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La Serbia di oggi

I rapporti tra stato e chiesa, il nazionalismo, il Kosovo, gli orientamenti politici della Serbia di oggi, in un’intervista ad uno dei più noti intellettuali della ex Jugoslavia, l’etnologo serbo Ivan Colovic. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

10/04/2006, Redazione -

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Ivan Colovic (foto di A. Marcolini)

Di Adriana Marcolini, da Belgrado

Ricercatore dei miti della Serbia, Ivan Colovic è un sagace critico dell’uso politico che ne è stato fatto lungo gli anni Milosevic – uno dei fattori che a contribuito a far sì che la Serbia si imbarcasse in una serie di conflitti disastrosi negli anni ’90. Ricercatore in pensione dell’Istituto di Etnografia dell’Accademia Serba di Arte e Scienze, traduttore della lingua francese e curatore della collana di antropologia Biblioteca del Secolo XX, Colovic sottolinea uno dei principali ostacoli che si pongono nel tragitto della Serbia Montenegro verso la democrazia: la persistenza dei culti e dei miti nazionalisti, oppure, come lui afferma, la "politica del simbolo".

Lei crede che oggi nella società serba ci sia un conflitto fra una forza progressista, favorevole all’avvicinamento all’Europa, e una forza nazionalista, con tendenza a chiudersi e rifiutare l’idea di un futuro ingresso nell’Unione Europea?

Sì, è possibile affermare questo, però fra queste due tendenze ci sono diverse varianti che conferiscono varie gradazioni allo spazio politico serbo-montenegrino. Perciò è meglio dire che questo scenario è diviso, complicato, con varianti che vanno dall’estrema destra all’estrema sinistra. Tutti i tipi di opzioni sono oggi presenti, con una tendenza predominante portata avanti dalla destra.

Perché?

Perché abbiamo avuto 50 anni di regime comunista e dopo questo periodo la tendenza è quella di incamminarsi verso destra. Dopo il comunismo, siamo entrati in un periodo definito da una più forte presenza del clericarismo e del nazionalismo. Qualche volta questo nazionalismo è di estrema destra, del tipo etnico e sciovinista; qualche volta può avere forme più legalizzate e legittime e rappresentare un conservatorismo politico, il tradizionalismo – questo corrisponde ai partiti politici di destra in Europa e nel mondo in generale.

Si può affermare che l’attuale governo serbo sia di tendenza nazionalista?

Possiamo affermare che questo governo si inserisce in una destra conservatrice e tradizionalista, che ha rapporti molto buoni con la Chiesa Ortodossa e che vuole rappresentare questa "Serbia profonda", popolare, tradizionale. Allora, se c’è un’ideologia dietro questo governo, questa è di una destra tradizionale, conservatrice, e che alle volte ha la tentazione di incamminarsi troppo verso destra.

C’è oggi in Serbia una rinascita della Chiesa Ortodossa e della religione nella società?
Sì, durante il periodo comunista la Chiesa era marginalizzata. Dopo il crollo del comunismo, acadde questo fenomeno che, in qualche modo, ci si aspettava: una nuova presa di posizione delle chiese. In Serbia la più importante è, tradizionalmente, la Chiesa Ortodossa, essa si collega all’idea di cosa sia la nazione serba. È a questo punto che intervengo con la distinzione fra il nuovo ruolo della Chiesa, della religione, e quello che ho chiamato la presenza, l’inserzione della religione politica, che esercita la sua influenza sul culto della nazione. Perciò, oggi, dopo il crollo del comunismo nell’ex-Jugoslavia, e non solo in Serbia Montenegro, ma anche negli altri paesi che sono nati dopo la dissoluzione della Jugoslavia, c’è la presenza, con il nazionalismo, di un’idea quasi religiosa della nazione. I monumenti storici vengono adorati come se fossero santuari, i luoghi sacri della nazione. La nazione è divinizzata. La Chiesa Ortodossa serba, la Cattolica in Croazia e l’Islamica in Bosnia Erzegovina partecipano alla creazione di queste ideologie, di queste religioni politiche che celebrano la nazione. A mio avviso è molto importante osservare che le chiese non prendono posizione per difendere elementi della religione, ma partecipano, collaborano alla formazione del complesso che io chiamo "la religione politica della nazione", con i miti, i rituali, le commemorazioni che sono destinate a celebrare la nazione, e non Dio. È il nazionalismo, è un tipo di religione laica, secolare.

