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La Turchia dei rifugiati
Secondo le ultime stime dell’UNHCR, circa 1.770.000 rifugiati hanno raggiunto la Turchia dal 2011 ad oggi. Alla loro situazione dedichiamo un reportage, tra Istanbul, Diyarbakir e Urfa. La prima puntata
Adnan espira in uno sbuffo il fumo della sua sigaretta, lo sguardo rivolto alle persone e alle auto che scorrono nella stretta e trafficata strada nel quartiere Tarlabaşı, a Istanbul. “Sono arrivato in città da pochi giorni, in cerca di nuovi compratori”, comincia a raccontare. “Dopo aver abbandonato Damasco quattro anni fa, abbiamo riaperto l’attività di famiglia a Gaziantep. Commerciamo spezie.”
La famiglia di Adnan fa parte di coloro che quattro anni fa avevano mezzi e contatti per emigrare dalla Siria, lasciando un paese in cui le violenze cominciavano a farsi brutali ed estese. Agli albori della tragedia, quella di Adnan è una famiglia che si può considerare benestante, rispetto alle centinaia di migliaia di persone che, negli anni successivi, sarebbero fuggite dalle proprie case prive di ogni mezzo e con il solo istinto di sopravvivenza a spronarli verso la salvezza. “Tornare in Siria? No. Non esiste più alcuna Siria”. Dice Adnan a mezza voce, con la fatica di chi cerca di accettare una cruda, dolorosa verità.
Secondo le ultime stime dell’UNHCR, circa 1.770.000 rifugiati hanno raggiunto la Turchia dal 2011 ad oggi. Ad essi se ne aggiungono circa 100.000 dall’Iraq, altro paese squassato dalla guerra. Cifre che riguardano soltanto coloro che sono stati registrati, mentre stime non ufficiali di diverse Ong riferiscono che si è ormai ampiamente superata la soglia dei 2.000.000: il 3% dell’intera popolazione. Numeri che fanno impallidire la cosiddetta “invasione” in Europa e fanno della Turchia il paese che, insieme al Libano, più si è fatto carico della tragedia umanitaria scaturita dal caos siriano e iracheno, con un costo complessivo per le casse dello stato calcolato a novembre 2014 in 4 miliardi e mezzo di dollari.
A rendere più complicata la situazione anche le scelte politiche del governo di Ankara, che ufficialmente non riconosce a queste persone lo status di rifugiati: li considera invece “ospiti” e ha attivato un programma di accoglienza basato su tre principi: apertura dei confini a chiunque voglia trovare rifugio, nessun rimpatrio forzato, registrazione da parte delle autorità turche e sostegno all’interno dei campi governativi. Tuttavia, soltanto circa 220.000 persone sono ospitate all’interno di questi campi e una cifra ancora minore in quelli istituiti dalle autorità locali. Gran parte vive quindi per le strade delle grandi città o nei villaggi lungo il confine meridionale.
La scelta del governo turco, dettata dalla volontà di tenere le mani libere da ingerenze internazionali nella gestione della crisi siriana, ha suscitato non poche perplessità. L’assenza dello status di rifugiato, infatti, impedisce di inoltrare domanda di asilo politico, con il risultato che la maggior parte dei rifugiati vive in un limbo giuridico che trasforma i campi di accoglienza in prigioni da cui non si può uscire.
