Sud est Europa: quali le politiche agricole?
Il percorso storico delle politiche per lo sviluppo agricolo e rurale nel sud est Europa: dal processo di collettivizzazione degli anni ’40 alla capacità produttiva erosa dai conflitti degli anni ’90, sino ai nuovi modelli agricoli che guardano all’Unione europea
Dopo anni di marginalizzazione dall’agenda politica, anche nell’Europa sud-orientale si assiste ad un graduale ripensamento del ruolo di agricoltura e aree rurali. Nonostante gli obiettivi principali convergano ancora verso la modernizzazione del settore ed il rafforzamento di alcune filiere, iniziano ad emergere aperture verso tematiche ambientali, sostenibilità e misure di chiara ispirazione comunitaria.
Tra le priorità vecchie e nuove, e la rielaborazione degli obiettivi dei sistemi produttivi, emerge anche la necessità di un maggiore coinvolgimento e coordinamento di tutti gli attori del settore, per includere produttori ed operatori rurali all’interno dei processi decisionali.
Transizioni complesse
I Balcani sono stati caratterizzati da un processo di transizione estremamente complesso che per alcuni paesi non è ancora arrivato a conclusione. Il passaggio dall’economia di piano all’economia di mercato in molti casi è stato temporaneamente congelato da guerre civili e conflitti sociali. Anche nel parallelo con i paesi dell’Europa centro-orientale (PECO) i Balcani presentano differenze significative.
Secondo l’OCSE (2001) la transizione nei PECO può essere ricondotta a tre momenti: la liberalizzazione di prezzi e mercati attraverso l’abbattimento del sistema dei prezzi controllati, degli obiettivi di produzione determinati dai governi centrali e del monopolio sul commercio (inizio anni ’90); la reintroduzione di strumenti per la governance del settore agricolo, attraverso l’implementazione di nuove politiche per il supporto di prezzi e mercati (metà anni ’90); l’avvicinamento graduale al quadro politico-amministrativo comunitario (tardi anni ’90).
Queste fasi, che seguono un’evoluzione temporale e tecnica piuttosto lineare, nei Balcani sono state frammentate, finendo per seguire percorsi evolutivi spesso contraddittori. E anche il punto di partenza, se comparato ad alcuni paesi dell’area centro europea, non è poi così vicino. Il socialismo jugoslavo prevedeva infatti maggiori spazi per l’iniziativa privata rispetto ad altri paesi dell’ex blocco socialista. Ad esempio osservando i dati sulla proprietà fondiaria emerge come la fase più estrema del processo di collettivizzazione, lanciata a fine anni ’40 attraverso il “reclutamento” di oltre 2 milioni di contadini, sia in realtà stata abbandonata già nel 1952 e negli anni ottanta oltre l’80% della terra fosse nelle mani di circa 2.9 milioni di piccoli proprietari (S. Bianchini, 1988).
Il settore pubblico, che includeva cooperative e aziende gestite direttamente dallo Stato, era composto da grandi complessi agroindustriali (agrokombinat) dove la produzione era affiancata dalla trasformazione. Cooperative ed aziende di stato erano concentrate nelle zone più produttive del Paese, come Vojvodina e Croazia orientale, ed assorbivano la quasi totalità di investimenti ed aiuti al settore. Va da sé che le aree marginali uscissero penalizzate da una politica di questo tipo.
Ma le differenze non vanno viste soltanto in chiave storica. Tornando agli anni ’90 i conflitti hanno portato all’erosione della capacità produttiva, aggravando la situazione e costringendo ad una rincorsa che ha richiesto anni per il recupero degli standard precedenti all’inizio della transizione in termini di produzioni e rese. Ed in ultimo, un ulteriore elemento che ha caratterizzato la transizione balcanica è stata la forte presenza di organizzazioni non governative, che, insieme alle organizzazioni internazionali presenti sul territorio, hanno portato, con risultati alterni, aperture verso nuovi modelli nella gestione dei sistemi agricoli e rurali. Elemento che non era presente, almeno in maniera così significativa, nel caso dei paesi dell’Europa centro-orientale.
