Kosovo, l’autunno dello scontento

Il Kosovo a poche settimane dal voto, primo appuntamento importante dopo le violenze del marzo scorso. Alcuni spunti di approfondimento sullo stato del Paese dal punto di vista economico e demografico. Il caso di Mitrovica

24/09/2004, Andrea Oskari Rossini -

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Tra i molti appuntamenti elettorali dell’irrequieto autunno balcanico, al centro dell’attenzione ci sono le elezioni politiche del 23 ottobre prossimo in Kosovo. Dopo la sollevazione albanese del 17 e 18 marzo scorsi, si tratterà di un significativo test per capire se questi mesi hanno rappresentato una semplice tregua, oppure se il processo elettorale potrà contribuire ad assorbire le tensioni.

Dopo la rinuncia, ufficialmente per motivi di salute, di Harri Holkeri, il danese Soren Jessen Petersen è il nuovo rappresentante speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite in Kosovo. Petersen ha assunto da poco il proprio incarico. Per il momento, tuttavia, non si registrano grossi cambiamenti rispetto ad una politica internazionale che, da cinque anni a questa parte, consiste sostanzialmente nel "navigare a vista".

Le parole pronunciate martedì scorso a New York dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, potrebbero rappresentare tuttavia un primo parziale aggiustamento di rotta, nella direzione di un maggior coinvolgimento delle istituzioni locali nel governo del Kosovo: "Lavoreremo con l’Unmik (la missione delle Nazioni Unite in Kosovo, ndr)– ha dichiarato Annan – per identificare ulteriori aree di trasferimento e modalità per un più ampio coinvolgimento delle Istituzioni Provvisorie di Autogoverno."

Tra i Serbi, tuttavia, sembra prevalere una posizione di boicottaggio rispetto alla scadenza del 23 ottobre. La loro mancata partecipazione renderebbe di fatto monca la consultazione elettorale. Le istituzioni internazionali hanno fatto sapere che la porta è ancora aperta, ma il principale partito dei Serbi del Kosovo, la coalizione Povratak (22 seggi sui 120 della Assemblea alle elezioni del 2001), non si è iscritto alle liste elettorali nelle scadenze fissate.

Unmik, Kfor

Gran parte degli sforzi internazionali – in questo momento – sembrano indirizzati alla questione della sicurezza. Nel suo rapporto di fine giugno sui disordini del 17 e 18 marzo, la autorevole organizzazione non governativa Human Rights Watch, di New York, ha sostenuto che le truppe NATO e la polizia dell’ONU in Kosovo hanno "catastroficamente" fallito nel loro compito di proteggere la comunità serba e gli altri gruppi etnici. Martedì scorso (22 settembre, Agence France Press), il Ministro della Difesa tedesco Peter Struck ha ammesso []i relativamente al comportamento delle forze armate del proprio Paese in Kosovo. Analoghe critiche e ammissioni erano circolate nei mesi scorsi, coinvolgendo anche altri contingenti nazionali, sottolineando la generale impreparazione e incapacità nel rispondere alla violenza di massa.

Il nuovo responsabile della forze Nato in Kosovo è il generale francese Yves de Kermabon. Il militare ha assunto il comando all’inizio di settembre, lanciando una campagna per migliorare la fiducia dei kosovari nella Kosovo Force (Kfor) e allo stesso tempo cercando di preparare le proprie forze ad eventuali scenari simili a quelli di marzo. La Kfor ha attualmente 18.000 uomini in Kosovo. Le persone che hanno partecipato alle violenze di marzo sarebbero state circa 50.000 (stime Kfor). Di fiducia c’è effettivamente bisogno. Nel corso degli ultimi scontri, alcuni reporters segnalavano slogans e scritte sui muri nelle quali il nome "Unmik" veniva trasformato in "Armik", nemico.

Il Kosovo, un oggetto politico non identificato

In base alla risoluzione 1244, adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il 10 giugno del 1999, il Kosovo è sottoposto ad una amministrazione ad interim (guidata dal Rappresentante Speciale del Segretario Generale dell’Onu), il cui obiettivo è permettere alla gente del Kosovo di godere di una sostanziale autonomia all’interno della Repubblica Federale di Jugoslavia (oggi Unione di Serbia e Montenegro). La dizione riportata dalla risoluzione ("sostanziale autonomia all’interno della Repubblica Federale di Jugoslavia") è quella che ufficialmente definisce lo status del Kosovo.

