Mondiali 2014: una riflessione sul tifo shqiptar
Domenica 13 luglio, migliaia di tifosi albanesi sono scesi in strada per festeggiare la vittoria della nazionale tedesca ai Mondiali di calcio. Una bellissima festa, che colpisce per le dimensioni ed il trasporto con cui è stata vissuta dai suoi interpreti. Un fenomeno complesso che merita una riflessione
Tutti lo sanno: il tifo, specie quello calcistico, è un esercizio collettivo di identificazione, un processo psicologico fondato sulla delega delle proprie emozioni (nessun tifoso ha mai tirato un rigore, se non all’oratorio) e sull’appropriazione di un successo altrui (nessun tifoso ha mai vinto nulla, se non all’oratorio). Ciò detto, sebbene risulti giustamente incomprensibile a chi non abbia avuto la fortuna di essere baciato dalla "fede" calcistica, chiunque ne possieda una lo sa: tifare è una cosa meravigliosa.
Il piacere di schierarsi
Con buona pace dei vari pseudo-intellettuali del settore – quelli del "che vinca lo sport" – guardare una partita di calcio senza schierarsi è pressoché impossibile. In tutto il mondo, anche se la propria squadra del cuore non è in campo, si trova sempre una buona ragione per parteggiare: le motivazioni possono derivare dai propri colori (quella squadra ha eliminato la mia e ora le tifo contro), dalle simpatie o antipatie storiche che connotano i propri colori (se sono del Genoa tiferò contro la Samp, se sono di qualsiasi altra squadra italiana non tiferò mai la Juve) o semplicemente dall’andamento della partita in corso (quante volte capita di simpatizzare per chi è in svantaggio, o per chi sta giocando bene, meritando, all’attacco?). Le varie casistiche di empatia momentanea, però, non sono vero e proprio tifo, derivano semplicemente dall’inevitabilità dell’identificazione sportiva: quel meccanismo emotivo che rende il calcio qualcosa di bello non solo per chi lo pratica ma anche per chi lo guarda. Non è un caso che le partite "meno interessanti" siano proprio quelle che meno ci consentono il fatale esercizio identificativo: durante i mondiali, un tifoso medio europeo può trovare dentro di lui infinite ragioni per schierarsi alternativamente con la Germania o con l’Olanda, difficilmente ci riuscirà con il Giappone o con l’Iran: per il semplice fatto che quei paesi sono geograficamente e culturalmente molto lontani da lui.
I mondiali in Albania
Dopo aver seguito dall’Albania i Campionati del Mondo del Brasile, queste mie facili convinzioni sul tifo, assai banali per qualsiasi appassionato di calcio, sono crollate come un castello di carte. Che ci fosse qualcosa di strano nell’aria l’ho capito sin dalla prima partita, quando il mio vicino di casa, albanese, mi chiese per chi avrei tifato durante il torneo. Non essendo un grande appassionato della nazionale, e riuscendo fortunatamente a distinguere tra passaporto e identità, la domanda mi era sembrata non solo legittima, ma molto intelligente. Mi dispiacque quasi di dover rispondere «Italia»: balbettai il nome del mio paese quasi scusandomi per la banalità dei miei sentimenti. Dalla sua reazione capii tuttavia che il senso della sua domanda era diverso da quello che mi ero figurato: «ma quest’anno non arriverà in finale. Noi invece sì». La mia fede, in effetti, mi avrebbe candidato a una delusione. Quella del mio vicino, al contrario, lo avrebbe proiettato sul tetto del mondo: perché quel «noi» significava «Germania».
