Loro lavorano, noi ce la godiamo
Una ricerca condotta da Srdjan Radovic per l’Istituto Etnografico dell’Accademia serba delle scienze e delle arti evidenzia l’atteggiamento che i giovani studenti serbi hanno nei confronti dell’Europa e del proprio Paese. Nostra traduzione
Di Jovana Gligorijević, 22 novembre 2007, Vreme, (tit. orig. Oni rade, mi se radujemo
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Ivana Telebak
L’Europa è ricca, ha successo ed è economicamente forte, ha delle società stabili e ben organizzate. La Serbia non è sviluppata ed è povera, non è organizzata ed è corrotta. Dall’altra parte, gli europei guadagnano bene, ma lavorano troppo, sono concentrati sulla carriera, sono freddi ed alienati "Noi" siamo pigri, ma siamo socievoli, allegri, ospitali, sappiamo festeggiare e ci godiamo di più la vita. È così che vedono il proprio Paese e l’Europa gli studenti delle università e delle superiori della Serbia, come dimostrato dalla ricerca svolta all’interno del progetto "Indagine antropologica sulle comunicazioni nella Serbia contemporanea" per l’Istituto Etnografico dell’Accademia serba delle scienze e delle arti.
La ricerca, condotta su un campione di circa 400 studenti, per lo più di Belgrado, ha mostrato che i giovani in Serbia hanno un’opinione ambivalente e persino contraddittoria dell’Europa e dell’integrazione europea della Serbia. Nonostante l’opinione sull’avvicinamento all’Europa sia per lo più positiva, c’è un grande disaccordo fra la sua dimensione razionale e quella emotiva. Da una parte, i giovani vedono chiaramente la necessità di far parte delle vicende europee, mentre dall’altra c’è la paura di perdere la propria identità nazionale e culturale, che sfocia nella sfiducia, nel riserbo e persino nel rifiuto dell’Europa. Spiegando questa ambiguità, l’autore della ricerca, Srdjan Radovic dice a "Vreme" che uno dei motivi che porta a pensare in questo modo è dato dalla paura della globalizzazione che non è ben capita, perché la prima cosa a cui pensano gli studenti è la globalizzazione culturale e non quella economica, che invece rappresenta la sostanza di questo processo. "Ho notato che non intendono la globalizzazione in chiave economica. La globalizzazione prima di tutto è la fase temporanea, più veloce e più intensa del capitalismo e della modernizzazione mondiale, che prima di tutto sottintende la globalizzazione economica", dice Radovic, sottolineando che come globalizzazione gli studenti per lo più intendono ciò che nei vecchi discorsi est europei veniva inteso come "americanizzazione", dunque l’influenza dell’Occidente, la perdita delle tradizioni fino ad arrivare alla perdita dell’identità etnica e culturale: "Di fatto, tutto si riduce alla questione che i giovani non hanno una buona socializzazione nella transizione, ovvero che nessuno gli spiega cos’è la transizione".
Tra i problemi Radovic sottolinea che in Serbia si deve fare i conti con una transizione in ritardo, perché la seconda fase di transizione che nella maggior parte dell’Europa dell’est è iniziata già nella prima metà degli anni novanta, da noi è iniziata soltanto nel 2000, con i cambiamenti del cinque ottobre.
Considerando il fatto che le persone intervistate provengono in prevalenza da Belgrado, il che presuppone una situazione economico-sociale migliore rispetto al resto della Serbia, l’autore della ricerca è giunto alla conclusione che la paura che i giovani provano per il capitalismo non proviene dall’aver provato sulla propria pelle la transizione, ma è causata dal non sapere e dal non essere informati su cosa essa sia. "Vedo che loro in sostanza non capiscono cos’è la transizione e cosa deve accadere con essa. La mia opinione è che la causa di questa rappresentazione sia dovuta al fatto che non gli viene spiegata attraverso il sistema scolastico e attraverso i media. Acquisiscono l’immagine di una globalizzazione brutale, di un capitalismo brutale, un’immagine che in parte è vera, ma non è completa", dice Radovic.