Alcuni autori descrivono piuttosto il Kosovo come un "oggetto politico non identificato, senza sovranità, temporaneamente sotto controllo internazionale" (v. Christophe Solioz, Kosovo: avenir d’une illusion ou illusion d’un avenir impossibile?, Ginevra, Marzo 2004). In una intervista di qualche tempo fa – per molti versi ancora attuale – il giornalista kosovaro oggi entrato in politica, Veton Surroi, affermava che il Kosovo post guerra assomiglia più che altro ad una gigantesca organizzazione non governativa: "…A volte penso che sarebbe meglio se fosse una colonia, vista la mancanza di amministrazione che c’è adesso. Questo luogo deve essere uno Stato, funzionante politicamente ed economicamente. Non dico internazionalmente riconosciuto, ma con le classiche prerogative statali. Oggi è piuttosto una anarchica e caotica organizzazione non governativa." (v. Interview: Still Building the New Kosovo, in IWPR, Balkan Crisis Report No. 127, 24.03.00)

Sul piano istituzionale, è la Cornice Costituzionale per l’Autogoverno Provvisorio ("promulgata" da Hans Haekerrup il 14 maggio 2001 e poi approvata dalla Assemblea del Kosovo) a definire i livelli e le competenze del governo locale e quelle delle comunità internazionale. Da parte albanese, da tempo si insiste per l’aumento delle prerogative del governo locale, in particolare attraverso l’ampliamento del numero dei ministeri e delle attribuzioni di ogni singolo ministero (v. Kosovo: Cornice costituzionale, l’intoccabile, di Alma Lama, Osservatorio sui Balcani, 28.01.04)

Il triangolo Pristina-Belgrado-comunità internazionale si è concretizzato per ora in un unico incontro, lo scorso ottobre a Vienna. L’ospite, Harri Holkeri, è stato raggiunto dal presidente del Kosovo, Ibrahim Rugova, dal presidente dell’Assemblea kosovara, Nexhat Dhaci, da Nejboša Čović, per il Centro di Coordinamento per il Kosovo (CCK), e dal premier serbo Zoran Živković. L’incontro, all’insegna della freddezza (nessuna stretta di mano), aveva in agenda alcune importanti questioni "tecniche" (trasporti, energia, rientro degli sfollati e sorte degli scomparsi). Nelle dichiarazioni finali, tuttavia, è stata la questione dello status a accentrare l’attenzione: mentre Rugova ribadiva la aspirazione alla indipendenza, Čović sottolineava che il Kosovo è parte del territorio della Serbia.

Quanti sono i Kosovari?

La questione dello status non è l’unica a provocare reazioni diverse. Quasi tutte le statistiche che riguardano il Kosovo sono indeterminate, manipolate, oggetto di un utilizzo politico. A partire da quelle relative alla popolazione.

Secondo l’Ufficio Federale Jugoslavo di Statistica, nel 1991 in Kosovo vivevano 1.956.196 persone. Di questi, 1.596.072 erano Albanesi, 194.190 Serbi e poi le altre nazionalità. Questi sono gli ultimi dati ufficiali sulla popolazione del Kosovo. Secondo il Ministro Kosovaro del Commercio e dell’Industria, oggi, la popolazione kosovara sarebbe di 2,4 milioni di persone. Secondo il Ministero dell’Ambiente e della Pianificazione Territoriale dello stesso governo, i Kosovari sono invece 2,2 milioni. Il Dipartimento di Politiche Macroeconomiche del Ministero della Economia e Finanza, dello stesso governo, si riferisce invece nelle proprie analisi ad una popolazione residente che varia tra gli 1,7 e gli 1,85 milioni di persone (v. ESI, Towards a Kosovo Development Plan and The state of the Kosovo economy, agosto 2004).

Il dato più significativo, date le evidenti implicazioni con il possibile futuro del Kosovo, è quello relativo al numero di profughi serbi, espulsi dopo la guerra del 1999. In questo caso, le cifre sono cruciali per capire le reali prospettive di un processo di ritorno e di restituzione delle proprietà. Se i numeri fossero più vicini alle decine che alle centinaia di migliaia, il confronto con quanto avvenuto in Bosnia Erzegovina (nonostante le evidenti differenze) potrebbe far apparire il ritorno non una semplice chimera ma una ipotesi realistica. Anche qui, però, le cifre ballano.

