Lo status del Kosovo
Abbiamo incontrato a Pristina Shkelzen Maliqi, direttore del Centro per gli Studi Umanistici "Gani Bobi" e noto intellettuale albanese. Maliqi parteciperà al convegno annuale di Osservatorio sui Balcani, "L’Europa dei protettorati", che si terrà il 3 e 4 dicembre prossimi a Venezia
Quanto è importante per il futuro del Kosovo la soluzione della questione dello status?
E’ importante, perché senza risolvere questa questione non se ne possono risolvere altre che sono vitali e che sono in qualche modo collegate, come quella dello sviluppo economico ad esempio. Non ci si può muovere più velocemente sulla strada delle privatizzazioni, non si possono prendere decisioni strategiche di lungo termine senza risolvere prima la questione dello status.
Quindi ha ragione chi afferma che senza risolvere la questione dello status tutto il resto è bloccato…
In molti aspetti sì, siamo bloccati. Anche gli ostacoli maggiori, come le relazioni interetniche, non possono essere affrontati senza la soluzione della questione dello status. Ad esempio non si può avere una piena partecipazione delle minoranze nelle istituzioni del Kosovo, specialmente di quella serba, perché la loro partecipazione è condizionata dall’avere una situazione chiara relativamente allo status.
Che peso ha l’argomento "status" nella campagna elettorale in corso?
Secondo i sondaggi realizzati nel corso dell’ultimo anno, l’argomento "status" è sentito come importante dai cittadini, ma non come l’unica questione di rilievo. Ci sono altre problematiche come quella dell’economia, della povertà e della disoccupazione, che sono ormai in cima alla lista delle paure e preoccupazioni della gente. La questione dello status viene dopo, nel senso che tutti vogliono che sia risolto, ma i partiti politici hanno inserito nella propria campagna elettorale anche altre questioni, come quella dello sviluppo, il fatto che ci sono sempre meno soldi a disposizione, meno prospettive…
La comunità internazionale guida il Kosovo da ormai cinque anni. Le risorse investite in termini finanziari e di personale sono enormi. Quali sono i risultati?
All’inizio si pensava che questa missione sarebbe durata molto di meno, all’incirca tre anni. E nei primi tre anni, in effetti, si sono registrati dei risultati in aree molto concrete, quali la ricostruzione delle proprietà distrutte nel corso della guerra e la creazione di istituzioni locali e di una amministrazione. Per quanto riguarda i primi tre anni si può quindi dare una valutazione positiva, alcune cose sono state fatte bene. Dopo questa prima fase, tuttavia, ci sono stati altri due anni che sono consistiti semplicemente nel guadagnare tempo, nell’enunciare principi retorici, nel parlare a vuoto di trasferire più velocemente il potere alle istituzioni locali. Ci sono stati anche problemi all’interno della comunità internazionale nel decidere come proseguire, come risolvere il problema del Kosovo, c’è stata la trasformazione della Jugoslavia che nel frattempo è diventata Unione Serbia-Montenegro, una creazione a breve termine, che durerà tre anni. Bruxelles ha fatto pressioni per imporre il matrimonio tra Serbia e Montenegro, per capire cosa succederà con il Kosovo bisognerà anche vedere quale sarà il futuro di questa Unione. L’anno prossimo verosimilmente il Montenegro andrà verso l’indipendenza. Contemporaneamente dovrà esserci un processo per risolvere lo status del Kosovo.
Cosa accadrebbe se tutti gli internazionali che sono qui dovessero partire domani?
Ci sarebbero quasi immediatamente tensioni molto forti o la guerra, specialmente senza le forze militari, la Kfor. Non è possibile pensare ora ad un ritiro delle forze militari, della amministrazione civile e delle altre missioni internazionali.
Il 17 marzo scorso il Kosovo è stato attraversato da una ondata di violenza rivolta contro le minoranze. Si è trattato semplicemente di un scoppio improvviso e non organizzato, legato a quanto era avvenuto a Mitrovica e all’episodio dei tre ragazzini?
Si è trattato di una eruzione improvvisa.
Lei non pensa che si sia trattato di una operazione organizzata?
