In Georgia, sulle tracce del culto di Stalin

Secondo molti, l’edificatore dell’Unione Sovietica avrebbe ancora molti ammiratori in Georgia, quantomeno a Gori, la sua città natale, poche decine di chilometri dalla capitale Tbilisi. Reportage sulle tracce di Stalin. Riceviamo e pubblichiamo

20/08/2020, Giovanni Verga - Gori

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Statua di Stalin a Gori (foto G. Verga)

Alexander Kazbegi. Chi era costui? Probabilmente pochi o forse nessuno l’ha sentito nominare, fuori dalla Georgia, dove invece anche un cameriere di un bar lo sa dire. "È stato uno dei padri della patria", sarà la sua risposta. In effetti di lui non ci sono monumenti o grandi boulevard col suo nome o effigi in grande evidenza nella capitale. Bisogna andare in un luogo remoto della Georgia per trovarne, al confine con la Russia, precisamente con l’Ossezia del Nord. Terre di cerniera, da sempre disputate, oggetto di appetiti per tanti. Ed è su questa via di transito di truppe nel passato, la Strada militare georgiana, che si incontra un villaggio con il nome di Kazbegi.

Gli sciatori ed amanti del trekking che oggi arrivano a comitive da queste parti richiamati dalla attiva promozione turistica, non degnano di uno sguardo il gigantesco monumento che si para di fronte a loro alla fermata degli autobus nel centro della stazione montana. La statua immortala un simbolo della lotta per l’indipendenza, uno scrittore che avrebbe spinto con un suo romanzo il georgiano più noto della storia, Stalin, a buttarsi nella lotta politica. Il nostro viaggio sulle tracce del culto staliniano in Georgia comincia da qui.

Costui scrisse Il Patricida, un’opera molto dura contro la dominazione zarista nella Georgia di fine Ottocento, con la quale spronò il suo popolo alla lotta per la libertà, ma anche per l’uguaglianza. Stalin da giovane lo teneva in tale considerazione da adottare il nome dell’eroe del romanzo, Koba, come suo pseudonimo. Secondo la memorialistica agiografica, Koba avrebbe dato un senso alla vita del futuro capo dell’Unione Sovietica. Lui si augurava di diventare Koba e voleva essere chiamato così dagli amici più vicini. Ed era orgoglioso di questo. Sembra che fosse attratto dal suo semplice ma onesto e leale codice morale.

Secondo molti, l’edificatore dell’Unione Sovietica avrebbe ancora molti ammiratori in Georgia, quantomeno a Gori, la sua città natale, poche decine di chilometri dalla capitale Tbilisi. Le prove più evidenti sono il grandioso e celebrativo museo di Stato a lui dedicato, ma anche le vicende della rimozione della sua statua, una delle ultime se non l’ultima rimasta dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Non solo era ancora lì, ma era imponente e nel cuore della piazza principale, finché fu spostata in gran segreto nel 2010. Del resto, fino a neanche una ventina d’anni fa, già dopo la caduta del regime, in Georgia il grande leader era ancora pressoché un idolo. Ci fu chi nel Paese reclamava che la salma tornasse al Cremlino, spuntarono diverse associazioni e organizzazioni che ne chiedevano la riabilitazione. Nei manuali di storia delle scuole superiori si diceva che nel periodo krusceviano la critica a Stalin era oltraggiosa per il popolo georgiano. Quando l’ultimo ministro degli Esteri sovietico Eduard Shevardnadze, ovunque apprezzato per diplomazia e moderazione, si insediò a capo dello Stato dopo il crollo del blocco comunista, subito mise in piedi un istituto per gli studi sulla sua figura. Che per lui e i suoi connazionali, molto spesso era stata infangata.

Proprio in quegli anni il grande reporter di viaggio Wojciech Górecki, osservava come fosse difficile parlare ai georgiani di Stalin. "La maggior parte di loro lo ritiene un grande. Tra loro vi sono quelli che non credono nei crimini staliniani – negazionisti diciamo adesso – e quelli che, pur vedendo il male, sono convinti che gli si debba perdonare ogni cosa". Restava infatti ancora molto popolare tra la gente di Gori chiamarlo affettuosamente "zio Soso". All’ingresso della città, oggi, il biglietto da visita è una colossale stele con i nomi una per una delle 180 vittime georgiane di guerra. Non a caso è stata collocata lì. Gori fu colpita duramente dalle bombe, parte della popolazione fu evacuata. È un centro di rispettabilissime dimensioni, vivace e dinamico, pieno di negozi e di cani randagi come un po’ tutta la Georgia, ma senza alcuna attrattiva turistica. Niente montagne, niente laghi, niente attrattive monumentali, tranne la fortezza medievale un po’ in abbandono che la domina su un colle. La guerra ha acuito il conflitto tra il forte nazionalismo di sempre che include la difesa del grande connazionale e la rinnovata ostilità verso l’ingombrante vicino di sempre. Ecco quindi motivata la permanenza del museo.