Il dato più accreditato, e più ricorrente nella pubblicistica, è quello di 200.000 sfollati. Praticamente più di quanti vi vivevano nel 1991. La cifra appare poco credibile. Negli anni ’80 il numero dei Serbi del Kosovo mostrava una tendenza a diminuire, ed è improbabile che questa tendenza sia cambiata significativamente, nonostante molti profughi Serbi di altre regioni della ex Jugoslavia siano stati inviati nel Kosovo durante il periodo Milosevic. Se ci fossero 200.000 sfollati, praticamente in Kosovo oggi non ci sarebbero più cittadini di nazionalità serba.

Recentemente (gennaio 2004), il governo serbo (Centro di Coordinamento per il Kosovo, CCK) ha pubblicato un dettagliato rapporto che riporta una cifra di 129.474 Serbi in Kosovo nel 2002. Questa cifra corrisponde ad una ricerca condotta da un centro studi internazionale (lo European Stability Initiative, ESI), secondo la quale i profughi serbi sarebbero solamente 65.000, mentre circa 130.000 sarebbero rimasti a vivere nel Kosovo. La ricerca (v. ESI, "The Lausanne principle, Multiethnicity, Territory and the Future of Kosovo Serbs", 07.06.04), confronta dati del governo serbo e del governo del Kosovo con una proiezione basata sulle iscrizioni alla scuola dell’obbligo. Secondo il CCK, tuttavia, la maggioranza dei Serbi del Kosovo vivrebbe a nord del fiume Ibar. Per ESI, invece, solo un terzo risiederebbe a Mitrovica nord e nell’area circostante, mentre gli altri (circa 75.000 persone) sarebbero rimasti a vivere nelle aree a maggioranza albanese, e in particolare a Gnjilane, Novo brdo, Viti, Kamenica, Strpce e Gracanica (Pristina).

Rispetto alla categoria città/campagna, poi, dalla analisi di ESI risulta che la maggioranza dei Serbi del Kosovo vive in villaggi di campagna, fuori dai grandi centri urbani. La guerra del 1999 avrebbe quindi avuto come effetto principale la espulsione di quasi tutti i Serbi che vivevano nelle aree urbane (con l’eccezione di Mitrovica) ed erano impiegati nel settore pubblico. La maggioranza dei Serbi delle campagne, invece, non avrebbe mai abbandonato il Kosovo (con alcune significative eccezioni in particolare nella Metohija/Dukajini), e oggi (soprav)vive principalmente grazie ad una agricoltura di sussistenza.

Un caso significativo è quello di Gnjilane/Gjilan, la municipalità con il più alto numero di Serbi a sud dell’Ibar. Nel 1991 vi abitavano 19.370 Serbi, di cui 6.000 in città. Dopo il 1999, in città ne erano rimasti 250. Oggi, dopo il marzo 2004, ne restano 25. Tuttavia, con un numero di 12.123 Serbi che ancora vive nella municipalità, è chiaro che la maggioranza dei Serbi delle campagne sono rimasti. La loro situazione dal punto di vista economico, tuttavia, è estremamente difficile (manca la città con cui scambiare e da cui ricevere flussi di denaro) ed è verosimile un loro trasferimento in Serbia o altrove nel medio periodo, anche qualora venissero risparmiati da ulteriori scoppi di violenza e fossero loro garantiti i servizi pubblici essenziali.

Una economia in caduta libera

Come per la popolazione, al momento in Kosovo una analisi dell’economia basata su affidabili statistiche economiche è impossibile (v. Eurostat, giugno 2002, cit. in ESI, Towards a Kosovo Development Plan and The state of the Kosovo economy, agosto 2004).

Le poche cifre disponibili mostrano tuttavia una diminuzione significativa e continua del prodotto interno lordo negli ultimi tre anni. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, il Pil del Kosovo era di 1,85 miliardi di € nel dicembre 2001; 1,57 miliardi di € nel giugno 2003; 1,34 miliardi di € nel dicembre 2003 (quest’ultima è una stima Unmik).

Il Kosovo ha quindi vissuto un vero e proprio boom post guerra, fortemente trascinato dall’esterno, ma di breve durata. La cifra del disastro dell’economia kosovara è forse rappresentata al meglio dalla situazione della bilancia dei pagamenti. Nel 2003, il Kosovo ha importato beni per 968,5 milioni di €, esportando solamente per 36,3 milioni (per lo più legname e funghi) (v. Monthly Economic Monitor, aprile 2004, cit. in ESI, Towards a Kosovo Development Plan and The state of the Kosovo economy, agosto 2004).

