Bosnia, aziende italiane e covid19: tentativi di futuro

Agire subito, soprattutto su politiche di lungo respiro e in maniera coordinata: è emerso da uno studio sulle possibili risposte alla crisi provocata dalla pandemia Covid-19, presentato mercoledì 27 maggio dall’Ambasciata d’Italia a Sarajevo e basato sulla consultazione di 51 aziende con sede in Bosnia che lavorano in stretto contatto con l’Italia

29/05/2020, Nicole Corritore -

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Lavoratrici a Bratunac (© Giovanni Vale/Shutterstock)

L’Italia è il secondo maggior partner commerciale della Bosnia Erzegovina e uno dei suoi mercati di esportazione più importanti. Nel 2019, lo scambio commerciale tra i due paesi è stato di oltre 1,8 miliardi di euro. Rapporti commerciali che, secondo lo studio "Battling COVID-19: Perspectives from the Italian Companies in BiH" presentato via webinar mercoledì 27 maggio , rischiano di subire un duro contraccolpo e con conseguenze di lungo periodo.

Lo studio, condotto da Jasmin Hošo della "School of Economics and Business " dell’Università di Sarajevo in collaborazione con Emina Hošo e promosso dall’Ambasciata d’Italia a Sarajevo, si basa su un questionario compilato tra il 10 aprile e il 7 maggio da 51 aziende (sulle 75 contattate) con sede in Bosnia Erzegovina, italiane, miste o con forti rapporti con l’Italia.

In apertura d’incontro, dopo i saluti dell’Ambasciatore Nicola Minasi, è intervenuto Andrea Cascone, Direttore per l’Adriatico e i Balcani – Direzione generale per l’Unione Europea del MAECI. Ha definito importanti i dati emersi, utili all’attività di raccolta di informazioni che il MAE sta facendo in tutti i paesi con presenza italiana, per capire i problemi da affrontare e le proposte per superare la crisi legata alla pandemia. “La pandemia”, ha dichiarato, “da un certo punto di vista ha dimostrato quanto l’integrazione dei Balcani nell’Unione europea sia già effettiva sul piano economico e sociale, diversamente da quello politico. Una crisi che rappresenta una sfida su differenti piani, e che va affrontata immediatamente”. Necessario intervenire, ha concluso, per permettere al paese di reggere, al di là dei fondi annunciati  dalla Commissione europea (3.3 miliardi di sostegno finanziario per i Balcani occidentali), e affrontare le esigenze sanitarie e sociali a seguito della pandemia Covid-19 e favorire la ripresa economica.

“Le 51 aziende del settore privato coinvolte nella ricerca hanno dichiarato di aver ottenuto nel 2019 un reddito di impresa totale di 464 milioni di KM (circa 237 milioni di euro) – di cui 252 quelle in Republika Srpska e 212 le aziende della Federazione croato-musulmana”, ha affermato Jasmin Hošo, aggiungendo che per il 2020 a causa dell’emergenza da pandemia, l’84.7 % si aspetta un forte calo reddituale d’impresa: più della metà (54.3%) una riduzione superiore al 30%, un altro terzo (30.4%) prevede un calo tra il 21 e il 30%.

"Inoltre in questo periodo quasi il 50% dei lavoratori di queste aziende non ha lavorato: su un totale di 8.720 lavoratori (5131 in RS, 3566 in Fed) il 70% delle aziende ha dichiarato di aver dovuto mettere molti lavoratori in congedo forzato, esattamente 3.895”, ha chiarito Hošo. Un dato che si inserisce in un quadro in cui al 31 gennaio 2020 risultavano 406.147 le persone iscritte alle liste di collocamento, attestandosi sul dato percentuale di disoccupazione del 32.6% dichiarato al 31 dicembre 2019 dall’Agenzia del lavoro della BiH.

"Lavoratori che – ha aggiunto Lazo Šinik, Segretario dell’Associazione di silvicoltura e lavorazione del legno della Camera di Commercio della Republika Srpska – si trovano ora in congedo temporaneo, al 50% dei loro stipendi per la durata di 45 giorni, laddove il reddito mensile medio in RS è di 920 KM, circa 460 euro".

Ma soprattutto, ha concluso Šinik, i dati a disposizione della Camera di Commercio della RS indicano che molte aziende si trovano ora nel dilemma se interrompere il congedo e licenziare. “E considerato che le possibili misure di sostegno statali sono ancora in discussione, le aziende non sanno cosa fare con i propri dipendenti”, ha concluso, "senza contare coloro che non hanno già rinnovato i contratti a tempo determinato, nel frattempo scaduti".

Per quanto tempo le aziende pensano di poter reggere la situazione, senza dovute misure di sostegno statale, è una delle domande centrali poste dal questionario.L’84.4% degli intervistati ha risposto tra i 30 e i 90 giorni, ed esattamente: solo 30 giorni per il 31.1%, 60 giorni per il 40%, tre mesi per il 13.3% delle 51 aziende.

