La città rosa
Yerevan, un anno dopo. Le voci dal carcere delle persone ancora detenute per gli incidenti del primo marzo 2008, la posizione del presidente Sargsyan, il nuovo scenario regionale
Volti scolpiti nella carne, dal profilo pronunciato ed i tratti austeri e squadrati, sormontati da sopracciglia folte e spesse con capigliature nero-pece. La sala d’aspetto della porta di imbarco dell’aeroporto di Vienna corrisponde a tutti gli effetti all’anticamera del varco oltre il quale troverò un’altra volta, dopo una notte in bianco, il Caucaso.
Yerevan è ancora una destinazione improbabile per le rotte del turismo di massa, anche se la cosa non sembra preoccupare la comitiva di pensionati tedeschi che ritroverò più tardi, e nei giorni seguenti, davanti al mio stesso hotel mentre montano e smontano dall’autobus che li accompagna a visitare la capitale dell’Armenia e i suoi dintorni. Altro paese ma stessa temperatura e stesso temperamento della vicina Georgia, con le strade che ribollono di rabbia e risentimento a causa di elezioni ritenute truccate dalla parte sconfitta che, a distanza di un anno, rifiuta ancora di accettare il verdetto.
Fu nel febbraio dello scorso anno, nei giorni immediatamente successivi alle elezioni presidenziali, che Piazza della Libertà fu inondata da un’imponente folla vociante che protestava contro presunti brogli e manipolazioni del risultato da parte delle forze di governo. Come durante la rivoluzione arancione in Ucraina, i dimostranti avevano eretto tende e ripari per la notte, con l’intenzione di continuare la mobilitazione fino all’invalidamento del voto. Per undici giorni il centro di Yerevan rimase paralizzato. All’alba del primo marzo, quando solo poche centinaia di persone erano rimaste a presidiare l’accampamento improvvisato, le forze di sicurezza intervennero in massa picchiando brutalmente e manganellando senza preavviso i manifestanti. La piazza venne rapidamente sgombrata dalle tende ma alle cariche, ai fermi e agli arresti l’opposizione rispose in poche ore con un’ulteriore mobilitazione e barricate per le strade, auto in fiamme, vetrine in frantumi e negozi devastati. Negli scontri con la polizia trovarono la morte almeno dieci persone, con centinaia di feriti sparsi negli ospedali della capitale. Fu dichiarato lo stato di emergenza che rimase in vigore per venti giorni. Secondo il rapporto di alcune organizzazioni per i diritti dell’uomo, sebbene vittima di attacchi diretti, la polizia sparò deliberatamente ed indiscriminatamente contro i dimostranti in circostanze che non giustificavano l’uso di forza letale. Sono una cinquantina le persone che, a distanza di più di un anno da quei tragici avvenimenti, si trovano ancora in prigione.
In carcere
Incontriamo Alexander Arzumian in un carcere speciale a ridosso del centro di Yerevan. Il termine "speciale" non è riferito in questo caso alle misure di massima sicurezza, ma al fatto che nell’edificio vengono ospitati prigionieri di riguardo. Arzumian, infatti, ha ricoperto in passato la carica di ministro degli Esteri e, in occasione delle elezioni presidenziali, era il manager della campagna del candidato sconfitto Ter-Petrossian.
Anche se le autorità armene negano l’esistenza di prigionieri politici avevamo, prima di partire, espressamente richiesto di poter incontrare alcune delle persone arrestate durante i tumulti dello scorso anno per sincerarci dello loro condizioni di detenzione, avere la loro versione dell’accaduto e lanciare un segnale forte al governo armeno dell’attenzione che la comunità internazionale continua a prestare alla situazione politica del paese.
In una piccola sala dalla luce incerta, tra una sigaretta e l’altra, Arzumian ci racconta del suo arresto dopo intercettazioni telefoniche che, secondo gli investigatori, lo vedrebbero al vertice della rivolta. Si dice vittima di una persecuzione politica. "Mi accusano di avere provocato disordini di massa, ma io in quel primo marzo arrivai in Piazza della Libertà solo nella tarda mattinata, e non ho avuto alcun ruolo organizzativo negli scontri", afferma con calma e determinazione. "In questo paese non esiste legalità e tanto meno indipendenza ed autonomia da parte della magistratura", continua. In linea con queste affermazioni, durante le udienze ed i dibattimenti processuali, Arzumian si è sempre rifiutato di alzarsi in piedi di fronte alla corte che, a suo dire, non merita alcun rispetto. Sette sono i detenuti più in vista al centro dell’attenzione europea e, fra questi, tre deputati ai quali è stata tolta l’immunità dopo il voto del parlamento. "Mi considero un prigioniero politico con l’obbligo di lottare per la democrazia e la libertà del mio paese", conclude Arzumian prima di accomiatarsi. Il clima in cui si svolge il colloquio non è per nulla teso. Le guardie carcerarie mostrano buone maniere e molta familiarità con il detenuto, che sottolinea di essere sempre stato trattato bene grazie, probabilmente, alla sua notorietà.