La spaccatura
L’opinione che i giovani serbi hanno dell’Europa oscilla tra un’esagerata idealizzazione e il totale disprezzo, mentre è più rara un’opinione equilibrata. Circa il dieci per cento di loro ha un’immagine assolutamente positiva e idealizzata dell’Europa. Grosso modo la stessa percentuale degli intervistati ha un’immagine del tutto negativa e, secondo le parole di Radovic, usa lo stesso discorso antieuropeo che ha segnato l’ultima fase del governo Milosevic. La maggior parte degli intervistati ha una posizione che si potrebbe descrivere come una combinazione delle due precedenti: vedono l’Europa in una luce positiva per il suo alto standard di vita e per la forte economia, ma la gente in Europa conduce una vita frustrata per il troppo lavoro. Soltanto alcuni degli intervistati hanno un’immagine equilibrata dell’Europa.
Prendendo in considerazione queste opinioni in combinazione col fatto che la maggior parte degli intervistati è a favore dell’eurointegrazione della Serbia, una delle conclusioni della ricerca indica che gli intervistati "si sono spaccati sull’Europa". Questo termine indica che si tratta di una decisione presa con molta fatica. "Il termine ‘spaccarsi sull’Europa’ è stato impiegato dalla mia collega dell’Istituto di etnografia, la dott.ssa Mladena Prelic, nello svolgimento della ricerca che riguardava l’immagine pubblica delle integrazioni in Europa, e si riferiva all’élite politica", dice Radovic, aggiungendo che: "Se dovessimo chiedere in privato, la maggior parte dell’élite ci direbbe che non abbiamo bisogno dell’Europa. Non abbiamo un messaggio chiaro ed uniforme che dica ‘l’Ue è il nostro obiettivo’, piuttosto si tratta di un ‘bisogna farlo’". Secondo la sua opinione, la inclinazione europea dell’élite politica non è chiara a livello di comunicazione pubblica, quindi è normale che lo stesso si ripeta anche fra gli intervistati: "Quando un messaggio viene mandato in modo confuso, non riesce ad attecchire fra i riceventi, pertanto questa spaccatura sull’Europa anche quando accade, non spinge a vivere l’Europa come un simbolo esclusivamente ottimista."
Lo scopo di questa ricerca è vedere che opinione hanno i giovani serbi riguardo all’Europa e non in merito all’Unione europa. Comunque, si evince che fra gli intervistati la prima cosa che viene in mente pensando all’Europa è proprio l’Unione europea e che le risposte ricevute in realtà si riferiscono a quest’ultima. Per come immaginano l’Europa, gli studenti serbi non si sentono del tutto europei. Nelle risposte si notano chiaramente le distanze verso alcuni aspetti dell’Europa e le differenze fra "noi" e "loro", quindi non c’è un’identificazione della maggioranza.
Bianco e nero
Fra gli intervistati della ricerca ogni immagine positiva dell’Europa fa pendant con una caratteristica negativa della Serbia e viceversa. Per cui si ha l’impressione che le immagini dell’Europa siano generalmente costruite attraverso l’interpretazione della situazione che si vive in Serbia, senza uno sguardo diretto sul modo di vivere europeo. L’Europa ha un sistema organizzato, uno standard di vita alto e società organizzate, ma ha anche delle caratteristiche negative: gli europei hanno perso l’anima, lavorano troppo, non si divertono abbastanza e simili. Con queste contraddizioni, secondo l’opinione di Radovic, si arriva a neutralizzare l’immagine idealizzata dei sistemi sociali europei. In Serbia è il contrario: il sistema non va bene, c’è la corruzione, ma siamo allegri, socievoli e sappiamo vivere.
