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Grecia e migranti: arenati

La Grecia rimane in uno stato di emergenza umanitaria. Un’ampia rassegna sulla situazione di migranti e rifugiati, dall’isola di Lesbo all’esperienza dell’Hotel City Plaza ad Atene

10/10/2016, Chiara Milan -

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(Ann Wuyts/flickr)

Com’è cambiata la situazione dei migranti nelle isole greche durante l’estate? Mentre per molti di loro si prospetta il rimpatrio in Turchia, per altri è iniziata un’attesa che potrebbe durare anche un anno. La popolazione locale comincia a dare segni di insofferenza, e la poca chiarezza e le continue variazioni nel sistema di identificazione e registrazione alimentano le tensioni tra i migranti. Anche se non fa quasi più notizia, la Grecia rimane in uno stato di emergenza umanitaria.

Arenati in Grecia

Secondo i dati forniti dalla Commissione Europea, a fine settembre il numero dei rifugiati in Grecia ammontava a 60,500 unità, di cui 13,800 nelle isole e circa 46,700 nella Grecia continentale. Nei centri di accoglienza governativi della sola isola di Chios sarebbero al momento presenti circa 4,000 persone, il numero più alto di sempre, che eccede del 336% la capacità di accoglienza dei centri stessi. La situazione nelle altre isole non è diversa: dall’entrata in vigore dell’accordo dell’Unione Europea con la Turchia il 20 marzo 2016, le isole greche hanno smesso di svolgere la funzione di luoghi di registrazione e transito per i rifugiati diretti verso il nord Europa per convertirsi in posti di identificazione e attesa.

Chi è arrivato nelle isole successivamente all’entrata in vigore dell’accordo con la Turchia si trova di fatto arenato in Grecia. Ai migranti sbarcati nelle isole greche dopo il 20 marzo 2016 viene permesso di registrarsi e fare domanda d’asilo. Qualora questa venga respinta o giudicata inammissibile, vengono rimpatriati in Turchia. In attesa che la loro domanda venga esaminata, i richiedenti asilo sono obbligati a rimanere nell’isola di arrivo. L’accordo prevede inoltre che, per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalla Grecia, un altro siriano possa essere trasferito dalla Turchia ad un paese dell’Unione Europea.

Sorte diversa spetta ai migranti arrivati in suolo greco tra il 1 gennaio 2015 e il 20 marzo 2016. Per loro il processo di pre-registrazione è terminato il 30 luglio. La pre-registrazione, una sorta di censimento dei migranti presenti in territorio greco, consente di avere diritto ad un posto letto nei campi governativi, risiedere legalmente nel paese, avendo accesso a servizi sanitari ed educativi, evitare (temporaneamente) la deportazione in Turchia e poter fissare un colloquio personale per formalizzare la richiesta di asilo in una seconda fase. Una volta chiamato per l’intervista, il migrante pre-registrato ha a disposizione diverse opzioni, in base alla sua nazione di provenienza: può formalizzare la richiesta di asilo in Grecia; chiedere di aderire al programma di ricollocamento (relocation) in un altro paese europeo; tentare la strada del ricongiungimento familiare; o chiedere il rimpatrio volontario. Il programma di ricollocamento prevede che sia un altro stato membro europeo ad esaminare la domanda di asilo del richiedente e conferirgli protezione internazionale se considerato idoneo. Da questo programma sono però escluse alcune nazionalità, come afghani, pakistani e, dal 1 luglio, iracheni. Anche chi è arrivato dopo il 20 marzo non ha accesso al ricollocamento, e può solamente chiedere asilo in Grecia o tentare la strada del ricongiungimento familiare.