Di partita in partita, ho poi ricomposto il puzzle. La maggioranza dei tifosi albanesi non si è limitata a simpatizzare, ma si è divisa sin dall’inizio in tre gruppi: i tifosi dell’Italia, i tifosi della Germania, i tifosi del Brasile – minori ma esistenti, probabilmente crescenti alla luce dei risultati, sono stati gli albanesi olandesi e gli albanesi argentini. Gli azzurri sono stati per tanto tempo la nazionale d’adozione per eccellenza: una passione "anni Novanta", figlia della caduta del muro e delle "notti magiche" dell’estate dopo, un’immagine molto forte nella generazione migrante per cui l’Italia ha rappresentato il futuro; un ricordo fatalmente datato, che, complice la crisi del nostro calcio, oggi sopravvive negli adulti "di ritorno" o in chi, magari, ha lasciato parenti oltre Adriatico. I giovani, invece, almeno da quanto ho potuto capirci io, questa volta si sono divisi tra la Seleção – per tutti i tifosi del mondo, la nazionale dei sogni, quest’anno per giunta ospite – e la Germania: un’altra nazionale storicamente nel cuore degli albanesi, anche grazie all’affezione a club tedeschi come il Bayern di Monaco, una maglia che tanto spazio occupa nell’immaginario delle nuove e delle vecchie generazioni – anche per il contesto politico in cui venne disputata, è ancora vivo il ricordo della partita tra il 17 Nëntori Tirana e la squadra bavarese, ospitata proprio nel novembre 1989 allo stadio Qemal Stafa .
Germania, vinci per noi
A Tirana, i mondiali si possono seguire camminando per strada: gli schermi dei bar sono ovunque. La strada pedonale di Tirana è rimasta addobbata a festa per tutta la durata del torneo, trasformandosi nell’ultima notte nell’epicentro del delirio teutonico. Tre megaschermi, uno ogni venti metri, decine di tavoli circondati da griglie per le qofte e da casse di birra: tutto ciò per cui vale la pena vivere concentrato in cento passi di promenade. Tutt’intorno, centinaia di veri tifosi, all’inizio di vari colori poi sempre più tedeschi: con tanto di maglietta e di bandiera, in mano o dipinta in volto. Per la finale io e i miei amici abbiamo dovuto prenotare: un pub a maggioranza crucca, ma non senza qualche argentino a pepare un po’ la situazione. Tuttavia, a seconda della passione del padrone, esistono anche bar esplicitamente monocolore: è il caso dell’Old House del bllok, dove ormai tradizionalmente, da anni, si riuniscono i supporters della Germania – amici che erano là mi hanno raccontato dei pianti di gioia dopo il sudatissimo 1 a 0. In effetti, sin dall’inizio del torneo avevo captato frasi come "se non ce la facciamo quest’anno non ce la faremo mai più", ma ero talmente lontano dall’idea che il transfert del tifo potesse innescarsi anche nei confronti di nazionali terze, che non ho voluto credere a quello che stavo vivendo fino al triplice fischio della finale, quando da Tirana sono stato teletrasportato a Berlino. Affascinato, mi sono goduto la festa, come un turista di fronte a qualcosa che non capisce. Ma tornando a casa l’allegria si è venata di tristezza, e ho dovuto chiedermi il perché.
Un riflessione necessaria
Avevo già avuto modo di conoscere il tele-tifo a distanza degli albanesi – gran consumatori di calcio estero durante tutto l’anno – e di misurare la distanza esistente tra la passione calcistica diffusa nel paese e la tradizione espressa a livello di club, unicamente a causa della disastrosa situazione infrastrutturale. Come già scrissi, in Albania il tifo d’adozione viene sospeso unicamente in occasione delle partite della Nazionale albanese, una squadra che incarna in se stessa la categoria dell’albanesità – di fronte alla quale, come insegna il poeta risorgimentale Pashko Vasa, ogni altra appartenenza è destinata a scomparire. Quello che mi ha stupito, è che in assenza della propria nazionale – per la quale Tirana si tinge ciclicamente di follia rossonera durante le qualificazioni – in Albania non ci si limita a simpatizzare, di volta in volta, per una nazionale diversa (al solo scopo di godersi le partite), ma si sceglie prima dell’inizio del torneo – talvolta addirittura dalla nascita – la propria nazionale d’adozione: così come ogni albanese tifa un "suo" club estero durante l’anno, molti albanesi, stabilmente, tifano una "loro" nazionale. Le ragioni del fenomeno sono tutt’altro che complesse: dal momento che, complice la chiusura comunista, l’Albania non si è mai qualificata per le fasi finali, i tifosi albanesi si sono abituati a delegare le proprie soddisfazioni ad altri paesi, interpretando i campionati del Mondo e gli Europei alla stregua di mega-Champions-League tra nazioni.