"Quando si mette insieme tutto questo otteniamo una rappresentazione generale: loro hanno un buon sistema, noi abbiamo un buon modo di vivere. Il problema dei nostri intervistati è la mancanza di esperienza dell’altro, non c’è interazione sociale con gli altri, pertanto è inevitabile guardare attraverso il proprio filtro interpretativo", ritiene Radovic, ricordando che l’idealizzazione della propria situazione è frequente, ma quanto sia esatta dipende dalla chiusura o dall’apertura del sistema culturale e sociale. Siccome i giovani serbi si trovano in una situazione in cui il loro soggiorno fisico all’estero viene misurato in giorni, sono nella condizione di non aver conosciuto bene e nemmeno aver vissuto alcuna interazione sociale con gli altri, quindi è inevitabile vedere gli altri attraverso il filtro interpretativo locale. "Proprio tale filtro diventa importante perché, in realtà, non sarà l’Europa a dar loro l’immagine dell’Europa, ma lo farà la Serbia. La loro percezione dell’Europa è più la cifra del rapporto che la maggioranza dell’élite ha verso l’Europa, che quella degli stessi intervistati", dice Radovic.
Oltre all’immagine dell’Europa, una cosa ancora più interessante è come i giovani vedono la Serbia. La passata dominante rappresentazione che sottolineava i valori spirituali e religiosi, della storia e dei miti, oggi cede il passo a indicatori più banali ma per questo molto più reali. Oggi, sempre più spesso vengono nominati i festival musicali, la grappa di prugne e i battelli come ciò che distingue la Serbia dagli altri paesi, piuttosto che la Chiesa o il Kosovo. Uno degli intervistati a questa domanda ha risposto in modo dettagliato elencando i seguenti termini: "grappa, botte, Guca, Exit, divertimento, feste". "Di contro al discorso eroico sui serbi che prevaleva un tempo, è molto più presente il gruppo di rappresentazioni che vede la Serbia come un Paese di vita passionale, di libertà dell’individuo e di godimento non limitato. Si nota che oltre ai soliti auto-stereotipi positivi tipicamente etnocentrici (che sono immanenti a qualsiasi gruppo sociale nella concettualizzazione della relazione rispetto agli altri), sempre più spesso emergono gruppi con rappresentazioni positive che "ci" percepiscono in chiave gioviale/vitale", si dice in uno dei lavori che hanno contribuito alla ricerca.
Svoltare verso Guca
Commentando questa svolta dal Kosovo verso Guca nella percezione del proprio Paese, Srdjan Radovic afferma che gli intervistati della ricerca sono nati alla fine degli anni ottanta e all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, e che quindi si tratta di generazioni che non hanno vissuto l’esperienza delle guerre e l’apice del nazionalismo. "Secondo me, oggi non abbiamo più una netta narrazione nazionalista. Non c’è più un’aperta propaganda. Tutto va un po’ di lato e in modo contorto, quindi questo tipo di messaggio culturale non è abbastanza forte per essere del tutto interiorizzato", dice Radovic e aggiunge che, per quanto la società serba sia isolata comunque non è del tutto chiusa, e la globalizzazione ha iniziato a prendere piede. "Più o meno, sono tutti consapevoli che il progetto di superiorità nazionale e della grande Serbia non è riuscito e che si tratta di una storia passata. Quando questo viene posto in contrasto all’Europa, i giovani capiscono che anche a livello locale questo tipo di impegno bellico e nazionale che abbiamo avuto negli anni novanta è comunque criticato, anche se non apertamente. Ma, non c’è più l’apologia del passato", sostiene Radovic.
Il motivo sostanziale per cui i giovani avanzano critiche banali secondo le quali la Serbia possa essere alla pari di altri paesi europei, Radovic lo individua , fra il resto, nella mancanza di consenso sulla storia nazionale, perché continuano ad esserci polemiche su che cosa possiamo appoggiarci e di cui possiamo andare fieri nella nostra storia. "Quando si tratta della storia, sembra che essa non sia qualcosa con cui poter essere competitivi in ciò che definirei il mercato dell’identità", dice lui. Radovic ricorda che le élite locali ad un certo punto dovranno "tagliare" quando si parla della storia e che dovrà essere chiaramente definito cosa nella nostra storia è positivo. Considerando il fatto che la nostra società ha posizioni ambivalenti anche rispetto al proprio recente passato, è inevitabile che appaiano come indicatori significativi rispetto agli altri le cose quotidiane e gioviali, poiché la comunicazione pubblica non offre niente altro.