Secondo i dati forniti dalla Commissione Europea, 27,592 persone sono state pre-registrate in Grecia. Il 67% di queste appartiene a nazionalità idonee al ricollocamento. Gli appuntamenti per la presentazione della richiesta di asilo sono cominciati il 1 settembre, e la priorità viene data ai soggetti cosiddetti “vulnerabili”, come minori non accompagnati, gli anziani e le persone seriamente ammalate. Per tutti l’attesa è lunga e snervante, soprattutto per coloro che sanno di non avere possibilità di poter essere ricollocati in altri paesi europei, né che la loro richiesta di asilo venga accolta in Grecia. I campi governativi, inoltre, si trovano in condizioni di sovraffollamento e isolamento. Per molti, l’attesa è a tempo indeterminato, e si aggrappano alla speranza di una futura, quanto improbabile, riapertura del confine macedone. L’insofferenza cresce anche tra le comunità locali delle isole che, nonostante un’iniziale slancio di solidarietà, stanno ora soffrendo le conseguenze della crisi umanitaria oltre che di quella economica.

La situazione nell’isola di Lesbo

Nell’isola di Lesbo si trovano circa 3,300 migranti, divisi in tre campi: i due campi governativi di Moria e Kara Tepe, e il campo informale di Pikpa. Il campo di Moria funziona come centro di ricezione e identificazione, essendo l’isola uno degli Hot Spots della Grecia (ovvero uno dei punti di smistamento e identificazione allestiti nei luoghi di sbarco dei migranti negli stati di frontiera dell’UE). Chi è arrivato via mare dopo il 20 marzo 2016 viene qui identificato e trattenuto in regime di libertà ristretta (detenzione) per un periodo che va dai 3 ai 25 giorni. Durante questo periodo di tempo al migrante in attesa di identificazione non è consentito lasciare il campo. Dopo i 25 giorni – che, a causa del sovraffollamento e lungaggini burocratiche, spesso aumentano – il migrante può lasciare il campo durante il giorno, ma non allontanarsi dall’isola. I casi identificati come vulnerabili vengono trasferiti nel campo di Kara Tepe, un centro “aperto”, nel senso che i migranti possono entrare ed uscire, e la cui gestione è affidata alla municipalità di Mitilene, o a quello di Pikpa, vicino all’aeroporto di Mitilene. Nel campo di Moria si tiene anche la prima intervista per vagliare l’ammissibilità del richiedente a fare domanda di asilo.

Il campo di Moria, che si trova all’interno di un’ex caserma dell’esercito greco, è recintato con grate e filo spinato, e circondato da innumerevoli chioschi dove i migranti possono comprare generi alimentari senza doversi recare al centro della città, che dista circa 6 km dal campo. A Moria i richiedenti asilo vivono in containers e tende, e alcune organizzazioni non-governative operano al suo interno, in particolare con soggetti vulnerabili come donne e minori non accompagnati. Questi ultimi vivono in una parte del campo a loro dedicata, in quanto non ci sono spazi disponibili in strutture più idonee. Le guardie all’entrata del campo non lasciano entrare chi non sia in possesso di un’autorizzazione, mentre all’epoca della mia visita – fine settembre 2016 – la polizia in tenuta anti-sommossa circondava il campo.

A Lesbo la tensione è in costante aumento, sia tra i rifugiati stessi, frustrati dalla lunga attesa e dalle condizioni inumane in cui si trovano a vivere, che tra le comunità locali. Gruppi di estrema destra come Alba Dorata approfittano del malcontento: il 19 settembre alcuni militanti sono sbarcati nell’isola per manifestare assieme ai locali contro la presenza di richiedenti asilo nell’isola, e contro la prospettiva dell’apertura di un secondo centro di detenzione nell’area. La prova, a loro parere, del fatto che vengono ignorate le necessità dei locali a favore di quelle dei rifugiati. Lo stesso giorno un incendio al campo di Moria ne ha distrutto una parte. Il movente è ancora da chiarire, così come l’autore del gesto, ma l’ipotesi più accreditata è che l’incendio sia scoppiato a seguito di scontri tra migranti e rifugiati di diversa nazionalità. Lo stesso giorno era corsa la voce che una deportazione di massa in Turchia fosse imminente. L’incendio ha distrutto alcune tende e containers e costretto circa 4,000 persone evacuate a dormire all’aperto.