Protezionismo e mercato regionale
Nel periodo 2000-2010 il livello di protezionismo è stato gradualmente ridotto in tutti i paesi, soprattutto grazie all’implementazione del CEFTA 2006 – Central European Free Trade Agreement (Accordo centroeuropeo di libero scambio)1, che, firmato nel dicembre 2006 in sostituzione di 32 accordi bilaterali, vede la partecipazione di tutti i Balcani Occidentali più la Moldavia, comprendendo quindi un mercato di quasi 27 milioni di consumatori.
Il CEFTA ha garantito un passo avanti nel contenimento delle barriere tariffarie e maggiore trasparenza, contribuendo quindi alla crescita complessiva degli scambi a livello regionale e rappresentando un passo importante verso la piena integrazione con i mercati internazionali. Infatti, sebbene non sia direttamente collegato al WTO, l’Accordo centroeuropeo di libero scambio prevede il pieno rispetto dei principi previsti dall’Organizzazione mondiale del commercio di cui al giugno 2011 fanno parte soltanto Albania, Croazia e Macedonia. Per Bosnia, Montenegro, Kosovo e Serbia sono in corso i negoziati, con l’ingresso della Serbia previsto entro fine 2011.
Tra le misure per la protezione ed il sostegno dei mercati tutti i paesi, tranne il Kosovo, utilizzano barriere tariffarie, mentre altre misure sono utilizzate in modo più sporadico e soltanto in singoli casi: la Croazia utilizza interventi di mercato (ad esempio la definizione di quote per determinati prodotti), la Serbia i sussidi all’esportazione (vietati dal WTO salvo nel caso di alcuni prodotti per cui e’ riconosciuto un regime speciale) e la Bosnia i prezzi amministrati (T. Volk, 2010).
Sostegno al settore agricolo
Pur rimanendo lontano dai livelli di sostegno garantiti agli agricoltori dell’Unione europea il budget agricolo di quasi tutti i Paesi presi in considerazione sta (lentamente) crescendo. Tuttavia permangono diversità consistenti tra paese e paese, infatti ad una Croazia che fa registrare pagamenti per ettaro superiori a quelli di numerosi stati membri dell’UE (T. Volk, 2010) fa da contraltare un Kosovo dove le risorse sono ancora poche e complessivamente i progetti finanziati da organizzazioni internazionali ed Ong superano l’aiuto del governo locale (ministero di Agricoltura, Attività Forestali e Sviluppo Rurale, Piano per lo Sviluppo Agricolo e Rurale 2009 – 2013).
Questo processo di consolidamento dell’aiuto pubblico all’agricoltura rischia inoltre di subire un rallentamento a causa della crisi finanziaria internazionale che tra gli ultimi mesi del 2010 e la prima metà del 2011 sta assumendo proporzioni piuttosto significative in molti paesi della regione. Non è un caso che la primavera 2011 sia stata segnata da tensioni tra organizzazioni professionali e governi, come nel caso delle proteste degli agricoltori serbi, che si sono visti ridurre in modo consistente sussidi che nel 2010 avevano toccato 144 euro per ettaro fino ad un massimo di 100 ettari eleggibili.
La riduzione proposta dal governo non investirebbe tanto l’ammontare per ettaro, rimasto a 14.000 dinari (poco meno di 140 euro), quanto la superficie eleggibile, che dovrebbe scendere da 100 a 10 ettari. Un taglio estremamente radicale che, al di la del risultato della negoziazione, è rappresentativo di uno dei problemi principali della politica agricola dei paesi della regione: la mancanza di stabilità e consistenza. Le variazioni su base annuale sono talmente significative, e frequenti, da rendere difficili le scelte degli agricoltori a causa della mancanza di certezza rispetto a quelle che sono le priorità individuate dai governi ed agli strumenti che gli stessi mettono a disposizione degli agricoltori.
A livello di misure, all’interno del budget destinato ad agricoltura e sviluppo rurale, la tipologia più utilizzata è sicuramente quella di pagamenti diretti che prevedono al loro interno diverse opzioni: dai pagamenti per input (Serbia), ai pagamenti per output (Bosnia), a quelli basati su superficie e numero di capi (Croazia e Macedonia). Il divario tra queste misure e quelle destinate al sostegno per lo sviluppo rurale ed alle azioni strutturali, seppur in diminuzione, è ancora molto consistente.
