Nataša Škaričić: perché ho abbandonato il giornalismo
Nataša Škaričić è una pluripremiata giornalista investigativa. Ha portato alla luce in Croazia numerosi scandali del settore sanitario. Ciononostante, dopo anni difficili passati tra censure e aule di tribunali, ha deciso di abbandonare la professione. Un’intervista
(Intervista originariamente pubblicata da H-Alter il 4 novembre 2014, titolo originale: Zašto sam napustila novinarstvo )
Dopo quasi vent’anni di lavoro per il quotidiano “Slobodna Dalmacija” e dopo lunghi processi giudiziari riguardanti i diritti dei lavoratori e dei giornalisti contro i direttori dell’Europapress holding, Nataša Škaričić ha firmato lo scorso 31 ottobre la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con il quotidiano di Spalato. Così facendo ha deciso di terminare la professione, annunciando ad “H-Alter” il suo ritiro dal giornalismo. “Mi sono già ritirata dal giornalismo. Questo non significa che ogni tanto non pubblicherò qualcosa da qualche parte, ma sono sicura che non sarà questo lavoro a mantenermi”, dice Nataša Škaričić. Le ragioni di questa decisione sono, come enfatizza, molte. “Gli editori mainstream non mi vogliono, i giornali ai cosiddetti margini non hanno risorse, sono stanca, non sopporto più l’assurdità dell’impegno giornalistico e sempre più spesso mi sento un pagliaccio…”
Con questa decisione il giornalismo croato rimane privo di una delle giornaliste migliori e più premiate degli ultimi quindici anni. Durante questo periodo, Nataša Škaričić ha svelato numerosi scandali nel sistema sanitario croato che hanno avuto una forte eco anche sui media internazionali. Per questo impegno ha ottenuto una serie di premi prestigiosi, il più importante dei quali è quello per la giornalista dell’anno 2012, ricevuto per aver portato a conoscenza del pubblico lo scandalo successivamente denominato “Farmal”. Grazie ai suoi articoli, lo scandalo ha avuto un epilogo giudiziario senza precedenti poiché 500 medici sono stati incriminati per aver prescritto farmaci prodotti da “Farmal” in cambio di bustarelle.
Una giornalista che ha dato un contributo importante alla scoperta di altri scandali simili: quello dell’azienda “Pfizer”, poi il caso dell’acquisto di costose apparecchiature mediche dall’azienda giapponese “Shimadzu” all’epoca in cui Andrija Hebrang era il ministro della Salute; il caso dei maltrattamenti ai danni di bambini a Brezovica; l’ospedalizzazione coatta di Mirjana Pukanić, etc.
Prima che “Slobodna Dalmacija” entrasse a far parte della casa editrice EPH, Nataša Škaričić era riuscita a pubblicare senza censura articoli su molti dei più grandi scandali avvenuti nella Croazia indipendente nel campo della sanità.
La situazione è però cambiata nel 2008 durante la riforma della sanità voluta dall’allora ministro competente Darko Milinović, dell’HDZ [Unione Democratica Croata, ndr]. In questo periodo, Nataša Škaričić non ha potuto pubblicare testi critici riguardo alla riforma proposta ed ha saputo dal direttore di “Slobodna Dalmacija” che tutti i direttori dei maggiori quotidiani croati sarebbero stati presenti, su invito del primo ministro Ivo Sanader, ad una riunione in merito al monitoraggio della riforma. Nataša Škaričić ha chiesto un colloquio urgente con i vertici dell’EPH e con lo stesso direttore della rivista. Ha inoltre denunciato pubblicamente questo caso all’assemblea dell’HND [Associazione dei giornalisti croati, ndr] tenutasi a Opatija, ritenendolo una “ingerenza del Comitato centrale nel sistema sanitario”. Alcuni mesi dopo le è stata consegnata una lettera di licenziamento con un preavviso di sei mesi. Durante questo periodo non ha potuto pubblicare articoli, e inoltre le è stata comunicata la decisione del consiglio di amministrazione che durante il periodo di preavviso non avrebbe dovuto recarsi al lavoro. Tre mesi prima della scadenza del periodo di preavviso Nataša Škaričić ha ricevuto una proposta di lavoro come vice caporedattrice del quotidiano “Business.hr”, e ha quindi chiesto a “Slobodna Dalmacija” di interrompere il periodo di preavviso in modo da poter iniziare a lavorare per l’altro editore. Nonostante l’abbia sollecitata più volte, non ha ottenuto risposta, cosicché è passata al “Business.hr” senza nullaosta.