Istanbul
In un contesto di tale emergenza, la prima questione da affrontare è fornire beni di prima necessità ai rifugiati. Tra le numerose ONG impegnate sul territorio allo scopo di aiutare i rifugiati c’è Support to Life (StL), organizzazione turca con cui Osservatorio Balcani e Caucaso ha collaborato in passato. Aslı Arslan lavora nella sede principale, quella di Istanbul: “Support to Life opera in questa città e in altre nel sud come Diyarbakır, Batman, Şanlıurfa e Hatay. Ci occupiamo di procurare aiuti a quei rifugiati che non vivono nei campi governativi o municipali, luoghi dove come Ong non possiamo operare. Lavoriamo sia con arabi siriani che con curdi e yazidi, gruppi che, dopo anni di conflitto, hanno maturato un forte risentimento reciproco e una totale mancanza di fiducia nell’altro; ricostruire questi rapporti fa parte del nostro lavoro, ma soprattutto l’emergenza ci impone di occuparci di cibo, coperte, servizi igienici, cerchiamo di migliorare le condizioni delle tende, spesso inadeguate ad affrontare il freddo rigido dell’inverno. Abbiamo avviato anche altre attività, come l’insegnamento linguistico o l’assistenza psicologica. Questa gente porta con sé gli orrori della guerra e per poter provare a ricominciare è necessario anche un aiuto di questo tipo, naturalmente dopo aver riempito la pancia”.
Nell’area metropolitana di Istanbul si stima risiedano oltre 300.000 rifugiati. Poiché non esistono campi di accoglienza, chi può vive in case affittate spesso in condizioni fatiscenti, altri in edifici dismessi o direttamente in strada. Tra i rifugiati si trovano coloro che stanno provando a rifarsi una vita oppure quelli che che non hanno più le forze e le risorse per continuare, e vivono di espedienti per le strade della città. Per molti di loro però Istanbul è solo l’ultimo passaggio in territorio turco verso l’Ue, e tenteranno di varcare la frontiera con la Bulgaria o la Grecia. Questi ultimi hanno in genere parenti o amici ad attenderli in Europa. In entrambe i casi, si tratta di persone che non hanno intenzione di tornare in Siria.
Aysu Kiraç è la responsabile di StL per i progetti ad Istanbul: “Prima di offrire il nostro sostegno, avviamo un’attività di valutazione per individuare i gruppi familiari più vulnerabili: la presenza di minori, anziani o invalidi, oppure l’assenza di fonti di reddito. Dato il budget limitato, è a questi gruppi che rivolgiamo la nostra attenzione. Abbiamo avviato un progetto pilota per fornire ad ogni famiglia una carta prepagata, su cui mensilmente carichiamo del denaro da spendere in negozi di beni di prima necessità con cui abbiamo stipulato delle convenzioni. L’idea è che sia meglio lasciare alle famiglie la libertà di decidere cosa acquistare e in che quantità, con al contempo attività di monitoraggio per essere certi che il denaro non venga speso per beni superflui, ma anche per tutelare le famiglie da coloro che tendono ad approfittare della situazione”.
Aysu ci spiega anche qualcosa sui rapporti con il governo, non sempre facili. “Certamente c’è un piano di collaborazione, è necessario uno scambio di informazioni; tutte le nostre attività devono essere approvate dalle istituzioni e sono il frutto di un lungo lavoro di diplomazia e compromessi. Di recente le cose si sono un po’ complicate, il governo ha emanato un decreto che impedisce a università, media e altre organizzazioni di fare ricerca sulla situazione dei rifugiati senza un esplicito permesso ministeriale. Al momento non c’è alcuna possibilità di fare domanda, tutto è stato sospeso in vista delle elezioni [le parlamentari dello scorso 7 giugno, N.d.R], ma sono fiduciosa nel credere che presto verranno riaperti i canali di comunicazione”.
Le conseguenze sul tessuto sociale ed economico del paese dovute all’arrivo di centinaia di migliaia di persone in fuga sono state analizzate da una recente ricerca della ONG ORSAM (Ortadoğu Stratejik Araştirmalar Merkezi – Centro Studi Strategici Mediorientali), che ha evidenziato come, tra le tante difficoltà, si possono trovare anche occasioni di sviluppo, economico e non solo.