Il benvenuto al visitatore la dà la grandiosa statua in marmo bianco che domina la cima della scalinata con il tappeto rosso nel principesco foyer. La posa è sobria, la mano in tasca dei pantaloni nell’eterna divisa militare che è l’unico abito con cui lo si è visto pubblicamente. Nulla di enfatico. Ma certo molto rassicurante. Poi al primo piano, alla luce dei regali candelabri, altri busti in marmo. Il tempio a lui dedicato è passato indenne e immutato attraverso gli anni della denuncia del culto della personalità sotto Kruscev, la caduta dell’Urss, l’indipendenza della Georgia e la guerra contro la Russia di Putin.

Le brochure del museo (le note a commento dei pannelli sono solo in russo e georgiano) non fanno menzione delle lotte interne al partito, delle purghe e delle carestie che decimarono la popolazione ucraina negli anni Trenta. Tuttavia, secondo quanto racconta ancora Górecki al tempo del suo viaggio, il direttore dell’istituto per gli studi su Stalin sosteneva che la fame è un fenomeno dovuto alla scarsità di raccolti e non si poteva imputarla al regime. "Ci sono senz’altro state delle vittime, ma le cifre fornite sono gonfiate". Alle pareti le prime immagini del racconto apologetico della straordinaria vita del grande connazionale: foto di lui bambino e dei genitori, il padre calzolaio, straordinariamente somigliante, e la madre; poi altre della sua classe dei primi anni di scuola al seminario e con i compagni del coro. Con le ottime pagelle ci sono anche i suoi poemetti giovanili che, a quanto si dice, venivano studiati dai bambini delle scuole primarie. Ed ecco nelle teche altri documenti e oggetti degli anni della rivoluzione bolscevica.

È proprio in quegli anni di formazione che il futuro leader viene abbagliato dal personaggio di Koba, il difensore degli oppressi, che deciderà di adottare come nome dì battaglia nella lotta clandestina unendosi alla causa bolscevica. Siamo nella grande sala che comprende gli anni della costruzione dello Stato sovietico, dei primi piani quinquennali ma anche – grande vuoto -, della collettivizzazione forzata delle campagne, uno dei nodi più discussi del dominio staliniano.

Ancora, lo vediamo in veste di agit prop mentre da un palco incita i compagni alla lotta, lui che grande oratore e trascinatore probabilmente non era, e in tante foto agiografiche attorniato da donne del popolo osannanti e mentre abbraccia bambini, secondo il più consolidato culto della personalità. Poche o nessuna menzione alle lotte interne al partito, alle purghe e alle carestie. Solo qualche vago cenno.

Andare alla ricerca delle sue origini qui, dov’è nato e si è formato umanamente e politicamente, serve a capire la sua futura azione di capo di Stato. Ancora Górecki ricorda la sua natura profondamente caucasica, una sorta di despota orientale che governava un immenso Stato alla maniera di un clan familiare. Anche se con un suo codice morale, quello di Koba, che rubava ai poveri per dare ai ricchi e se eliminava un nemico, era per il bene collettivo.

“Anche come capo del partito bolscevico, restava sempre un caucasico: per lui un menscevico non era tanto un avversario politico, quanto il nemico della valle accanto”. Solo osservando i volti dei suoi antichi compagni di lotta, ritratti con lui nelle foto del museo prima delle purghe, appare evidente come si contrapponessero due mondi, “l’antico mondo asiatico e pigro, fatalista, pratico, dallo spirito chiaro, nella sua primitività imperturbabile, e il mondo europeo inquieto, cangiante, nervoso, intellettuale e abbagliante”. Che si detestavano l’un altro.

L’apoteosi è nel cuore del museo, quello della guerra patriottica, una grandiosa sala semicircolare con gigantografie belliche e ritratti del leader con i principali alleati, Churchill e Roosevelt. Qui le note informano che Churchill considerava Stalin un grande dittatore ma che aveva preso in mano un Paese "con un aratro di legno e l’aveva lasciato fornito di armi nucleari", mentre secondo Roosevelt "era stato una delle più grandi persone dell’era moderna". E addirittura, secondo il nemico numero uno, Hitler in persona, Stalin sarebbe stato più intelligente degli altri due messi insieme. Un giudizio di cui non si sa se ci sia da andare molto orgogliosi.

E infine l’ultima sala. Sconcertante. Enorme, lì per lì non si capisce cosa conservi. Solo fiocamente illuminata, contiene una strana struttura circolare a colonne con al centro un oggetto su un podio. Solo da vicino finalmente si riconosce una maschera mortuaria, un calco del solo volto del defunto deposto su un cuscino. Come fosse stato decapitato. L’ultimo omaggio un po’ sinistro, ma in fin dei conti affettuoso, all’odiato-amato connazionale.

Giovanni Verga è giornalista professionista freelance, collabora con Avvenire e L’Eco di Bergamo. Ha realizzato reportage dalle aree di crisi, in Afghanistan negli anni della transizione, Israele-Palestina, Cecenia  e Siria, dove ha seguito i primi anni della guerra. È autore dei libri reportage "Vivere in Palestina tra tablet, Muri, Bibbia e Corano" (2014) e "In viaggio con la Jihad – Afghanistan, Siria – Un reportage di frontiera" (2016)

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