Se, come già detto, qualsiasi appassionato di calcio del mondo ha bisogno di schierarsi mentre guarda una partita, meno facile è capire come una simpatia temporanea per una nazionale d’adozione possa essere sublimata in vero e proprio tifo – che, non si può ignorarlo, nel caso dei mondiali corrisponde a una vera e propria identificazione con un paese che non è il proprio. Non si può infatti fare finta che le nazionali di calcio siano una squadra come le altre: non sono società sportive private. Se identificarsi in uno o in un altro club è sempre una scelta arbitraria, ben più complesso e difficile è riuscire a identificarsi con un’altra nazionale. In quel caso, la magia (o la stupidità) del tifo non bastano, così come non basta tutto il cosmopolitismo e il relativismo di tutte le filosofie del pianeta per sentirsi completamente a casa in un altro paese. Chi siamo possiamo sceglierlo, ci mancherebbe, ma entro i limiti imposti dalla realtà: in parte deriva anche, volenti o nolenti, dal luogo d’origine che invece non abbiamo scelto. Ed è esattamente questa differenza che eventi come le Olimpiadi o i Mondiali esaltano nello sport, il motivo per cui emozionano tanto anche chi generalmente non tifa mai: perché a differenza di tornei tra società sportive, mettono in campo quella parte di identità che ci appartiene a prescindere dalla nostra volontà. Cantava giustamente Giorgio Gaber: "Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono". Se non fosse così, perché organizzarli, perché viverli, i tornei tra nazioni?
Una grande contraddizione
Sia chiaro: sventolare bandiere estere è simbolicamente bellissimo. Ma in Albania non si tratta, temo, di un atteggiamento cosmopolita di marca "pacifista", si tratta dell’implicita e totale accettazione del fatto che i successi albanesi non sono nemmeno ipotizzabili, e che per essere felici è meglio delegare – non ai propri campioni, come avviene dai tempi dei colossei e delle giostre – ma a quelli degli altri. Quella cui si è assistito in occasione della vittoria della Germania è senza dubbio un’esterofilia basata sulla certezza (sbagliata!) della propria immodificabile esclusione dal successo. Se così non fosse, se davvero il tifo albanese fosse intrinsecamente cosmopolita al punto di accontentarsi di Mustafi che, memore delle proprie origini, mima sulla coppa l’aquila bicipite, allora giocatori come Mehmedi, Xhaka, Dzemaili e Shaqiri, cittadini svizzeri di origine albanese e kosovara, non sarebbero stati additati per tutta la fase delle qualificazioni come "traditori della patria ". Peccato che, con ogni probabilità, a deprecare la scelta di quegli atleti cresciuti all’estero sono quegli stessi tifosi che domenica 13 luglio si sono rovesciati in strada celebrando un altro paese . La verità, forse scomoda (ma assai più bella!) è che, al di là delle difficili condizioni economiche, l’Albania possiede una grande tradizione calcistica: così come la Bosnia è andata in Brasile, l’aquila rossonera ha tutte le carte in regola per volare in Russia nel 2018. Se ciò non avverrà, spiace dirlo, la responsabilità sarà anche di chi si accontenta di "fare il tedesco" (senza peraltro chiedersi come i tedeschi lo siano diventati).
PS: Un mio carissimo amico albanese è un ultras della Germania. Spero e credo che non si sentirà giudicato da questo articolo, il quale, è evidente, è un neanche troppo velato inno d’amore per l’Albania (il paese d’adozione di chi scrive!). Sia chiaro: ognuno tifa e festeggia quello che vuole. Ma bisogna ammettere che osservando dall’alto lo sventolio teutonico di domenica scorsa, Gjergji Gamberi avrebbe cantato così: "Io non sono tedesco, ma per fortuna o purtroppo stasera mi sento così".