Serbia, il Comitato di crisi in crisi

La situazione epidemiologica in Serbia ha raggiunto livelli drammatici. Ciononostante il governo cerca di limitare la chiusura delle principali attività del paese. Il comitato che dovrebbe definire le misure sanitarie e restrittive da intraprendere si trova schiacciato tra tutela della salute pubblica e esigenze economiche

14/12/2020, Nicola Dotto - Belgrado

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Belgrado (© BalkansCat/Shutterstock)

Le fredde cifre (quelle ufficiali) sul COVID-19 che circolano in Serbia negli ultimi giorni parlano di circa 8.000 nuovi contagiati al giorno, il 35% del totale dei testati, di quasi 300 persone intubate e tra i 60-70 morti al giorno; ciò significa che la situazione sanitaria è drammaticamente più seria che a primavera, gli ospedali sono al limite del collasso (anche se ce ne sono nuovi di zecca) e le code per eseguire i test lunghissime; dall’altra parte sono sempre di più le persone malate che non ricevono assistenza, vuoi per la mancanza di posti letto, vuoi per l’assenza di personale medico contagiato a sua volta e costretto all’isolamento, o in numero inadeguato a far fronte all’emergenza.

Secondo gli esperti il picco dell’epidemia si avvicina e coinciderà con le feste di fine anno e i due Natali ravvicinati, quello cattolico e quello ortodosso, che preoccupano non poco perché solitamente danno il là a un grande esodo di persone che vanno e vengono da tutta Europa per passare le feste in famiglia. Dal governo intanto arrivano rassicurazioni, soprattutto economiche, all’imprenditoria serba e ai lavoratori attraverso aiuti statali e aumenti salariali soprattutto al settore sanitario. Il Presidente Aleksandar Vučić si reca di persona (anche di notte) a visitare i lavori nei cantieri dei nuovi ospedali COVID e inaugura addirittura il più grande centro commerciale dell’intera regione, tentando disperatamente di non abbassare le serrande delle principali attività del paese.

Le misure restrittive paiono però al momento troppo blande e non sono paragonabili a quelle di altri paesi d’Europa o della regione; i cittadini stanchi e impauriti si chiedono allora cosa ci stia a fare e perché non si muova l’unico organo autorevole che, seguendo la curva dell’epidemia, dovrebbe attuare delle misure sanitarie a difesa e protezione dell’intera popolazione: l’Unità di crisi COVID-19 (Krizni štab”). Un team, unico nel suo genere nei Balcani, di specialisti ed epidemiologi (ma non solo) che suo malgrado ultimamente si trova strattonato tra la coscienza deontologica di agire per il bene comune in tutela della salute pubblica e le esigenze economiche che invece gli chiedono di girarsi dall’altra parte.

Il “Krizni štab”

L’Unità di Crisi COVID-19 (Krizni štab”) per reprimere e prevenire la diffusione della malattia infettiva COVID-19 è un organo speciale creato per volontà del governo serbo ancora il 13 marzo . Tra i membri, 31 in tutto, si trovano alcuni eminenti direttori di istituti sanitari e cliniche prestigiose, specialisti infettivologi, pneumologi ed epidemiologi; non manca però la componente politico-economica di cui fa parte la premier serba, Ana Brnabić, il ministro della Salute, Zlatibor Lončar, il ministro delle Finanze Siniša Mali e il presidente Aleksandar Vučić, più altri “esperti” non meglio precisati, funzionari e addirittura due sindaci.