Rimasta nuovamente senza lavoro a causa delle difficoltà finanziarie nelle quali si è trovato “Business.hr”, nel gennaio 2010 “Slobodna Dalmacija” l’ha chiamata in giudizio, chiedendo un risarcimento di 190mila kune croate per violazione della clausola di esclusiva presente nel contratto che regolava il suo rapporto di lavoro quale vice caporedattrice della rivista. “Slobodna Dalmacija” ha quindi preteso un risarcimento danni da Nataša per essere passata ad un altro giornale dopo aver ricevuto la lettera di licenziamento.
Da quel momento sono iniziati estenuanti processi durante i quali, grazie alle conseguenti sentenze, è stata riassunta come redattrice e come giornalista di Slobodna Dalmacija. Contemporaneamente, ha ottenuto una vittoria giudiziaria senza precedenti poiché il tribunale ha dimostrato che i cosiddetti contratti RPO [sorta di contratti di consulenza, ndr] in realtà instaurano rapporti illegali di lavoro con numerosi giornalisti in Croazia che hanno nei confronti della redazione gli stessi doveri dei giornalisti con contratto a tempo indeterminato ma non gli stessi diritti…
Per quali ragioni ha lasciato "Slobodna Dalmacija" e l’editore EPH?
Me ne vado perché dopo quattro anni finalmente siamo riusciti a trovare un accordo sulla sospensione di tutti i processi giudiziari, e questi processi erano l’unica cosa che mi tratteneva lì.
Dei problemi che lei ha dovuto affrontare – accuse e controaccuse riguardo allo status di consulente – abbiamo parlato su queste pagine più di un anno fa. L’EPH le ha pagato gli stipendi arretrati e altri risarcimenti previsti dalla sentenza? Quanto le devono ancora?
Non ci sono più debiti. Abbiamo raggiunto un accordo e spero di non incontrarli mai più né di avere più questioni comuni con loro.
Che cosa pensa di fare adesso cha ha abbandonato il giornalismo?
Ho intenzione di finire il dottorato a cui mi sono iscritta per riposarmi dal giornalismo, con la casa di produzione Fade In sto girando un film sul caso della morte di una donna nell’ospedale Sv. Duh (Santo Spirito) e – con un po’ di fortuna – diventerò cuoca o qualcosa di simile.
Come è stato lavorare nell’EPH dal primo licenziamento in poi? Ha subito delle pressioni?
Sono stati quattro anni orribili. Prima di tutto, quando ho vinto la prima causa nel 2011 per licenziamento illegittimo, mi aspettavo che ci saremmo seduti per parlare delle condizioni di una separazione consensuale e dignitosa perché la nostra collaborazione non aveva più senso. La situazione si è invece sviluppata come nella suspense di un film che aveva per protagonisti avvocati corporativi. La loro tattica è stata quella di non accettare la sconfitta – cioè le sentenze giudiziarie definitive – e di tentare di sopraffarmi con una infinità di nuove accuse, appelli, revisioni, in breve, con tutti gli strumenti giudiziari a loro disposizione.