Com’era la situazione delle chiese prima delle guerre degli anni ’90?

Nel programma del Partito Comunista, la religione veniva trattata come un veleno che bisognava, in qualche modo, analizzare, comprendere, e contro il quale bisognava combattere. Questo era il contesto comunista. Dopo il crollo del comunismo, le chiese, nel tentativo di riaffermare il loro ruolo nella società, hanno interpretato la separazione fra Stato laico e Chiesa come un’eredità del periodo comunista. È una strategia che loro hanno adottato dicendo che questa separazione, questa assenza negli affari pubblici, è un’eredità del comunismo. Perciò, le Chiese di solito rifiutano l’idea che la separazione fra Stato laico e Chiesa sia una componente della democrazia. Ma questa separazione non ha niente a fare col comunismo.

Questa ideologia che lei chiama ‘religione politica della nazione’ viene insegnata nelle scuole?

Da una parte c’è la richiesta della Chiesa Ortodossa di introdurre l’insegnamento religioso nelle scuole – cosa che è già in corso. C’è, quindi, una contraddizione fra la Costituzione di uno Stato laico e l’introduzione di lezioni di religione nelle scuole pubbliche. Dall’altra parte, c’è la presenza di argomenti e interpretazioni che si avviano verso un’ideologia nazionalista. Ci sono due tipi di nazionalismo: quello laico e quello difeso dalle Chiese. In ogni caso, è preoccupante vedere l’insegnamento religioso penetrare nelle scuole pubbliche.
L’ideologia nazionalista, bisogna notare, è presente dappertutto, nei media, nelle scuole, nella letteratura, nel folclore. Questo è un’altro problema che si riferisce alla ristrutturazione della nazione, un nuovo modo di comprendere la nazione e l’identità nazionale – la quale non dovrebbe essere concepita come un’identità minacciata dai vicini, dalle forze straniere e dai ‘grandi piani’ sempre diretti contro il ‘nostro povero popolo’. È un repertorio di potere che prende legittimazione per proteggere il popolo contro questi pericoli. Possiamo trovare questo nei media, ma non esplicitamente, il linguaggio dell’odio non viene trasmesso direttamente, ma fra le righe, nel modo di trattare un argomento, nel vocabolario, nei codici.

Nei mercati di Belgrado sono venduti calendari del 2006 illustrati con fotografie di Radovan Karadzic e Ratko Mladic, i due criminali di guerra serbi più ricercati dal Tribunale delle Nazioni Unite per l’ex-Jugoslavia. Loro sono considerati eroi da una parte della popolazione serba?

Ci sono persone che si approfittano e producono dei miti su questi cosiddetti eroi di guerra. Loro si approfittano dal punto di vista economico e politico. C’è l’estrema destra che presenta Karadzic e Mladic ed altri cosiddetti eroi di guerra nel contesto di una tradizione della storia serba che dice così: "Guardate, sono i nostri nuovi eroi, sono gli stessi eroi della nostra grande storia del secolo XIX." Però l’attuale Stato serbo e il sistema giuridico non proibiscono questo tipo di pubblicazione o di musica in loro onore. Qualche volta, e questo è un problema, si può vedere tutto questo in luoghi dove non ci aspetteremmo di trovarlo. Per esempio nei cortili delle caserme dell’Esercito ci sono concerti di cantanti della poesia epica serba. Durante questi concerti sono venduti nastri con canzoni che celebrano Karadzic e Mladic.

Lei crede che questo dovrebbe essere vietato?

Credo di no, perché se cominciamo a vietare queste cose, allora non so dove andremo a finire. Quello che, secondo me, dovrebbe essere vietato sono i piccoli gruppi e partiti politici che fanno riferimento al fascismo, al nazismo, all’anti-semitismo. Credo che in questi casi abbiamo bisogno di una politica più restrittiva. Ma dove si tratta di un folclore politico, io mi domando se non sia soltanto il riflesso di certe idee lanciate dagli uomini che appartengono alla cosiddetta "élite culturale". Se cominciamo a vietare questo, possiamo finire come Platone che, al suo tempo, chiese il controllo severo della produzione dei poeti greci perché pensava che avrebbero dovuto chiedere il permesso dei filosofi e dello Stato.