Sì, c’erano anche elementi organizzati ma principalmente si è trattato di una rivolta spontanea della gente e io non vedo forme di prosecuzione. L’impatto è stato estremamente negativo, ma ci sono anche stati degli aspetti positivi. Dopo il 17 marzo i diversi attori hanno ripreso più seriamente in considerazione le rispettive strategie, sto parlando sia degli internazionali che dei locali. Cioè si è trattato di un episodio estremamente negativo e triste, ma ha coinvolto solo una minoranza di persone.
Però la questione del Kosovo è scomparsa dalla attenzione internazionale e il nuovo rappresentante delle Nazioni Unite non sembra per il momento dire niente di nuovo rispetto al suo predecessore …
Le lezioni apprese non sono ancora state presentate in maniera pubblica, ma ci sono molte cose che stanno venendo discusse a livello di grandi potenze, di gruppo di contatto. Da maggio le grandi potenze hanno deciso di riattivare il gruppo di contatto più un nuovo organismo che si incontra qui in Kosovo.
Qual è la situazione dei Serbi che vivono in Kosovo dopo il 17 marzo?
Le principali vittime di questi eventi sono le persone che due anni fa hanno deciso di ritornare a vivere in Kosovo, alcuni di loro sono rimasti scioccati e impauriti, così come i rifugiati che stavano cominciando a pensare ad un possibile ritorno, hanno nuovi dubbi e vogliono garanzie sia dalla comunità internazionale che dalle istituzioni locali per la loro sicurezza. Esiste un sentimento di insicurezza, anche indipendentemente dagli eventi di marzo. Senza risolvere la questione dello status, senza avere un elevato livello di democrazia, una amministrazione e forze di sicurezza più stabili, non c’è una fondamentale sicurezza per le minoranze, sia per i Serbi che vivono in aree popolate da Albanesi come anche per gli Albanesi che vivono a Mitrovica nord o in enclaves serbe, ad esempio a Strpce, la enclave serba più a sud, dove i Serbi non lasciano agli Albanesi spazi di accesso alle scuole. Laddove ci sono tensioni tra maggioranza e minoranze, ci sarà un sentimento di insicurezza. Gli Albanesi hanno in generale una responsabilità maggiore nel mantenere l’ordine, ma anche tra gli Albanesi non c’è la capacità di controllare gli estremisti, non ci sono ancora istituzioni stabili.
La comunità internazionale rimprovera gli attori locali e viceversa. Non è chiaro dove risieda la responsabilità per quanto accade.
Una delle lezioni che dovremmo apprendere dagli eventi di marzo è questa: non c’è stata cooperazione tra le forze internazionali e i locali. Ora si è migliorato in parte ma non del tutto. Ci sono ancora divisioni e settori in cui non si coopera, e ci auguriamo che il nuovo capo della amministrazione potrà sviluppare questa partnership. Dopo le elezioni ci aspettiamo un veloce trasferimento di competenze alle istituzioni locali, la creazione di unità di sicurezza e un maggiore accesso alle strutture dell’intelligence da parte dei locali.
Lo straniero che visiti Pristina rimane colpito dai molti simboli che sottolineano l’attaccamento degli Albanesi del Kosovo agli Stati Uniti d’America, come il boulevard Bill Clinton o la copia della Statua della Libertà. Sembra esserci un legame molto forte anche a livello simbolico. Il futuro del Kosovo è guardare verso Washington o verso Bruxelles?
Io credo più verso Bruxelles, ma per il momento Bruxelles non è unanime, ha molti problemi interni. A causa del ruolo svolto dai diversi Stati nel corso degli anni ’90, qui c’è ancora un grandissimo rispetto per l’America, in particolare per le amministrazioni precedenti. L’amministrazione Bush non è così coinvolta in Kosovo, ma allo stesso tempo la rappresentanza americana qui a Pristina è sempre molto attiva e ha una maggiore influenza nei confronti di entrambe le parti, sia quella serba che quella albanese, degli Europei. Gli Europei hanno deciso solo dopo gli eventi di marzo di avere un rappresentante di Solana, ma Solana non ha un potere tale all’interno dell’Unione Europea da poter eguagliare l’influenza esercitata dagli Americani.