Si tratta di un’azienda che, tra l’altro, mi ha licenziata nel 2009, per poi chiamarmi in giudizio nel 2010, chiedendo 200mila kune croate [circa 26mila euro, ndr] di risarcimento perché sono andata a lavorare per un’altra azienda dopo essere stata licenziata da loro. Nonostante l’assurdità di tale accusa, il processo è stato avviato allo scopo di esaurire le mie forze nonché di intimidirmi con la possibilità, visto l’attuale sistema giudiziario, di dover loro una cifra in denaro che per me rappresenta una fortuna. In questo modo, fingendo a lungo di voler trovare una soluzione pacifica, mi hanno riassunta, per poi moltiplicare i processi giudiziari a mio carico, che ho dovuto accettare e a cui ho dovuto rispondere allo stesso modo, solo per mantenere l’equilibrio delle forze. Provi lei a immaginare di lavorare in tali condizioni… Per l’EPH questo era il prezzo dell’importanza del mio caso e io l’ho pagato caro. Ciononostante, sono rimasta in piedi.
L’atteggiamento del datore di lavoro e della redazione nei suoi confronti è stato condizionato durante tutto questo tempo dal fatto che lei, qualche anno fa, si era espressa pubblicamente contro la volontà della maggior parte dei più potenti media del paese di trovare un accordo con Sanader riguardo alla diffusione delle notizie sulla strategia sanitaria di allora?
No, l’atteggiamento del datore e della redazione nei miei confronti è stato sempre condizionato dal mio atteggiamento verso il datore, la redazione e il giornalismo, soprattutto per quanto riguarda il mio modo di riportare le notizie del settore in cui mi sono specializzata, ovvero quello della sanità.
L’atteggiamento comune verso questo settore è tale che ancora oggi nessuno vuole capire che la sanità è politica e non una bizzarra combinazione di esoterismo ed esattezza, che ruota al di sopra delle nostre teste, nella sfera degli esperti biomedici.
Quando ho iniziato a scrivere di sanità, il giornalismo si occupava principalmente di promozione della tecnologia e degli esperti biomedici o di patologie, oppure degli “scandali” suscitati dal decesso di un paziente in ospedale per presunta negligenza di un medico. È difficile rompere questo meccanismo, tra l’altro anche per il carattere stesso dei media commerciali.
Per quanto riguarda Sanader, la possibilità di collaborare è alla fine venuta meno da sola perché è collassato il giornalismo stesso, in uno degli episodi più vergognosi della nostra storia professionale, dopodiché è diventato chiaro che, anche in Croazia, il giornalismo chiaramente definito è ancora possibile soltanto nelle dittature o semi-dittature – come era quella di Tuđman – perché in quelle situazioni emerge sempre un gruppo di persone consapevoli di quello che è l’interesse comune: sconfiggere il dittatore.
I rapporti politici e finanziari pseudodemocratici, con i loro metodi sofisticati, manipolativi, volti ad offuscare i processi reali – nella nostra società introdotti alla grande da Sanader – inibiscono completamente la possibilità che un gruppo più grande di persone si integri e percepisca, esprima e spieghi in modo chiaro quello che sta succedendo. In altre parole, è più conveniente "comprare" i giornalisti piuttosto che opporsi direttamente a loro.
È vero che dopo il ritorno al lavoro i suoi testi sono spesso stati abbreviati e cambiati? Di quali temi si trattava?
Questo episodio riguarda più l’assurdità della mia posizione che la censura. Dunque, sono stata licenziata a causa del mio rifiuto assoluto di accettare il modo in cui l’EPH percepiva diritti e doveri del giornalismo, soprattutto il dovere dei giornalisti di intuire chi e quanto è importante per Pavić [il fondatore e proprietario dell’EPH, ndr] e di adattarvisi. Ma le sostituzioni delle persone e dei sistemi che governano l’EPH richiedono metamorfosi letteralmente camaleontiche, il che implica, tra l’altro, che per un certo periodo si può liberamente pubblicare su qualcuno o qualcosa, rischiando, però, di essere licenziati già l’indomani perché si è trattato di un amico o un partner dei vertici dell’EPH.
