracciglio in Svizzera, ma tutto è niente se comparato a quanto avvenuto nel caso di Faton Durmishi. Quest’ultimo è uno svizzero di origine albanese che abita a Lugano e si è candidato per un posto del consiglio locale tra le fila dell’SVP. Potrebbe sembrare un paradosso per un immigrato candidarsi per un partito anti-immigrati. Nel 2001 l’SVP aveva realizzato un cartellone elettorale con la scritta «Kosovo-Albaner NEIN» (No ai kosovaro-albanesi, ndr). Ciononostante Durmishi, in un’intervista per Albinfo.ch, spiega che è stata “l’invasione italiana” a convincerlo a entrare in politica e nello specifico tra le fila di un partito ultraconservatore. A suo avviso i “frontalieri”, lavoratori che risiedono in Italia e lavorano in Svizzera, mettono a rischio il paese.
Come molti altri conservatori Durmishi ritiene che siano gli stranieri a rubare i lavori agli svizzeri. Come una persona arrivata in Svizzera a sei anni, assieme ai suoi genitori, possa affermare tutto questo rimane un mistero. Ma sarebbe sbagliato non prendere Durmishi seriamente. Non nega la sua identità di immigrato, all’opposto trova le radici del suo essere conservatore nell’identità tradizionale albanese. Durmishi vede molte somiglianze tra la cultura svizzera e quella albanese, tra queste il patriottismo e i valori della famiglia. E chi può dargli torto? Forse Durmishi e il più integrato di tutti. E’ riuscito in un certo modo a sintetizzare il suo sguardo conservatore sul mondo e trovare una vittima sacrificale per risolvere i problemi albano/svizzeri: altri stranieri.
La situazione degli albanesi in Svizzera è chiaramente molto complessa. La prima generazione ha lavorato duro e risparmiato, le nuove generazioni di immigrati stanno chiedendo i propri diritti alla patria adottiva. Questo significa che sempre più albanesi vorranno partecipare alla vita pubblica e politica del paese e questo è sia un’opportunità che un pericolo. E’ un’opportunità per gli albanesi per spingere a favore dei diritti degli immigrati e mutare un panorama politico di un paese troppo a lungo legato a politiche conservatrici. Ma potrebbe rappresentare anche un pericolo perché i “buoni albanesi” potrebbero identificarsi esclusivamente col mito della minoranza modello rinforzando e riproducendo un sistema ingiusto nei confronti della maggior parte degli immigrati che continueranno a soffrire di svantaggi strutturali.
Presso una fontana sotto il picco dello Jungfrau abbiamo aspettato in fila per riempire le nostre bottiglie. Vicino a noi una coppia si riposava su di una panchina. Lei era coperta da un burqa. Ho notato un fremito sulle labbra di mio zio, mentre il suo figlio più giovane sembrava del tutto indifferente alla scena. Io ero quella più a disagio nel vedere una donna completamente velata, nonostante il caldo estivo, anche se è una visione abbastanza frequente nelle località turistiche svizzere. Mentre prendevo in considerazione i miei pensieri pieni di pregiudizi (“Questa donna è oppressa?”) mio zio fissava in modo malinconico le montagne. “Gli albanesi non sarebbero mai in grado di preservare una bellezza come questa”, dice.
Lura Limani è una ricercatrice e scrittrice e vive a Pristina. E’ redattrice del magazine indipendente Lirindja e sta conducendo un progetto di ricerca sulla storia orale. Scrive anche per Birn Kosovo.