Sviluppo rurale e territorialità
Nonostante la politica di sviluppo rurale sia ancora largamente secondaria rispetto alla politica agricola gli equilibri stanno cambiando ed anche nell’Europa sud-orientale e le risorse hanno lentamente iniziato ad essere trasferite dal settore primario allo sviluppo territoriale e quindi ad allinearsi al modello individuato da Ue e paesi OCSE che prevede un passaggio dalle politiche settoriali (agricoltura) a politiche territoriali (sviluppo rurale in senso ampio).
In questo processo il settore agricolo diventa una delle attività, spesso ancora la più importante in termini di occupazione e peso economico, ma non più l’unica caratterizzazione di un’area, e soprattutto non il solo elemento su cui basare le scelte strategiche per lo sviluppo locale.
Concetti come approccio integrato e multifunzionalità sono già stati largamente recepiti da strategie e piani di sviluppo, ma faticano ancora a trovare un’applicazione pratica e quindi le iniziative che prevedano la produzione di servizi in azienda, dall’energia, ai servizi ambientali, al turismo, sono ancora piuttosto limitate.
Ma lo sviluppo rurale è una politica complessa che richiede istituzioni locali capaci di gestire ed attirare fondi, coinvolgere attori privati, identificare problemi ed elaborare strategie, proporre una visione di medio-lungo termine. Alla presenza di istituzioni locali efficienti si affianca poi la necessità di un coordinamento tra le diverse politiche che intervengono nella gestione del territorio.
Governance di settore e società civile
In realtà una delle maggiori difficoltà che stanno incontrando i paesi dell’area in questione è legata proprio al passaggio da forme di governo centralistiche ed estremamente verticistiche, a processi di governance basati sul coinvolgimento delle comunità locali e dei diversi attori presenti sul territorio e nelle filiere produttive. In sostanza decentralizzazione e creazione di un dialogo non solo tra pubblico e privato, ma anche interistituzionale, sono infatti sempre di più i temi che richiedono la creazione di task force specifiche e la collaborazione tra diversi ministeri. Si pensi alle questione ambientali o a quelle energetiche. Un riferimento importante ovviamente è la politica di sviluppo rurale dell’UE dove i gruppi di azione locale possono essere visti anche come punto di ascolto del territorio e collante tra società civile ed istituzioni.
Inoltre, accanto ad istituzioni pubbliche che spesso faticano ad ascoltare e tradurre in azione di governo le indicazioni provenienti dalla società civile, vi sono associazioni, organizzazioni professionali, cooperative ed Ong poco efficaci, frammentate e quindi spesso prive di una voce significativa nel dialogo politico.
Se è vero, con poche eccezioni, che nei Balcani manca una tradizione consolidata nel terzo settore, a partire dall’inizio della transizione, anche e soprattutto grazie agli aiuti internazionali si è creata una crescita esponenziale di associazioni piccole, frammentate e spesso in competizione tra loro (Karajkov, 2008). Questo anche come parziale conseguenza delle difficoltà di coordinamento che spesso hanno caratterizzato i donatori.
La dipendenza dagli aiuti internazionali ha poi avuto un impatto importante sulle aree rurali perché ha portato queste associazioni a concentrare le loro sedi nelle città principali dove era più facile consolidare e mantenere i rapporti con i finanziatori. Nonostante molti limiti la società civile comunque esiste e su molti temi è estremamente attiva, si tratta in molti casi di coordinare le diverse iniziative e mettere in comune risorse e competenze per poter avere maggiore efficacia nel fornire una vero contributo nella pianificazione delle strategie di sviluppo locale.
Bibliografia minima
S. Bianchini, Tito, Stalin e i contadini, Unicopli, Milano, 1988.Commissione Europea, Progress Reports 2009, Vari paesi, Bruxelles, Ottobre 2009.
T. Volk (ed), Agriculture in the Western Balkan Countries, Studies on the Agricultural and Food Sector in Central and Eastern Europe, edited by Leibniz Institute of Agricultural Development in Central and Eastern Europe, 2010.
R. Karajkov, N.G.O.’s in the Balkans: Too Much of a Good Thing?, OneWorld South East Europe, 2007.
1 Il CEFTA 2006 ha preso il posto del CEFTA di cui erano membri Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Romania e Bulgaria che hanno lasciato l’accordo al momento dell’adesione all’UE.