Ad esempio, anche se Sanader controllava le pubblicazioni dell’EPH, potevo liberamente occuparmi del lavoro del ministro della Sanità, Andrija Hebrang, perché non lo sopportavano né Sanader né Stjepan Orešković, membro del consiglio di amministrazione dell’EPH, indirettamente incriminato, durante il mandato di Hebrang, tramite un giornale concorrente, quando il progetto della riforma della sanità a Koprivnica si è trovato nella Fraud and Corruption list della Banca Mondiale. Tuttavia, quando Sanader ha poi introdotto nel settore della sanità uno dei suoi uomini, Darko Milinović, mi è stato detto che il primo ministro aveva raggiunto un accordo con tutti i media in merito all’astensione dal criticare la riforma della sanità e che dovevo stare zitta.
Con questo siamo giunti al culmine perché poco dopo aver chiesto a Orešković di rendere esplicito che le nostre edizioni venivano redatte da Sanader sono stata licenziata. Quando nel 2011 sono stata riassunta, l’atmosfera politica era completamente diversa, e l’incessante spettacolarizzazione del caso Sanader aveva già provocato l’isterica amnesia collettiva del fatto che l’EPH era la fabbrica delle fantasmagorie su Sanader e che le redazioni lo avevano seguito come se fosse Putin. I direttori dell’EPH, in quanto veri maestri nell’adeguarsi, calcolavano ancora a chi avvicinarsi sulla scena politica, e io comunque ero già diventata una persona a cui non pensavano neanche di applicare le regole generali del gioco. Il direttore del giornale ha dichiarato in tribunale che gli era stato detto di non badare a me perché il mio era uno status speciale. Così sono diventata extraterritoriale, letteralmente e in ogni altro senso.
Dato che non mi hanno mai dato un computer che funzionava, ho dovuto sempre lavorare dal mio appartamento. Per un lungo periodo non avevo nemmeno un cellulare aziendale, e ho detto alla redazione che non avevo nessuna intenzione di comprare giornali, soprattutto non “Slobodna Dalmacija”, dal mio stipendio di seimila kune [circa 800 euro, ndr]. Così avrei mandato il testo senza preoccuparmi di come e quando lo avrebbero pubblicato. Penso di essere stata l’unica giornalista impiegata da un privato che parlava apertamente del proprio datore di lavoro. Tuttavia, ogni tanto vedevo i miei testi su internet e rimanevo terrorizzata dal modo in cui erano stati modificati a seguito di violente richieste editoriali che gli altri redattori evidentemente non percepivano come un problema.
È ironico che nel periodo di queste pressioni “dall’alto”, lei abbia ricevuto il premio dell’Associazione dei giornalisti croati…
Nel periodo in cui una volta a settimana incontravo in tribunale gli avvocati dell’azienda, la mia unica fuga dalla realtà era la scrittura. Mi ero dedicata al lavoro giornalistico come se non succedesse nulla, e questo in qualche modo mi calmava fino all’oblio. Era ridicolo, però, che prima di questo premio mi abbiano preannunciato il terzo licenziamento, per poi ritirarlo. In seguito mi hanno convocata a Spalato, fingendo di voler trovare un accordo, mentre invece mi aspettavano per dirmi che preferivano non licenziarmi. Risposi che mi interessava di più liberarmi dai loro avvocati. Rimasero molto sorpresi dal fatto che lavorare da loro non fosse la mia unica ambizione.
Quanta era nel suo caso la solidarietà dei colleghi e, infine, dell’Associazione dei giornalisti croati e del sindacato di categoria?
Inesistente, questi sono arbitri inutili che decidono sempre a favore dello stato attuale delle cose.
La definizione scolastica del giornalismo lo descrive da sempre come una professione impegnata nel raggiungimento dell’interesse pubblico. Da giornalista che ha lavorato per molti anni nel settore privato, quale è la sua opinione? Questa definizione viene confermata nella realtà?