Le condizioni di estrema precarietà e povertà dei rifugiati determinano situazioni di grave disagio. Tra i principali problemi di ordine sociale sono stati riscontrati difficoltà di integrazione a causa delle differenze linguistiche, uno sviluppo urbano incontrollato legato al riutilizzo di edifici abbandonati o alla comparsa di rifugi di fortuna, l’aumento del numero dei mendicanti, il rischio di ghettizzazione, la preoccupazione per le prospettive a lungo termine a causa del mancato accesso al sistema educativo per i giovani e a causa delle generali condizioni di vita precarie, che possono potenzialmente alimentare l’illegalità.
Lo studio ORSAM
Tuttavia, il rapporto ORSAM sottolinea l’assenza di episodi di violenza rilevanti, a dimostrazione che le varie comunità sul territorio hanno finora saputo instaurare buoni rapporti di cooperazione. Le questure non hanno rilevato alcun significativo aumento dei tassi di criminalità ed i siriani sono generalmente le vittime in quei casi che li vedono coinvolti. Il processo di integrazione, pur tra mille difficoltà, appare avviato: dall’inizio della guerra sono nate in Turchia oltre 35.000 persone di origine siriana, i matrimoni tra turchi e siriani sono in costante aumento, così come in aumento sono i siriani in grado di parlare la lingua turca.
Tra gli effetti negativi sul sistema economico, nelle aree in cui si concentrano i rifugiati lo studio registra un aumento del prezzo degli affitti e una crescita dell’inflazione superiore alla media nazionale. Inoltre si riscontrano un aumento del lavoro irregolare e minorile, in particolare nei settori edile e agricolo e in generale nelle piccole attività, problemi di competizione scorretta tra aziende che impiegano o meno manodopera priva di contratto, e una diminuzione dei salari medio-bassi. Tra i benefici, il rapporto indica come i lavoratori siriani abbiano dato risposta ad una preesistente domanda di manodopera e abbiano in genere ricoperto incarichi non desiderati dalla popolazione locale, sfatando la falsa percezione dello straniero che sottrae opportunità di impiego. Numerose imprese nazionali sono state positivamente coinvolte nella gestione degli aiuti, specialmente nei settori alimentare, farmaceutico e tessile. Inoltre imprenditori provenienti dalle città siriane, Aleppo in particolare, hanno trasferito le proprie attività in Turchia, come dimostrato dall’incremento delle attività di proprietà di siriani registrate presso le camere di commercio.
“Il contrasto allo sfruttamento del lavoro minorile è un’altra attività a cui StL si è particolarmente dedicata” continua a raccontare Aslı. “Abbiamo cercato di ottenere l’appoggio delle istituzioni e di altre ONG per monitorare e combattere il fenomeno. I migliori risultati li abbiamo però ottenuti sul campo, con il sostegno al reddito e al benessere delle famiglie. Dopotutto, nessun genitore manda i propri figli a lavorare, se può evitarlo: è la disperazione a spingere i bambini nelle strade e nei campi.”
Si cerca, per ora con pochi risultati, anche di sostenere lo sforzo educativo. La scuola e l’università sono mezzi di crescita personale e di integrazione sociale, per allontanare lo spettro di una generazione che, dopo aver visto il proprio passato e il proprio presente sbriciolarsi tra le bombe, rischia di non avere neppure alcun futuro. Un problema di primaria importanza, se si considera che i giovani in età scolare (5-17 anni) rappresentano un terzo del totale dei rifugiati.
Una delle poche note liete ad oggi riguarda le università turche, che accettano studenti in passato iscritti alle università siriane, consentendo così il proseguimento degli studi; bisogna tuttavia aver portato con sé documenti adatti a provare la propria carriera accademica.
La situazione di milioni di persone in fuga da un paese sconvolto da quattro anni di caos, guerra e violenze, si presenta quindi quantomai drammatica. Da un lato il bisogno di dare subito risposta alle più elementari necessità: mangiare, vestirsi, un tetto sopra la testa; dall’altro il problema di un futuro difficile da prevedere o anche solo da immaginare.