Ad arringare la folla in quei momenti concitati dopo le elezioni c’era anche il vice- procuratore capo Gagik Jihangirian, ospite pure lui del carcere di sicurezza. "Passavo casualmente da quelle parti e su invito dei manifestanti ho preso la parola denunciando i brogli elettorali e la necessità di ristabilire lo stato di diritto in Armenia, guardandomi bene, però, dall’istigare all’uso della forza", racconta nello stesso stanzino in cui prima sedeva Alexander Arzumian. "Il giorno seguente", continua, "con una decisione illegale, il presidente della Repubblica mi ha destituito dall’incarico perché, a suo avviso, un procuratore non ha il diritto di occuparsi di affari politici; sono docente di Diritto Penale all’Università di Yerevan, e mai avrei pensato di essere un giorno arrestato senza avvocato e maltrattato dalla polizia come un qualsiasi delinquente".
Un pallido sole filtra dalle piccole grate. Le autorità armene mostrano un certo imbarazzo di fronte alle rimostranze della comunità internazionale. Voci ufficiose prevedono l’imminente scarcerazione dei detenuti più illustri per amnistia o grazia presidenziale. Tempi e modi sono, però, ancora da definire: il governo vuole fare apparire il gesto come un atto di clemenza di chi è dalla parte della ragione e non un cedimento alla crescente pressione europea.
Democrazia guidate
I più autorevoli "think tank" internazionali includono l’Armenia nel novero delle cosiddette "democrazie guidate". Esempio classico di queste è la Russia, dove si sviluppa una discreta e genuina competizione fra le forze politiche ma alla fine le elezioni vengono sempre vinte dagli uscenti o da qualche prestanome scelto da chi è al potere. Ispezioni fiscali improvvise per interferire con le attività dell’opposizione e i media che li sostengono, documenti compromettenti sui politici rivali passati alla stampa completamente falsi, aggressioni e omicidi di giornalisti indipendenti sono i mezzi più comuni utilizzati dalle élite che detengono le leve del comando per mettere a tacere i concorrenti. A volte si mettono in piedi partiti di opposizione fittizi, si elargiscono premi e si obbligano alla mobilitazione i dipendenti di amministrazioni pubbliche ipertrofiche e, come ultima risorsa, si ricorre ai brogli e alla manipolazione del voto. Le democrazie guidate sono intrinsecamente instabili e, come una pentola a pressione, se manca la valvola di sfogo sfociano in rivolte di massa, come attestano le rivoluzioni "colorate" che hanno portato l’opposizione al potere in Ucraina, Georgia e Kirghizistan. Anche in Armenia si è sfiorata una rivoluzione colorata; soltanto il controllo compatto degli apparati di sicurezza ha permesso al candidato delle forze di governo di mantenersi in sella.
Ai tempi dell’Unione Sovietica, Yerevan era chiamata la "città rosa" per il colore predominante dei suoi edifici. La pietra di tufo, abbondante da queste parti, è il materiale di rivestimento più usato dalle imprese edili locali, ottima come isolante per le abitazioni negli inverni rigidi e le estati bollenti del Caucaso meridionale. Le tonalità del tufo variano dal giallo paglierino al rosa intenso, con quest’ultimo che risalta nello stile pesante e austero dell’architettura comunista. Contrariamente ad altre città della regione, l’impronta sovietica appare meno evidente e i palazzi denotano perfino una certa eleganza. Altra cosa, però, sono gli interni, le cui rifiniture lasciano sempre a desiderare. Nonostante le evidenti ristrutturazioni, i gradini degli edifici governativi sono spesso ad altezza variabile con l’occhio obbligato ad accompagnare il piede per evitare pericolosi inciampi. Sono senz’altro più pericolosi, comunque, gli inciampi che continuano a incontrare i negoziati per risolvere il conflitto del Nagorno Karabakh.