Le sue sedute si sono susseguite a ritmo frenetico in primavera quando il virus galoppava, meno all’inizio dell’estate quando la situazione sembrava essersi calmata e il team come sparito dai radar, e sono riprese ora per far fronte alla terza ondata. In primavera, i cittadini aspettavano con ansia la diretta delle 15 sul canale nazionale “RTS1” quando questi specialisti informavano l’opinione pubblica sull’andamento dell’epidemia e provavano a rassicurare sul fatto che, sebbene lentamente, la curva dei contagi si sarebbe abbassata. Certo, alcune volte le cifre e le susseguenti misure annunciate dalla premier o dal presidente in persona spaventavano, ma esisteva una sorta di fiducia nel lavoro del Krizni štab”, e si credeva che qualcuno tenesse davvero alla salute della popolazione e lavorasse senza sosta per far uscire il paese dal tunnel della paura di un nemico invisibile. O così forse sembrava ai più, almeno fino alle elezioni del “libera tutti” di giugno, ai numeri “truccati” e alla reazione in colpevole ritardo nella nuova ondata estiva.

A dire la verità la prima crepa si era verificata quasi subito, già ad aprile, quando il membro più autorevole, ortodosso e affidabile degli specialisti, il dr. Predrag Kon, travolto dalle critiche sul suo operato, aveva rassegnato le dimissioni dal suo incarico che però erano state prontamente rifiutate da Vučić il quale lo aveva richiamato alla lotta. Un altro brutto colpo al prestigio del “Krizni štab” era arrivato a luglio quando 350 medici e specialisti, raggiunti poi da altre migliaia di firme, avevano dato il via all’iniziativa “Ujedinjeni protiv Kovida” (Uniti contro il Covid) chiedendo lo scioglimento del comitato, incapace secondo loro di far fronte adeguatamente all’emergenza sanitaria.

“Un passo avanti, tre passi indietro”

Ora l’idillio con la popolazione pare ai minimi storici e aleggia una quasi completa sfiducia verso questo organo, rappresentato comunque da emeriti professionisti. Criticato da più parti per l’adozione di misure troppo graduali e blande e accusato di essere diviso internamente e di avere idee discordanti sulla strategia da adottare o di lavorare solo per medaglie e onorificenze, ultimamente il “Krizni štab” ha perso autorità e prestigio davanti agli occhi dei cittadini ed è accusato di piegarsi, volente o nolente, a esigenze puramente economiche imposte dall’alto invece di perseguire il suo obiettivo: salvaguardare la salute della popolazione.

A conferma pare la frase in questo senso di poche settimane fa del preesidente Vučić , il quale dopo una riunione con il suo staff per fare il punto sull’economia aveva dichiarato che “per un’ulteriore crescita del PIL è necessario non chiudere le attività; per questo chiedo agli specialisti che lavorano nell’Unità di Crisi di non far chiudere le strutture di ristorazione, se possibile. Questo per le persone che ci lavorano, non per lo stato”, salvo poi ribadire che “ogni decisione comunque spetta a loro in quanto la salute delle persone è la cosa più importante, in fondo”.

Quanto siano ininfluenti i moniti e gli avvertimenti degli specialisti si è visto anche ai recenti funerali del patriarca serbo Irinej a novembre; in imbarazzo e in difficoltà alla domanda sul perché non fosse stato impedito un funerale pubblico, lo stesso dr. Kon davanti alle immagini di migliaia di persone in fila per l’ultimo saluto al religioso senza il minimo rispetto delle norme di distanziamento, aveva esclamato incredulo in tv: “Ma cosa fate!? Noi non abbiamo l’autorità per impedire alle persone di andare al funerale, anche se come epidemiologo dovrei vietarlo. Il divieto di assembramento esiste già. Ricordo che dopo il funerale del metropolita Amfilohije, il Montenegro ha avuto più di 10.000 persone infette su base giornaliera…”.

Lo stesso specialista, il più mediatico del gruppo, pochi giorni dopo aveva candidamente ammesso il ritardo nell’adozione delle nuove misure di contenimento, rimettendo le colpe alla parte del team di lavoro che, secondo lui, chiuderebbe gli occhi davanti alla drammaticità della situazione sanitaria: “Siamo certamente in ritardo con l’introduzione di misure più restrittive, su cui però non decide solo il gruppo degli epidemiologi. Il primo avvertimento da parte nostra è della metà di ottobre e il 6 novembre avevamo già proposto misure più restrittive. Sulla situazione economica non decidiamo noi, noi ci occupiamo solo della parte sanitaria”. Un’ammissione quindi che “i buoi sono già scappati” e di dover, seppur contro coscienza, limitare le misure al minimo. Vale a dire, per ora , poco più della chiusura settimanale di locali, bar e ristoranti, centri commerciali, cinema, teatri, palestre, piscine etc. fissata alle 17 e totale chiusura degli stessi nel weekend; rimangono la libertà di movimento e il no al coprifuoco o all’obbligo della mascherina all’aperto.

