La Bosnia Erzegovina, un paese ricco

Dopo lo stop all’allargamento decretato dal presidente Juncker, secondo alcuni analisti si profila il rischio di uno scenario turco per i Balcani occidentali, impegnati in negoziati infiniti. Renzo Daviddi, Vice capo Delegazione dell’UE in Bosnia Erzegovina, è di opinione contraria. Intervista

06/10/2014, Andrea Oskari Rossini - Sarajevo

La-Bosnia-Erzegovina-un-paese-ricco

Mostar (Foto Clark & Kim Kays, Flickr )

 

Il neo presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, ha annunciato una moratoria di 5 anni sull’ingresso di nuovi paesi. L’Europa non ha più un Commissario all’allargamento ma un Commissario “per la Politica di vicinato e negoziati per l’allargamento”. E’ un segnale di chiusura nei confronti dei Balcani occidentali?

C’è sicuramente un segnale politico, che fa riferimento al fatto che in alcuni paesi i policy makers non si sono impegnati nei processi di trasformazione strutturale richiesti dall’allargamento. Si tratta però anche del riconoscimento di una situazione di fatto. Oggettivamente non credo che nell’arco dei prossimi cinque anni le macchine amministrative coinvolte, a prescindere dalle loro capacità, sarebbero riuscite a chiudere i processi negoziali aperti. Questo riguarda anche la Serbia, il paese che sembra avere l’apparato amministrativo più efficiente rispetto a quello degli altri paesi.

Allo stesso tempo, però, è stato ribadito più volte ai più alti livelli, anche a Berlino all’inizio dell’estate, che c’è un “committment” da parte dell’Unione Europea a continuare il processo di allargamento ai Balcani occidentali, e c’è un forte interesse di alcuni stati membri in questo senso, compresa oggi la Croazia.

La ridefinizione della Direzione Generale quindi non rappresenta un segnale di disimpegno?

Non mi sembra tale. C’è un problema anche di natura tecnica. La DG allargamento era diventata una direzione molto piccola, dopo la fine dei negoziati con la Croazia e lo smantellamento dell’unità dedicata all’Islanda. Allo stesso tempo c’erano una serie di competenze – sul Vicinato – che afferivano al Commissario precedente, Füle, quindi in parte la vedrei anche come una riorganizzazione di natura amministrativa.

C’è il rischio di uno scenario turco per i Balcani occidentali , in particolare per la Bosnia Erzegovina, cioè di negoziati che non finiscono mai?

Non credo ad uno scenario turco, anche per ragioni molto pragmatiche. La Bosnia Erzegovina, e gli altri paesi dei Balcani occidentali che rimangono fuori, rappresentano un’area relativamente piccola dal punto di vista del numero di abitanti, con problemi di natura economica e istituzionale gestibili. La Turchia è un capitolo diverso, un grande paese con rapporti se non problematici diciamo particolari con alcuni dei nostri stati membri. Nessuno dei paesi dei Balcani occidentali, compresa la Bosnia Erzegovina, presenta queste caratteristiche.

Il problema principale della Bosnia Erzegovina è che la sua leadership politica non ha dimostrato negli ultimi 4 anni, ma in generale dopo la firma dell’Accordo di Associazione e Stabilizzazione del 2008, di essere seriamente intenzionata a far progredire questo paese verso l’UE. Tutta una serie di impegni assunti sulla carta non sono stati rispettati. Questo atteggiamento certamente ha provocato un senso di irritazione nella precedente leadership politica europea.

Nella sua audizione di martedì scorso al Parlamento Europeo, il Commissario designato Hahn ha detto di auspicare un quadro più europeista per la Bosnia Erzegovina…

Sì, a me ha colpito soprattutto il riferimento all’uscita dalla logica di Dayton per entrare nella logica dell’Unione Europea.

Questa però non è una novità…

No, ma continua a non accadere. C’è una mancanza di volontà politica, a livello locale, che riguarda questioni anche molto concrete, come l’adozione dei piani strategici necessari per ricevere i fondi europei per le infrastrutture. Io penso ci sia un disegno politico volto a non far procedere questo paese verso l’Unione Europea, o almeno a non farlo procedere rapidamente. Vedremo dopo le elezioni se avremo a che fare con la stessa leadership, oppure se la stessa costellazione produrrà effetti diversi.

Muoversi dalla logica di Dayton a quella di Bruxelles potrebbe significare anche la ridefinizione del quadro della presenza internazionale in Bosnia Erzegovina. L’Ufficio dell’Alto Rappresentante, ad esempio, è un attore ancora necessario?

La candidatura di un paese all’UE, in un quadro normale, non è compatibile con il mantenimento di un’autorità esterna che disponga di poteri così ampi. Come Unione Europea abbiamo già detto da tempo che la figura dell’Alto Rappresentante andrebbe riconsiderata, ma naturalmente non si tratta di una decisione che fa riferimento solo all’UE. Credo però che se questo paese si incanalasse decisamente per una via di riforme strutturali, se si avvicinasse ulteriormente all’Europa, l’Ufficio dell’Alto Rappresentante verrebbe trasformato o chiuso.

Nell’ipotesi dell’apertura di negoziati di adesione, quali sarebbero i settori nei quali la Bosnia Erzegovina troverebbe maggiori difficoltà, e quali invece quelli dove il paese sarebbe più pronto?

I settori nei quali sicuramente la Bosnia Erzegovina avrebbe maggiori difficoltà sono quelli che hanno a che fare con lo stato di diritto, giustizia e affari interni. Si tratta peraltro di settori che nella nuova logica del negoziato, che è già stata applicata alla Croazia, ma anche a Montenegro e Serbia, sono quelli che vengono aperti per primi.