Molte sono le definizioni scolastiche. Questa di cui parla lei rappresenta la definizione e la cornice legislativa. La realtà è completamente diversa, per cui i teorici del giornalismo non riescono a mettersi d’accordo neanche sulla definizione di che cosa o chi sia il giornalista. Anche in questo caso è vero che i media privati offuscano le definizioni e i confini, perché l’interesse di un editore privato può essere anche la pubblicazione sui cani o sui fiori, il che solo apparentemente non rappresenta un problema particolare. Il problema molto più grande è invece quello dei mass media privati, ovvero del giornalismo corporativo che si occupa della politica, poiché esso è letteralmente immerso nel conflitto di interessi: da un lato, questi media soddisfano, in certa misura, la definizione allargata dello “scrivere nell’interesse pubblico”, e sta di fatto che nessuno, loro inclusi, è escluso dalla cornice normativa entro la quale funzionano i media; dall’altro lato, il loro interesse sta completamente al di fuori della cornice del concetto d’interesse pubblico, e il loro modo di pubblicare le notizie giova innanzitutto all’interesse economico e politico di chi è al potere, quindi, al mantenimento dello stato attuale delle cose.
Proprio questo conflitto li rende di successo perché nessuno può dire che il giornalismo commerciale non pubblica temi di pubblico interesse e che in questo ambito non c’è alcuna speranza, ma nello stesso tempo questo conflitto ha provocato una nociva confusione di generi a causa della quale sono pochi coloro che possono distinguere non solo che cosa sia l’interesse pubblico, ma anche se gli eventi pubblicati siano veri.
Già da molto tempo il problema non sta solo nel fatto che i media corporativi non offrono un’immagine autentica degli eventi politici, ma piuttosto essi stessi hanno creato un’autenticità che i veri protagonisti della vita politica accettano e secondo la quale si comportano. Molte delle notizie esclusive dei media non sono affatto notizie, semplicemente perché le cose riportate non sono mai successe. Non saprei da dove cominciare a spiegarlo… Si può leggere spesso, ad esempio, di un aspetto esclusivo di una riforma, anche se quello di cui si legge non esiste o, se esiste, non è una riforma. Il giornalismo si basa sulle notizie, e le notizie sono composte da parole che hanno perso ogni significato, ma delle quali si discute come se lo avessero ancora.
Ad esempio i media commerciali, in occasione del discorso alla nazione del premier Milanović a seguito della protesta dei veterani di guerra, hanno sottolineato un solo dettaglio di quanto accadeva trasformando così l’intera vita politica del paese. “Jutarnji list” ha dato il via a quanto accaduto sostenendo che tutti gli spettatori della trasmissione erano fissati sulla barca di carta posta sul tavolo del primo ministro. La pura invenzione che tutti eravamo fissati su una barca di carta mentre il primo ministro parlava di un evento che rasentava il colpo di stato alla fine ha assunto un vero potere di distrazione, sminuendo completamente l’evento principale.
Questo è un esempio paradigmatico, proprio perché così evidentemente sciocco. Detto in parole povere, ci vendono fumo incorniciato da leggi e norme, e l’unica soluzione, secondo me, è rivedere queste leggi e queste norme e rinvigorirle in maniera specifica a favore della professione giornalistica.
È possibile svolgere onestamente il lavoro giornalistico nei giornali commerciali croati o è impossibile e il lavoro giornalistico in quei luoghi è un paravento dietro il quale si nascondono particolari interessi di individui, tra loro interconnessi, provenienti dal mondo politico, imprenditoriale e editoriale che stanno schiacciando la professione giornalistica? Quali sono le sue esperienze e come funzionano realmente le gerarchie nei principali media croati?
Dunque, dato che nessuno è immune dalle regole, è possibile svolgere un onesto lavoro giornalistico nei media commerciali perché le leggi tutelano, in parte, l’autonomia dei giornalisti. Posso confermarlo perché l’ho sperimentato personalmente. Lavoravo per un editore privato – sapendo che ovunque mi sarei trovata nella stessa condizione – e per la maggior parte del tempo riuscivo a pubblicare i miei articoli. Se non riuscivo a farli passare dai miei editori, ne parlavo pubblicamente, in televisione, alle conferenze, alle tavole rotonde, etc. E non solo, commentavo pubblicamente la politica professionale degli editori e usufruivo del diritto di non dover condividere la loro politica editoriale. Tuttavia, le iniziative individuali di questo tipo non hanno molto senso a lungo termine.