Dr. “Haos”

Un pensiero alternativo e di rottura interno al “Krizni štab” è quasi sempre arrivato dal suo membro più istrionico, scanzonato, provocatorio e ottimista: il dottor Branimir Nestorovićo come viene apostrofato ora il “Dottor Haos” (caos). Laureatosi a Belgrado, 66 anni e da poco in pensione, il Dr. Nestorović è specializzato in pediatria, pneumologia e allergologia, e gode di ottima fama nel paese, soprattutto nel campo pediatrico.

Dall’autunno non fa più parte dell’Unità di Crisi, ufficialmente per raggiunti limiti d’età, in verità per esserne stato escluso, essendo una voce fuori dal coro troppo scomoda e difficilmente ammaestrabile. Personaggio che continua comunque a far discutere, molto attivo sui media, è di pochi giorni fa la pubblicazione sul suo profilo di un controverso video dove canzona i suoi ex-colleghi. La sua popolarità l’ha portato ad avere anche un fan club su Facebook.

Le sue apparizioni in tv, soprattutto durante la prima ondata, strappavano quasi sempre un sorrisetto ingenuo ai più e la disperazione e il rimprovero spesso dei colleghi per i toni usati e le idee alquanto originali.

Il 6 maggio, appena revocato lo stato di emergenza, aveva dichiarato che era arrivato il momento giusto del contagio di massa: “Sono un sostenitore dell’apertura delle scuole. I bambini dovrebbero uscire e infettarsi. Fino al 15 giugno ci si deve occupare solo di chi ha più di 65 anni”.

Il 29 maggio alla conferenza internazionale “The World after coronavirus” a Belgrado, aveva segnalato alcune carenze organizzative: “All’inizio non sapevamo dove sbattere la testa, non sapevamo davvero cosa stavamo facendo. Avevamo due modelli, ottimista e pessimista; abbiamo fatto meglio di quello ottimista”.

Poche settimane dopo mentre i suoi colleghi invitavano ancora la popolazione a non rilassarsi, lo stesso affermava che “le mascherine non servono, anzi sono controproducenti; adesso è sufficiente il metro di distanza”.

L’uscita migliore rimane però quella del 26 febbraio, quando ancora prima che il virus venisse registrato in Serbia, si presentò davanti alle telecamere, sorridente e rilassato, e con la sua dichiarazione strappò una risata (sic!) anche alle più alte cariche istituzionali schierate alle sue spalle: “Non posso credere che persone sopravvissute a sanzioni e bombardamenti abbiano paura del virus più divertente e innocuo della storia dell’umanità… Faccio appello alle persone affinché smettano di credere a un virus che circola su Facebook… L’epidemia in Cina sta volgendo al termine, il virus sta diventando sempre più debole… Gli estrogeni proteggono le donne, che si ammalano in forma lieve e non muoiono. Quindi, donne sentitevi libere di fare shopping in Italia! Ho sentito che ci saranno grandi sconti lì adesso, perché nessuno andrà in Italia. Pertanto preparate mentalmente i vostri mariti al viaggio. Sto scherzando, ma davvero non capisco. Sono rimasto sorpreso l’altro giorno quando è iniziata questa storia del virus. Questa è la più debole variante della SARS, che a noi non ha causato nessun problema. Vedo che i confini si stanno chiudendo, gli aerei non volano più… Assurdità assoluta”. Che cattivo profeta, verrebbe ora da dire.

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