Gesù e Tito
Una sequenza di polaroid d’antan dai colori nient’affatto sbiaditi. Gesù e Tito è un libro che racconta, in Bosnia, il quindicennio tra il 1970 e il 1985. Anni che annunciano la fine di un mondo
Romanzo di formazione, sospeso da qualche parte “fra Georges Perec e Julio Cortazar, fra il pessimismo lucido di John Fante e la tragi-commedia slava alla Jaroslav Hašek”, secondo le parole del suo stesso autore, Gesù e Tito del bosniaco Velibor Čolić è uno dei titoli più interessanti del catalogo di Nikita, casa editrice fiorentina nata lo scorso anno, da una costola di Barbes, con l’obiettivo di raccontare il mondo “che da Berlino arriva fino alla Siberia”.
Nikita esplora infatti i paesi nati dalla fine del blocco sovietico attraverso l’opera di scrittori di diverse nazionalità (croati, sloveni, serbi, polacchi, rumeni, cechi, ungheresi, russi) con lo scopo di fotografare l’attualità e le idiosincrasie di luoghi e persone ancora sconosciuti in Europa occidentale. Il progetto, nato da un’idea di Tommaso Gurrieri, direttore di Barbes, curato da Sabina Trzan e Giada Perini, si propone di far conoscere al pubblico italiano i migliori autori di questi paesi. Non dunque romanzi di nicchia ma anche lavori che nei loro paesi originari hanno ottenuto discrete fortune commerciali.
Uno scrittore franco-bosniaco
Velibor Čolić, scrittore originario di Odzak, Bosnia-Erzegovina, ma residente dal 1993 in Francia, dove si è rifugiato durante la guerra nella ex Jugoslavia, accolto dal parlamento degli Scrittori di Strasburgo, analogamente ad altri intellettuali est-europei come Milan Kundera, dal 2008 ha abbandonato la sua madrelingua, il serbo-croato, per cimentarsi con il francese.
Gesù e Tito, secondo lavoro in francese dopo Arcangeli, uscito in Francia nel 2010 dove è stato definito da Le Figaro un romanzo allegro che ricorda i film di Kusturica , è un racconto autobiografico che ripercorre la vita dell’autore dalla sua infanzia fino agli anni dell’adolescenza che culminano nell’esperienza del servizio militare in un esercito ormai ridotto in cenere.
“Relativamente presto, all’età di ventotto anni – scrive lo scrittore nella postfazione – mi sono reso conto che tutti i miei ricordi, la mia infanzia, insomma tutta la mia vita di prima, appartenevano al Jurassic Park comunista, scomparso e seppellito insieme all’idea della Jugoslavia, il paese degli Slavi del Sud”.
La famiglia, comunista e cattolica
Costruito come una sequenza di polaroid d’antan dai colori nient’affatto sbiaditi, il libro, che si avvale di una scrittura che unisce humour, ironia e squarci poetici, copre il quindicennio, tra il 1970 e il 1985, che annuncia la fine di un mondo. Mescolando immaginazione e memoria Gesù e Tito racconta attraverso la storia con la “s” minuscola di Velibor – così battezzato per volere del padre, giudice jugoslavo tutto d’un pezzo che si oppone al cattolicissimo nome Antonio proposto dalla madre – la Storia di uno stato, la Jugoslavia, scomparso dalla carta geografica negli anni ’90 dopo le guerre balcaniche.
Lo fa attraverso la voce narrante di un bambino che al pari dei suoi coetanei occidentali sogna di diventare un calciatore brasiliano – anche in Jugoslavia imperava il culto per la collezione delle figurine Panini “con i grandi calciatori del globo” – , e poi più tardi, scoperti i francesi maledetti, un poeta. L’ambiente familiare che fa da sfondo a quest’infanzia, che lo stesso Čolić definisce dorata, è quello di due mondi, inconciliabili eppure dialoganti, rappresentati da un padre comunista (“mio padre dice che siamo jugoslavi”) e da una madre cattolica (“mia madre dice che siamo croati”) che hanno come numi tutelari rispettivamente il Maresciallo Tito e Gesù Cristo.
“Oltre a Gesù, in salotto c’è anche un grande ritratto del Maresciallo e poi ce n’è un altro in cucina, più piccolo, ma pur sempre grande. In uno, il nostro Maresciallo si è fatto riprendere con la divisa, nell’altro lo si vede in civile.”
Per il giovane Velibor e per gli amici, con cui trascorre interi pomeriggi a giocare a pallone e a sparare con il fucile a piombini alle lumache, Tito è un’icona pop al pari di Tarzan, Pelè e Zanna Bianca.
“M’immagino delle battaglie strepitose. L’esercito tedesco da una parte, con i cannoni, i carri armati e così via, e dall’altra, il maresciallo Tito, Tarzan e Pelè”.
Anche gli eroi del comunismo, idolatrati da suo padre che gli promette l’acquisto di un vero pallone da calcio quando riuscirà a disegnare perfettamente il compagno Marx (“il più grande pensatore dell’umanità tu lo disegni rachitico”), sono cartoon colorati all’interno di un immaginario composito, quello del giovane Velibor, in cui già si intravede la stoffa del narratore di razza.
“Il nostro Dio comunista è anche lui grassottello e barbuto. Ma ha un nome da cane. Non è né Rex, né Lux, ma Marx. Sembra abbia scritto dei bei malloppi. Anche il suo migliore amico ha una folta barba ed è inglese come indica il suo nome: Engels. A volte ci mettono anche un russo – Lenin – insieme a loro sui manifesti, altre no. Non sappiamo bene come fare e il nostro maestro Tzane nemmeno”.
Un libro-mosaico
Nonostante il sottotitolo porti la dicitura Romanzo inventario, il lavoro di Čolić, a differenza del libro di Vasile Ernu, Nato in Urss, non si avvale della struttura narrativa da simil abbecedario che caratterizza il racconto dello scrittore della Bessarabia. Le due opere narrative, sebbene entrambe ritraggano con una prosa brillante e ironica, talvolta venata di nostalgia, due mondi ormai scomparsi, quelli dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia, appartengono a generi letterari diversi.
Mentre i capitoletti del libro di Ernu sono simili ai tasselli di un puzzle che, una volta ricomposto, ci fornisce immagini dettagliate dell’universo sovietico attraverso l’epica dei cosmonauti, il rock-jazz degli Stiliagy, i racconti sulla distillazione domestica di vodka e quant’altro, quelli di Čolić sono tessere di un unico mosaico policromo che dà vita a un vero e proprio romanzo di formazione.