Su questo punto è intervenuto Giuseppe Franchi, proprietario della Bosankar d.o.o. di Bosanska Krupa: “Prevedo che il contributo statale a sostegno dei lavoratori sarà forse l’unico aiuto futuro, per altro panacea temporanea. Nonostante la pandemia abbia avuto impatto internazionale, per la Bosnia Erzegovina non mi pare si stiano mettendo in campo strategie particolari. Penso quindi che molto dipenderà da noi aziende, dal nostro commercio con l’estero, visto che esportiamo parecchio”. Il rapporto con l’estero emerge fortissimo in alcune risposte: il 93% ritiene che il proprio business dipenderà dal business in Italia, sebbene solo il 42.2% degli intervistati ritenga che la casa madre o partner italiano sarebbe in grado di aiutare finanziariamente.

A proposito del tema, Samir Serdarević, proprietario e direttore della Domus Arredi doo di Zenica, ha aggiunto: “Quando dall’Italia sono tornato a vivere in Bosnia e aperto l’azienda nel 2008, non ho ottenuto nessun aiuto di stato. Dai 110 operai di allora sono arrivato ai 40 di oggi e probabilmente sarò costretto a diminuirli ancora, ma per diversi motivi. Ne cito solo due: innanzitutto abbiamo grossi problemi con l’Italia, dove dovrebbero pagarci le consegne a 90 giorni invece siamo ormai arrivati a 180, mentre qui dobbiamo continuare a pagare regolarmente stipendi, tasse, etc. E parlo di forniture consegnate prima dello scoppio della pandemia, periodo questo in cui in Italia le banche non hanno mai chiuso e i pagamenti potevano essere fatti… E poi abbiamo lavoratori che continuano ad abbandonare il paese, mentre il governo continua a non fare assolutamente nulla per fermare il flusso migratorio”.

Sull’inattività politica, si trova d’accordo Giuseppe Franchi: “In Bosnia sussiste un effetto Covid permanente! Che non dipende dalla pandemia ma dalla (non) politica di questi anni. Ho aperto l’azienda 15 anni fa e la situazione è costantemente peggiorata. Ritengo che si debba avviare un forte dialogo con le istituzioni locali, e spero che si concluda presto l’iniziativa di apertura di una Confindustria BiH di cui parliamo da tempo”. Un’iniziativa di cui si era discusso anche durante il Forum economico organizzato dall’Ambasciata d’Italia a Sarajevo lo scorso 29 novembre. A questo proposito, ha risposto l’Ambasciatore Minasi, si sta attendendo da Roma il definitivo via, presto si arriverà a rendere l’associazione operativa e organizzare un primo incontro a Sarajevo.

Non è del tutto d’accordo con Franchi, Andrea Zaninelli della Global Shoes Service d.o.o. di Lipnica (Tuzla): “Anch’io opero qui da 15 anni e ritengo che la situazione non sia né migliorata né peggiorata. L’apporto dello stato non è mai cambiato. Molto invece dipende dalle politiche delle aziende italiane che arrivano: devono venire per garantire un futuro alle loro iniziative e dunque ai lavoratori, non con l’idea di “sfruttare l’occasione” con bassi costi, come si è visto fare ad esempio in Cina in passato…”. Ricorda inoltre che nel suo settore si era già in crisi, si faticava a produrre, distribuire e vendere, per cui la pandemia si è inserita in una situazione preesistente. Ritiene che non avrebbe bisogno di aiuti di stato ed auspica un cambiamento di paradigma: “In questo paese vi sono margini interessanti di investimento per piccole e medie imprese, ci sono personale qualificato e settori da sviluppare, ma in Italia si deve fare un’informazione diversa sul paese e non presentarlo come un luogo dove produrre a basso costo. E poi devono cambiare le regole: a causa dei bassi prezzi imposti dal mercato, ad esempio, in coscienza non so se me la sentirò in futuro di imporre ai lavoratori stipendi da fame…”.

Secondo Dražen Vidović, direttore della Dubicotton doo di Kozarska Dubica, mancano politiche di lungo respiro, e negli ultimi due mesi solo a sostegno di aziende che hanno interrotto il lavoro: “Noi, che abbiamo continuato a produrre siamo stati completamente esclusi, pur avendo dovuto aumentare gli stipendi a causa del turnover… In Bosnia ci sono lavoratori in gamba, molto competenti, ma rischiamo di perderli se non si agisce subito a livello politico, nei prossimi due mesi. E dobbiamo farlo insieme: l’Ambasciata, Confindustria, le Camere di Commercio locali, l’Unione dei datori di lavoro”.

Dalle risposte delle 51 aziende emergono anche alcune misure considerate necessarie per poter superare la crisi, tra le quali: diretto supporto al salario, ammortizzatori sociali, abbassamento o congelamento del costo del lavoro, differimento del pagamento dell’IVA, proroga delle scadenze di rate e mutui per i lavoratori, etc.

Le imprese italiane in Bosnia, ha concluso l’ambasciatore Minasi, hanno un ruolo cruciale e ciò che accade loro incide sensibilmente sull’economia locale: “Ecco perché le indicazioni su problemi e opportunità emerse da questo studio sono importanti per l’intero sistema paese, e verranno prese in considerazione in prossime iniziative”.

Lo studio

Si veda lo studio in formato pdf , scaricabile dal sito dell’Ambasciata d’Italia a Sarajevo

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