La guerra di agosto
Nei primi tre mesi dell’anno si sono registrate circa 700 violazioni del cessate il fuoco, con otto morti. Sembra un bollettino di guerra, ma è dal 1994 che il fronte rimane caldo nonostante l’impegno delle parti a risolvere la questione per via diplomatica. Si intuisce, ad ogni modo, che qualcosa sta muovendosi. Il conflitto dello scorso agosto fra Georgia e Russia nella vicina Ossezia del Sud ha avuto un impatto drammatico anche sull’opinione pubblica armena, che ha preso di colpo coscienza dell’estrema vulnerabilità del proprio paese. La frontiera chiusa fra Mosca e Tbilisi si è aggiunta a quelle sbarrate da tempo fra Armenia e Turchia e Armenia e Azerbaijan. Dalla Georgia passa l’ottanta per cento del commercio armeno, il venti per cento che resta dall’Iran. Senza i rifornimenti dalla Russia Yerevan, tradizionale alleato di Mosca nella regione, si è trovata ulteriormente tagliata fuori subendo un pesante contraccolpo economico che si somma agli effetti della crisi finanziaria mondiale che ha fatto perdere in pochi giorni al dram, la valuta locale, più del venti per cento del suo valore. Per la prima volta qualche politico ha timidamente accennato alla necessità di trovare un compromesso con Baku sulla regione del Nagorno Karabakh, tuttora sotto controllo armeno, e i tradizionali toni bellicosi si sono ultimamente smorzati. Molto resta ancora da fare, però, per preparare il terreno alla pace dopo vent’anni di discorsi di fuoco contro il nemico azero.
Sargsyan
La residenza del presidente della Repubblica si trova su un ampio viale della capitale affiancato da parchi e giardini in pieno risveglio primaverile. Serzh Sargsyan ci riceve senza troppo protocollo nel salone degli incontri di stato. "Mi auguro che la situazione internazionale favorevole porti alla normalizzazione delle relazioni con la Turchia" – esordisce, riferendosi all’incontro del settembre scorso con il presidente turco Gül in occasione della partita di qualificazione ai campionati del mondo di calcio fra Armenia e Turchia. "Noi non abbiamo mai posto precondizioni alla ripresa del dialogo con Ankara; erano, semmai, i turchi ad invocare concessioni per quanto riguarda il Nagorno Karabakh e un riesame congiunto degli avvenimenti che determinarono il genocidio armeno".
Nel ringraziare la pressione diplomatica europea per l’inizio del disgelo delle relazioni con la Turchia, Sargsyan sottolinea che lo sterminio pianificato degli armeni da parte ottomana è un fatto che non può essere messo in discussione. Si dimostra, invece, più morbido sulla questione dei prigionieri politici: "Non escludo un atto di clemenza, ma prima occorre aspettare la sentenza della magistratura; la grazia potrebbe, inoltre, costituire un pericoloso precedente". Secondo il programma il colloquio dovrebbe durare mezz’ora, ma si prolunga ben oltre. In difficoltà sul fronte interno, il presidente è alla ricerca di qualche successo sul fronte esterno per placare un’opinione pubblica sempre più divisa e preoccupata dal crescente isolamento. Anche il presidente americano Obama sembra dargli conforto mentre negli stessi giorni, in visita in Turchia, fa appello al miglioramento delle relazioni fra Ankara e Yerevan.
Dall’alto la linea di confine fra Armenia e Turchia sfugge all’occhio, indistinta e indistinguibile tra corsi d’acqua, campi coltivati e abitati sparsi, e non sembra affatto quella barriera invalicabile che separa da anni i due paesi in una delle tante dispute che avvelenano gli animi e marchiano la storia e la geopolitica della regione. Le vette del piccolo e del grande Ararat, abbondantemente innevate, sembrano a portata di mano.
Avevamo concordato un’apertura simbolica della frontiera con un incontro rapido fra delegazioni ma, all’ultimo momento, le diplomazie delle due parti ci hanno consigliato di lasciar perdere per non interferire con i negoziati in corso. Yerevan conta di arrivare ad un accordo con Ankara entro la fine dell’anno. Nessuno, però, è disposto a scommetterci. Troppe sono state le attese e le speranze abortite. Confini ufficiali, frontiere ufficiose, linee del cessate il fuoco e barriere amministrative si intrecciano nel Caucaso in un labirinto senza vie di uscita. Arianna non è ancora passata da qui.
*Consigliere per gli Affari Esteri del Parlamento europeo