Ci sono dei partiti politici in Serbia che si ispirano al fascismo?

Un rapporto di polizia recentemente pubblicato rivela l’importanza dei gruppi di estrema destra, filo-fascisti e filo-nazisti, nella regione della Vojvodina, nel nord della Serbia. Il rapporto informa sull’esistenza di quattro piccole organizzazioni, tre delle quali sono internazionali. Questo rapporto è stato fatto dopo che, all’inizio del novembre 2005, un gruppo chiamato Fronte Nazionale è entrato durante una conferenza contro il fascismo che si svolgeva all’Università di Novi Sad, e ha aggredito diversi partecipanti. La polizia è intervenuta e ha arrestato gli aggressori. Però abbiamo il Partito Radicale, che ha buoni rapporti con il Fronte Nazionale, di Jean-Marie Le Pen, in Francia, così come con i suoi analoghi di estrema destra in Austria e in Russia. In questo paesaggio politico, tali partiti radicali si trovano all’estrema destra. Affermare che sono filo-fascisti oppure filo-nazisti può essere inesatto, però l’estrema destra è l’unica che propone, assai spesso, la revisione della storia della Seconda Guerra Mondiale. È quello che ha fatto Le Pen, che è stato nominato cittadino onorario di Zemun, una città vicina a Belgrado amministrata dal Partito Radicale.

La Serbia si trova in un momento delicato a causa dei negoziati sul futuro del Kosovo. Il governo di Belgrado dice di non accettare l’indipendenza della provincia, ma la popolazione kosovara e le autorità esigono il contrario. A suo avviso, discutere l’eventuale perdita del Kosovo significa mettere in questione l’identità serba?

É vero che, storicamente, il Kosovo è molto importante per la formazione dell’identità nazionale serba. Esistono ancora in Kosovo molti monasteri che sono serbatoi della memoria collettiva nazionale, simboli della nostra identità, però esiste anche un simbolo molto importante dell’identità serba che si trova in Grecia, ed è il monastero di Hilandar. Lo cito per spiegare che questo ruolo importante di serbatoio della memoria non dipende dalla presenza di questo luogo nel territorio nazionale. Perciò, se parliamo dell’importanza simbolica del Kosovo, questa può continuare ad essere la stessa anche dopo l’indipendenza della provincia – che si manterrà come la terra sacra dei serbi. Lo sanno tutti, i serbi hanno già perso il Kosovo. Da circa dieci anni questa perdita è formale, ora manca soltanto la parola indipendenza. Ma questo succederà, è evidente. È stato Milosevic a perdere definitivamente questo territorio.

Però molti serbi lamentano profondamente un’eventuale indipendenza del Kosovo perché lì si trova proprio la culla della nazione…

Loro confondono le due cose. Nessuno vuole togliergli questo legame storico. Se ci sarà l’indipendenza di fatto, allora sarà anche più facile viaggiare in Kosovo per venerare questi centri della memoria nazionale. Oggi, a causa del conflitto, per un cittadino serbo è quasi impossibile visitare il Kosovo. Inoltre, il Kosovo è stato quasi sempre un luogo sconosciuto per la maggioranza dei serbi. Pochi si sono trasferiti a Pristina, quando questo era ancora possibile. Pochi sono andati a conoscere i monasteri. Perciò, senza voler ridurre l’importanza di questi centri della memoria nazionale, si può affermare che questo è un discorso politico, che pare avere molto valore per i politici. Per loro è difficile incontrare una soluzione perché temono di perdere il potere se dicono che tutto va bene e che permetteranno l’indipendenza del Kosovo. Per il momento non c’è nessun politico che possa dire apertamente che abbiamo perso molto tempo ed energia con questa situazione e che adesso è più importante trovare rapidamente una soluzione. Bisogna finire presto questi negoziati, accettarne la necessità nel contesto della presenza della comunità internazionale, che dovrebbe garantire la vita normale della popolazione del Kosovo. Ma l’indipendenza è già un fatto.