La solidarietà corre su binari paralleli

La risposta alla detenzione nei centri governativi non si è fatta attendere. Se durante il picco della crisi erano sorte diverse iniziative di solidarietà auto-gestite e auto-organizzate, altrettante continuano a crescere con l’intento di garantire condizioni di vita degne ai migranti che si trovano bloccati in territorio greco. Ad Atene sono nati negli ultimi anni diverse esperienze portate avanti da attivisti locali e migranti, con il supporto di molti volontari internazionali che arrivano da diverse parti d’Europa.

Una di queste è l’ormai famoso Hotel City Plaza, un albergo occupato da attivisti e rifugiati ad aprile scorso. Da allora questo hotel ad otto piani, che si trovava in stato di abbandono da oltre sei anni, è la casa di oltre 400 migranti, bloccati ad Atene dopo la chiusura della rotta balcanica e l’accordo con la Turchia. Al suo interno vivono in prevalenza famiglie – su 400 migranti 185 sono bambini, moltissimi dei quali in età scolare – provenienti da Siria e Afghanistan. Ma ci sono anche palestinesi, iraniani, iracheni e pakistani, nonché alcuni attivisti provenienti da diverse parti d’Europa venuti a sostenere il progetto. La priorità nell’affidamento delle stanze, spiegano gli attivisti, viene data intenzionalmente ai gruppi vulnerabili, famiglie in particolare. Dopo il via libera del governo greco che permetterà ai bambini di frequentare le scuole pubbliche locali, alcuni volontari hanno organizzato una scuola estiva di lingua greca, per poter fornire i primi rudimenti della lingua ai bimbi. Vengono offerti anche corsi di inglese per adulti, mentre un team composto di avvocati ed esperti di diritti umani informa ed assiste i migranti sui loro diritti. L’hotel è auto-organizzato ed auto-gestito: vengono organizzati turni per la pulizia degli spazi comuni e per cucinare i pasti nel ristorante dell’albergo. La realtà si auto-sostiene tramite donazioni private, e i proventi della caffetteria del bar, che vende caffè e bibite prezzi popolari.

L’occupazione abitativa di Notara, invece, si trova ad Exarchia, quartiere famoso per il suo attivismo politico e per la storica presenza di anarchici e militanti di sinistra. Di dimensioni minori rispetto all’Hotel City Plaza, l’occupazione abitativa di via Notara ospita più di 100 rifugiati e migranti all’interno di quella che era un tempo sede di uffici del ministero greco del lavoro. L’edificio abbandonato è stato occupato da una ventina di attivisti nel settembre del 2015, in risposta alla mancanza di spazi per poter ospitare i migranti in luoghi degni. Anche Notara, come l’Hotel City Plaza, funziona in base al principio di democrazia diretta: le decisioni vengono prese collettivamente in assemblee che si tengono due volte a settimana, ognuno ha diritto di parola (servendosi anche di interpreti) e si cerca sempre di raggiungere il consenso. La gestione degli spazi comuni, così come la cucina e i turni per le pulizie, sono auto-gestiti e regolati tra i vari occupanti. Ad agosto 2016 l’edificio è parzialmente andato a fuoco durante un attacco da parte di estremisti di destra. Subito gli attivisti e i rifugiati si sono rimboccati le maniche, sistemando i locali e quanto era rimasto danneggiato dall’incendio. Nonostante questi atti intimidatori, la porta di Notara continua a rimanere aperta. Qui i rifugiati possono rimanere finché ne hanno bisogno.

 

*Chiara Milan è dottoranda presso l’Istituto Universitario Europeo e ricercatrice della Scuola Normale Superiore nell’ambito del progetto Collective action and the refugee crisis , che si occupa di studiare mobilitazioni, iniziative di solidarietà e supporto ai rifugiati organizzate dalle comunità ed attivisti locali lungo la rotta balcanica.

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