Per quanto riguarda il mito dei giornali commerciali croati come luoghi di maggiore libertà, penso che questo mito sia stato smantellato molto tempo fa, il che è stato confermato anche da un recente sondaggio del GFK secondo il quale solo il 21% degli intervistati dice di credere ai giornalisti. Eppure, non è giusto criticare soltanto i giornali commerciali in Croazia: anche la HTV [televisione pubblica croata, ndr] sta toccando il fondo. In questo caso il problema è diverso e deriva dalla natura di un media pubblico che ha conservato la sua struttura del media statale.
Quanto alla gerarchia nei principali giornali croati: rappresentano ambienti con un tale deficit di democrazia editoriale che chiunque ci entri impara subito le regole dell’obbedienza, nonché quelle che permettono la riflessione sui propri dubbi morali e di ogni altro tipo solo al di fuori della redazione. Lei è sicuramente a conoscenza anche del fatto che lo statuto dei media, un atto di autoregolamentazione previsto dalla Legge sui media dieci anni fa, è stato adottato dalle maggiori redazioni soltanto l’anno scorso dopo che il governo ha promesso di diminuire l’imposta sul valore aggiunto a coloro che lo introducono.
Quanto vengono protetti in realtà, da parte delle imprese editoriali come l’EPH, i poteri politici ed economici e in che modo? È evidente, ad esempio, che Ivica Todorić non viene nominato nei media mainstream, così come su “Slobodna Dalmacija” e in altre edizioni dell’EPH fino ad uno o due anni fa non si poteva nominare Miroslav Kutle. Questi sono solo due esempi tra tanti. Quali sono esattamente le ragioni di questi occultamenti?
L’EPH è potente politicamente ma non economicamente poiché dipende da poche fonti di denaro in Croazia. Se non avesse il potere di accordarsi con le élites politiche riguardo all’appoggio reciproco, la sua attività di scarsa qualità sarebbe fallita molto tempo fa. A proposito, lei è sicuramente a conoscenza dell’aiuto che l’EPH ha ricevuto dallo stato tramite la Legge sul procedimento prefallimentare. Anche il caso dello statuto di autoregolamentazione è un corpus delicti. E’ come se il governo avesse deciso di premiare tutti coloro che non passano col semaforo rosso! Esattamente questo è accaduto con la decisione di diminuire l’imposta sul valore aggiunto all’EPH, a Styrija e ad altri dove le redazioni hanno adottato lo statuto.
In un paese dove il borseggio fiscale rappresenta l’unico modo di sopravvivere, il governo all’improvviso annuncia di voler rinunciare ad una parte dei guadagni fiscali a condizione che questi editori rispettino la legge! È chiaro che si tratta di corruzione e che l’intera vicenda dello statuto è stata messa in scena perché al momento non sono riusciti ad inventarsi niente di più serio. Le pubblicazioni dell’EPH, in cambio, dovevano strategicamente appoggiare la politica del governo, sia propagando la loro retorica e ideologia, sia falsificando e fabbricando notizie che non lo sono o oscurando quelle vere. È un lavoro complesso che esige la capacità di inventare continuamente nuove tattiche.
Nel caso degli individui di cui lei parla, i motivi sono diversi e bisogna conoscere bene la scena politico-mediatica per poterli individuare. È chiaro che Todorić, in quanto grande inserzionista e proprietario di Tisak, de facto possiede i media giornalistici; nel caso di Kutla, c’entrano i residui del partenariato del tempo del gruppo Globus, nel caso di un altro è qualcos’altro… Ad esempio, il divieto di scrivere sull’ospedalizzazione coatta di Mirjana Pukanić, come uno degli episodi più mostruosi che ricordo, era in vigore probabilmente perché Nacional poteva replicare con una serie di testi su qualcuno dell’EPH, magari anche per la misoginia che fa parte della cultura giornalistica. Tuttavia, questi motivi che si riesce a spiegare rappresentano un problema minore rispetto all’intero stile del giornalismo corporativo.