Nel suo libro The Politics of Symbol in Serbia lei cita l’affermazione di Velmar-Jankovic, secondo la quale fra tutte le regioni dell’Europa, i Balcani sono la meno europea. Cosa ne pensa?

Ho citato l’affermazione di questo autore dell’inizio del secolo XX come esempio di questa doppia prospettiva, nella quale ci identifichiamo qui nei Balcani. Da una parte sosteniamo di essere i più europei d’Europa perché viviamo in una regione dove è nata l’idea di Europa, cioè, nei Balcani si trovava l’antica Grecia. Dall’altra parte affermiamo: "No, siamo i meno europei, non vogliamo l’Europa, siamo anti-occidentali." C’è, dunque, questa doppia percezione del discorso sui Balcani e sull’Europa e i suoi rapporti con questa regione, perché ci sono due tipi di argomenti. Affermiamo, ad esempio: "Non siamo europei perché l’Europa è decadente e futile, ha dimenticato le sue radici e fonti d’ispirazione." Dall’altra parte diciamo ancora: "Siamo proprio europei, non siamo in Oriente." Questo dipende dal contesto. Ogni ex-repubblica jugoslava vuole essere più europea dell’altra, a cominciare dalla Slovenia, a nord, che dice: "Siamo europei e al sud della Slovenia cominciano i Balcani." Anche i croati affermano che i Balcani cominciano al sud della Croazia; e i bosniaci dicono che i Balcani incominciano ad est della Bosnia. I serbi affermano che i Balcani incominciano in Albania. Perciò, questi sono i giochi delle immagini, sono i discorsi che bisogna analizzare con attenzione. Non siamo in un’epoca in cui ci sono idee che prevalgono, idee dominanti che dovrebbero essere disfatte. Bisogna stare attenti a tutti i tipi di proponimenti, a tutti i tipi di discorsi, che sono frammentati e diffusi nel campo della comunicazione. E questo non è un compito facile … come fare per orientarci? È per questo motivo che, nel mio libro, ho dovuto analizzare documenti molto banali come testi di giornali, dichiarazioni secondarie, con lo scopo di ricostruire l’immagine di una costellazione formata da piccole idee che ci fanno vedere cos’è la mitologia politica e come le cose si producono e si consumano in fretta nel campo della comunicazione.

Lei pensa che, dopo i conflitti degli anni ’90 e della politica della pulizia etnica sostenuta apertamente dagli ex-dirigenti della Serbia, il confronto con il proprio passato sia difficile per i serbi?

Per quanto riguarda il confronto di un popolo con il suo proprio passato recente, c’è una differenza in relazione alla storia della Seconda Guerra Mondiale, il Tribunale di Norimberga ed il dopoguerra in Germania. Perché la Seconda Guerra è finita con una rottura, una separazione molto formale fra gli sconfitti e i vincitori. Questo era anche chiaro dal punto di vista morale ed etico. Mentre le guerre nell’ex-Jugoslavia non sono finite in questa maniera. Il Tribunale Penale dell’ONU per la Jugoslavia, ad esempio, cerca i criminali di guerra che sono stati arruolati in tutte le parti coinvolte nei conflitti, a differenza del Tribunale di Norimberga, che non cercava criminali di guerra fra gli alleati. Questa differenza porta un nuovo problema molto serio, che è l’identificazione dei responsabili nella mente collettiva nazionale. Perciò, non è più la responsabilità collettiva, di tutto un popolo, che è in gioco, ma domandiamo che ogni nazione, che ogni popolo prenda le distanze da determinate persone. Il mondo ha chiesto che i nazisti si "denazificassero" come allora si diceva, mentre qui si chiede semplicemente che noi identifichiamo i criminali di guerra e, contemporaneamente, che lasciamo gli altri tranquilli, anche quelli che hanno partecipato alle guerre. Abbiamo anche questo esempio, che è nuovo: i serbi hanno conquistato uno Stato – la Republika Srpska – nel contesto del dopo guerra in Bosnia Erzegovina. È un territorio quasi autonomo, che è stato creato da Karadzic e Mladic. Ma questo è un risultato della guerra, accettato dall’Accordo di Dayton. Quello che però non possiamo accettare sono i crimini di guerra. E questa è una grande differenza rispetto alla Seconda Guerra Mondiale e le responsabilità di queste guerre.

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