A 5 anni dalla fine della guerra, insomma, il bilancio del Kosovo dipende soprattutto dalla tassazione sui beni importati.

La maggior parte della crescita post 1999 ha avuto luogo nel settore del commercio, della pubblica amministrazione e dell’edilizia. Il boom della ricostruzione, però è durato poco. Nel 2001 raggiungeva solo il 40% del livello dell’anno precedente, e nel 2002 il 13%. Per quanto riguarda il settore pubblico, la crisi fiscale (sia in Kosovo che in Serbia) impedisce evidentemente che questo settore possa contribuire in maniera significativa al livello di vita delle persone. Resta il commercio…

Per quanto riguarda la produzione infatti, fatta eccezione per i materiali edili, l’arredamento e in parte l’industria alimentare, nel Kosovo praticamente non esistono attività manifatturiere. Chiunque soggiorni in Kosovo, anche per un breve periodo, si rende conto poi della situazione disastrosa in cui versano le infrastrutture, a partire dalla erogazione (intermittente) della energia. Una visita al villaggio di Dardhishte, sede della centrale elettrica Kosova A, può chiarire ancora meglio la situazione (v. Kosovo Pollution Fears, di Arben Salihu, IWPR, Balkan Crisis Report No. 513, 27.08.04)

L’esercito di riserva

Il Ministero delle Finanze e dell’Economia kosovaro, sommando ai dati ufficiali anche quelli provenienti dalla economia informale, fornisce una cifra di 325.400 persone impiegate, la maggior parte delle quali in agricoltura (141.800). Confrontando il dato con quello della popolazione kosovara in età lavorativa (circa un milione di persone), emerge che due persone su tre non hanno lavoro. Il Kosovo, peraltro, ha la più giovane popolazione d’Europa (v. Kosovo outlook 2004, Unmik European Union Pillar, 2004). I tradizionali canali migratori sono però oggi chiusi, date le politiche restrittive dei paesi UE. Questi disoccupati restano quindi a casa.

Il processo di privatizzazioni, infine, definito dall’UNMIK come una delle priorità della propria amministrazione, è fermo dall’autunno scorso, anche a causa delle dispute esistenti sulla proprietà pubblica tra Belgrado e Pristina. Gravi episodi di malversazione che hanno colpito direttamente la amministrazione internazionale non hanno certo facilitato il percorso (v. Kosovo: bollette, francobolli e mazzette, di Alma Lama, Osservatorio sui Balcani, 31.05.04).

Mitrovica/Mitrovice

Per meglio illustrare la situazione economica del Kosovo oggi, il caso di Mitrovica è particolarmente significativo.

Lo sviluppo che ha caratterizzato Mitrovica nel periodo jugoslavo non era diverso da quello di molte altre città della regione. Mitrovica era una città-fabbrica, costruita intorno ad un gigantesco kombinat statale, il complesso della Trepca (miniera e lavorazione di metalli quali piombo, zinco ecc.). Trepca dava quindi lavoro a tutta la città e alla regione di pertinenza di Mitrovica, che aveva una orgogliosa identità industriale, condivisa sia dai Serbi che dagli Albanesi.

Oggi, Mitrovica è una città-fabbrica senza fabbrica. Dopo la guerra, la produzione è cessata quasi completamente. Si tratta di uno dei casi più drammatici di transizione dalla economia di piano al "mercato" attraverso la guerra, anche perché la trasformazione violenta del paradigma produttivo si è accompagnata alla frammentazione e segmentazione (su basi etniche) dell’originario kombinat. Mitrovica è infatti divisa a metà sulla linea del fiume Ibar tra un nord serbo e un sud albanese. Non essendoci libertà di movimento, la produzione non potrebbe ripartire in alcuna forma.

Mitrovica nord, unica restante comunità urbana dei Serbi del Kosovo, vive di impiego pubblico (in particolare Università e Ospedale) e trasferimenti sociali (il governo serbo sostiene il salario dei lavoratori pubblici con una sovvenzione speciale, "Kosovski dodatak", incentivo a rimanere nel Kosovo). Non ci sono altre attività economiche, escluso il piccolo commercio.

Dei 20.000 posti di lavoro della Trepca ne restano poco più di 1.000, precari. La popolazione di Mitrovica oggi è inferiore a quella del 1981. Se continua la attuale spirale di declino sociale ed economico, il destino di Mitrovica è quello di una città fantasma (v. European Stability Initiative, People or territory? A proposal for Mitrovica, 16 febbraio 2004)

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