In che misura, secondo lei, vengono fatti tacere i giornalisti? In che modo vengono formati a distinguere da soli quello che possono da quello che non possono scrivere? La censura risulta ancora necessaria in questo contesto?
Lo sono abbastanza, anche se la censura, secondo me, non è più possibile con internet, tranne su base volontaria. Il redattore vieta un testo, e il giornalista lo pubblica su internet, dicendo di non aver potuto farlo lì dove è impiegato. Il problema è risolto.
È ancora presente la pressione sul suo lavoro e su quello dei suoi colleghi adesso con il governo di Milanović, come lo era al tempo del governo dell’HDZ?
Non seguo molto l’approccio di questo governo perché socializzo poco con i giornalisti e ascolto poco le loro storie. La matrice, secondo me, è sempre la stessa: hanno i propri giornalisti e i propri giornali attraverso i quali riescono a trasformare ogni sciocchezza in notizia, ignorando le critiche e fingendo di non muovere i fili. Posso parlare della mia esperienza personale: il primo ministro della Salute che ha avuto l’SDP [il Partito Socialdemocratico di Croazia, ndr], Ratko Ostojić, non ha mai voluto parlare con me, mentre faceva descrivere come mirabolanti – da altri giornalisti – le proprie assurde mosse nell’ambito della sanità, controbilanciando in questo modo i danni provocati dai miei articoli. Il ministro che è arrivato dopo ha proseguito per la stessa strada.
La situazione è questa, si fa così. Tuttavia, mi sembra che alcuni spiragli di pluralismo e democrazia si siano aperti durante la prima fase del governo dell’SDP, caratterizzata da una certa debolezza: loro erano formalmente al potere, mentre le istituzioni erano ancora piene di funzionari dell’HDZ. Vagabondando tra gli uni e gli altri, non necessariamente perché simpatizzavano con i loro partiti, ma perché abituati ad appoggiarsi oltre ogni misura alle autorità tradizionali, i giornalisti sono riusciti ogni tanto a pescare qualche germoglio di libertà nella molteplicità delle relazioni editoriali.
Quando l’HDZ tornerà al potere, il che è più che probabile, e l’SDP passerà all’opposizione debole, lasciando dietro di sé una grave povertà, temo che niente ci salverà da una nuova fase di uniformazione che qualcuno sfrutterà di nuovo in termini economici. Per quanto le politiche dei socialdemocratici e della destra siano quasi identiche, per il conseguimento di piccoli spazi di democrazia è meglio che il governo sia debole.
Come vede, in tale contesto, la cosiddetta "Strategia mediatica", annunciata da due anni dal ministero della Cultura, ma non ancora, almeno ufficialmente, messa in atto?
La cosiddetta "Strategia mediatica", che si può trovare ovunque in internet, è uno scandalo se solo qualcuno al di fuori dei giornalisti si rendesse conto di quello che il ministero sta facendo. Dal punto di vista della professione, è già impressionante il fatto che quel documento venga chiamato "Strategia mediatica" mentre in realtà il suo oggetto è il giornalismo. A livello politico, è vergognoso che un documento incompiuto circoli solo attraverso canali informali, un anno prima delle elezioni parlamentari, e che la ministra della Cultura presenti questa situazione come dannosa in quanto potrebbe portare a modifiche del documento stesso.