Quindi principalmente il sistema giudiziario?

Sì, e una parte dell’amministrazione pubblica, comprese immigrazione e controllo delle frontiere. Questa è sicuramente un’area in cui ci sarebbe molto da lavorare e verso cui abbiamo già diretto parte della nostra assistenza tecnica. Nel settore del commercio internazionale invece, e in parte per il quadro legislativo legato alla tassazione, penso che la Bosnia abbia meno problemi. Sono settori in cui la legislazione di base è già una legislazione di livello europeo.

Il dibattito politico in Bosnia Erzegovina è oggi dominato dalla prossima scadenza elettorale. Dopo il 12 ottobre ci sarà una nuova iniziativa internazionale per superare la situazione di stallo in cui si trova il paese?

Ci sono voci autorevoli a livello internazionale che richiedono una revisione della strategia sulla Bosnia Erzegovina, dunque immagino che dopo le elezioni e la costituzione delle nuove autorità si possa pensare ad una ripresa dell’iniziativa.

In quali termini? La Sejdić-Finci sarà ancora una priorità? Gli aspetti politici continueranno a dominare su quelli economici o ci sarà un approccio più pragmatico?

Dopo la chiusura della fase Sejdić-Finci, quando ormai era diventato chiaro che con l’avvicinarsi delle elezioni era impossibile andare verso una soluzione, noi siamo molto concentrati sull’economia. Al termine di un processo di consultazione estremamente ampio abbiamo prodotto il Compact for growth , un’agenda per il rilancio dell’economia del paese.

Esiste un rischio default per la Bosnia Erzegovina, alla luce dei pessimi indicatori macroeconomici e dell’esposizione verso l’estero?

Lo stock del debito in realtà non è elevato, rimane al di sotto o comunque ai livelli consentiti da Maastricht, poco sopra il 50% anche tenendo in considerazione l’indebitamento delle entità, dei cantoni e delle municipalità. Il paese ha però un problema di servizio del debito, cioè il debito è relativamente a breve termine e quindi c’è la continua necessità di procurarsi risorse per servire il debito in maniera regolare. In questo senso ha bisogno dell’appoggio del Fondo Monetario Internazionale, che mette a disposizione una sorta di revolving credit, un fondo per pagare se stesso. Se il Fondo bloccasse l’erogazione, la situazione diventerebbe problematica.

Anche per il pagamento degli stipendi pubblici?

La struttura di bilancio di questo paese è tale per cui una gran parte di risorse provengono dalle imposte indirette, circa l’80%, mentre le imposte dirette sono poco significative. Le fonti per le imposte indirette sono sostanzialmente due, l’imposta sul valore aggiunto e le imposte sul commercio estero. Se l’attività economica continua si possono generare risorse sufficienti perché lo stato non vada in bancarotta.

Nonostante il peso del settore pubblico?

Questo è uno stato molto "sprecone", con livelli di amministrazione sovrapposti, senza una chiara definizione di competenze. C’è uno spazio enorme per una razionalizzazione e per un aumento dell’efficienza. Però in generale non sono completamente d’accordo sul fatto che l’economia di questo paese non funzioni, ci sono aree che funzionano perfettamente, con imprese competitive a livello europeo e mondiale, ad esempio nella filiera automobilistica, imprese nuove che utilizzano tecnologie estremamente avanzate. Il settore energetico poi ha un potenziale enorme.

Nelle rinnovabili?

Soprattutto nella green energy. Anche il settore delle foreste, se venisse utilizzato in maniera razionale e non clientelistica, avrebbe un potenziale enorme, come anche il settore turistico…

La Bosnia è quindi un paese ricco?

Sì, non è un paese disperato, ma un paese con una forza lavoro qualificata che potrebbe avere ottime prospettive.

I suoi dirigenti però sono spesso criticati dalla comunità internazionale. In questo momento si parla molto delle conseguenze delle recenti inondazioni, in particolare dell’utilizzo dei fondi messi a disposizione dalla conferenza dei donatori di luglio. Quanti soldi ha stanziato l’Unione Europea e come vengono spesi?

Noi abbiamo messo a disposizione in totale circa 90 milioni di euro, in due pacchetti diversi. Un primo pacchetto di 45 milioni che avevamo subito a disposizione, e che abbiamo già cominciato a mettere in opera, facendo io ritengo un buon lavoro.

Sono quelli che sono stati affidati all’UNDP?

Esattamente, sono stati destinati alla ricostruzione di scuole, edifici pubblici e in parte anche case.

Dunque gli unici fondi ad oggi utilizzati per l’emergenza inondazioni sono stati messi in opera bypassando le autorità locali?

Sì. Un secondo pacchetto, più o meno analogo, 45 milioni, è pronto, sono soldi già stanziati, ma attendono la firma da parte delle autorità locali di tutta una serie di accordi di programma, framework agreement e financial agreement. Questo è un processo completamente al di fuori del nostro controllo. La conferenza dei donatori di luglio ha poi stanziato fondi ulteriori [oltre 800 milioni, ndr], e alcuni paesi hanno fatto stanziamenti bilaterali.

I 90 milioni dell’Unione sono donazioni?

Certamente.

I fondi stanziati invece dalla conferenza dei donatori sono prestiti?

In alcuni casi sì, compresi ad esempio quelli della Banca Europea, a basso tasso di interesse e lungo grace period, ma ad un certo punto andranno restituiti.

Commenta e condividi

La newsletter di OBCT

Ogni venerdì nella tua casella di posta