Quindi formalmente non vi è alcun documento e azione strategica di questo governo nei confronti dei media che fanno informazione. Il documento che informalmente circola su internet, di circa 308 pagine, è del resto anche nel merito completamente inappropriato. E’ un lavoro compilativo, una pessima imitazione di un lavoro scientifico, un rapporto giornalistico troppo lungo sul giornalismo e n gran parte basato sulla teoria di Robert W. McChesney. Per riassumere: uno o più autori vi hanno esposto o parafrasato una critica dell’approccio mercantesco al giornalismo. Ma è paradossale se si considera che il ministero della Cultura ha sprecato tre anni per scrivere un documento inadeguato che ampiamente cita McChesney e che critica l’approccio commerciale al giornalismo, mentre allo stesso tempo ha provocato – con il suo generoso aiuto al giornalismo corporativo (tramite la diminuzione dell’imposta sul valore aggiunto e la tolleranza dell’abuso dei diritti professionali dei giornalisti attraverso il Registro dei contribuenti) – danni materiali che ammontano a diversi milioni.
Là dove i giornalisti di sinistra hanno sacrificato molto in una lotta ideologica contro il capitalismo giornalistico, i giornalisti di destra hanno semplicemente firmato un patto. Alcuni filosofi di questa materia sono giunti alla conclusione che quello che importa ad alcuni non è imporre una specifica visione su un modello possibile di media ma il mantenerli immutati. Con questo documento si va in questa direzione.
Potrebbe, a condizione che loro siano professionalmente interessati a lei, lavorare, ad esempio, nella rivista concorrente Styria?
È impossibile che Styria si interessi a me.
Per quali ragioni il suo caso riguardo al contratto RPO [contratti di consulenza, ndr] si è dimostrato così sensibile per l’editore EPH?
E’ una questione rilevante per tutti gli editori dei giornali croati, non solo per l’EPH. Di fatto durante il mio processo si è fatto saltare il diffuso sistema dei contratti di consulenza. Nel 1999 è iniziata in Croazia una prassi illegittima di assumere i giornalisti attraverso contratti per giornalisti free lance – attraverso i famosi contratti RPO – con i quali, almeno secondo le stime del Sindacato dei giornalisti croati, il budget statale verrebbe danneggiato per circa 20 milioni di kune all’anno [circa 2,6 milioni di euro, ndr].
Questi contratti sono spesso esplicitamente illegali poiché molti di essi contengono norme della Legge sul lavoro che possono essere incluse solo nei contratti di lavoro dipendente, come il diritto alle ferie, alla malattia, etc. Ciononostante questi contratti vengono chiamati a prestazione d’opera e come tali implicano una modalità diversa di pagamento delle tasse e dei contributi.
Nonostante questa prassi trasgredisca la Legge sul lavoro nonché quella fiscale, dal 1999 ai giorni nostri nessuno aveva fatto nulla per inibirla, così che tutti gli editori hanno cominciato a stipulare contratti di questo tipo e i loro avvocati a fornire una propria interpretazione dell’articolo 2 della Legge sui media che definisce giornalista una persona fisica che ha un rapporto di lavoro con un editore o che svolge il lavoro giornalistico come imprenditore autonomo.
Le istituzioni statali sono evidentemente corrotte in quanto sostengono la stessa tesi degli avvocati corporativi, ovvero che questo articolo permette all’editore di impiegare i giornalisti attraverso contratti a prestazione d’opera; quindi, le istituzioni interpretano questa definizione esattamente come i padroni del giornalismo corporativo desiderano, sebbene tutti gli esperti di diritto sostengano il contrario. Solo in Croazia si purtroppo si può affermare che proprio la Legge sui media e chi l’ha promossa siano inadeguati e incompetenti avendo fatto saltare la distinzione tra giornalisti effettivamente free lance e quelli che lavorano esclusivamente per un unico datore di lavoro.
Visto che, nell’economia del processo giudiziario, ho denunciato “Slobodna Dalmacija” per avermi licenziata senza alcuna spiegazione, perché durante un periodo molto breve e perché nonostante una lunga anzianità di servizio in azienda mi hanno contrattualizzata con un RPO, la mia sentenza e chi l’ha decisa hanno di fatto abbattuto l’intero sistema.
Im