Balcani occidentali: non fabbriche, ma sadiche camere di tortura
Lo stato dell’arte, nei Balcani occidentali, delle lotte per il lavoro e dei sindacati
(Pubblicato originariamente da Kosovo 2.0 il 29-09-2022)
Con stivali in gomma alti fino al ginocchio e abiti da lavoro, nel proprio orto a Tuzla, Bosnia Erzegovina, Emina Busuladžić, ora in pensione, trasuda la stessa energia che l’ha aiutata a guidare una lotta pluriennale per la sopravvivenza della DITA, la fabbrica di detersivi della città. Per far rinascere la fabbrica danneggiata dalla guerra e affossata da processi corrotti di privatizzazione, Busuladžić ha fatto sciopero della fame, occupato la fabbrica resistendo alla polizia, guidato i manifestanti per le strade e una volta si è perfino sdraiata in mezzo ad una strada per preservare le prove di crimini finanziari legati alla privatizzazione della fabbrica.
Figura carismatica, è divenuta simbolo delle lotte dei lavoratori in tutto il paese. Ma non è l’unica. Conflitti per l’indipendenza dei sindacati e per i diritti dei lavoratori sono in corso in tutta la Bosnia.
Nella transizione dal socialismo al mercato capitalista non sono state solo le aziende e le imprese a trasformarsi, ma anche i sindacati e le organizzazioni dei lavoratori. In pochi, oggi, ripongono fiducia nei grandi sindacati del passato socialista, mentre piccoli sindacati indipendenti stanno combattendo contro atti intimidatori e pressioni dei dirigenti d’azienda in Bosnia, Serbia, Albania e oltre.
Anđela Pepić, dottoranda di Banja Luka che studia il ruolo dei sindacati nella Bosnia odierna, afferma che sebbene i sindacati abbiano ancora potere, il loro ruolo è stato notevolmente ridimensionato nei decenni passati. Con la transizione dal socialismo al capitalismo, “i sindacati sono stati costretti ad arrangiarsi, ad adattare le loro attività al nuovo sistema”.
L’adattamento è stato reso ancora più difficile, secondo Anđela Pepić, dagli sforzi delle élite politiche ed economiche per mantenere i lavoratori docili e privi di potere rappresentativo. La repressione sindacale è comune, “esemplificata da minacce di licenziamento e tentativi di corrompere attivisti sindacali e leader”, afferma, aggiungendo che alcuni sindacati sono politicamente compromessi.
Marko Miletić, redattore di Mašina con sede a Belgrado, testata web focalizzata su questioni lavorative, descrive i sindacati della Jugoslavia socialista come un cuscinetto tra il governo e i lavoratori insoddisfatti. “Erano efficienti nel risolvere problemi lavorativi individuali, ma trascuravano completamente la lotta collettiva, di classe”, dice Miletić. “Negli anni ‘90, questi sindacati si sono trovati di fronte alla domanda: qual è il ruolo dei sindacati nel capitalismo? Sfortunatamente, molti di loro devono ancora trovare una risposta adeguata”.
Anche se stati e imprenditori hanno portato avanti politiche svantaggiose per i lavoratori, afferma, ci sono ancora molte persone che lottano per migliorare la posizione dei lavoratori. “Spero che alcune di queste persone siano in grado di infondere nuova vita al movimento sindacale in tutta la regione”.
Una rivolta nella fabbrica di detersivi
La fabbrica di detersivi DITA, a Tuzla, è stata fondata nel 1977 grazie ad una partnership con un investitore italiano di Genova. Con nuove tecnologie e licenze occidentali, ha prodotto gran parte del sapone detergente della Jugoslavia.
La fabbrica ha continuato il suo lavoro fino al 1992, quando la guerra ne ha interrotto la produzione. Per molti anni dopo, la fabbrica ha faticato a rimettersi in piedi. Aveva perso il mercato jugoslavo e prodotti più economici provenienti dall’Europa occidentale inondarono il mercato bosniaco. Solo nel 2001 il governo ha deciso di privatizzare la DITA.
Quando è iniziato la prima delle molteplici fasi di privatizzazione, la fabbrica aveva 780 lavoratori. Attraverso anni di cattiva gestione, prestiti sospetti presi dai nuovi proprietari e contratti dubbiosi, la DITA venne ridotta e infine chiusa. Nel 2012 il proprietario chiuse la fabbrica e iniziò a vendere le attrezzature. Gran parte degli operai perse il lavoro.
Lo smantellamento totale della fabbrica è stato però ritardato da cause giudiziarie e investigazioni su potenziali atti criminali legati al processo di privatizzazione. Nel 2013 erano rimasti 119 operai, che da mesi non ricevevano stipendi, assicurazione sanitaria e contributi pensionistici. Nonostante ciò, si rifiutarono di lasciare la fabbrica. Busuladžić era tra loro. I proprietari dell’azienda vennero accusati di azioni sospette e Busuladžić ricorda che il loro sindacato, anziché guidare la lotta, era in silenzio. Tutto era in mano ai soli lavoratori.
Successivamente, la loro battaglia per i propri diritti si intensificò e Busuladžić invitò i lavoratori a disobbedire ai dirigenti. Seguirono cause legali, accuse, scioperi. Busuladžić venne punita con una riduzione dello stipendio e un cambio di mansioni; invece di lavorare in laboratorio come ha fatto per anni, le venne dato il compito di pulire i bagni.
“Quei pazzi non sapevano che stavano sbagliando tutto, mi hanno solo resa più forte”, racconta Emina, quasi un decennio dopo.
Un altro sciopero dei lavoratori della DITA avvenne ad inizio 2014. Ben presto altri lavoratori di Tuzla e delle aree limitrofe si unirono alle proteste e in breve il movimento si diffuse in tutto il paese. Quella che sarebbe diventata nota come Primavera bosniaca imperversò nei centri urbani, dove i cittadini manifestarono contro la corruzione del governo e la compiacenza di fronte a disoccupazione e povertà diffuse. Alla fine delle proteste alcuni edifici governativi erano stati dati alla fiamme e numerosi funzionari dei governi locali erano stati obbligati alle dimissioni.
Alla fine i lavoratori della DITA hanno vinto, anche se solo in parte. I lavoratori rimanenti hanno gestito una riapertura limitata della produzione, ma alla fine, l’unico modo per tenere in vita l’azienda, è stato quello di un nuovo proprietario che potesse fare nuovi investimenti e assolvere ai debiti. Nel 2015, la DITA ha trovato un nuovo proprietario che ha accolto parte delle richieste dei lavoratori. Busuladžić, però, era arrivata alla fine della battaglia. È andata in pensione nel 2017, ma solo dopo che il nuovo proprietario l’aveva espulsa dalla fabbrica, temendo che potesse guidare una nuova ribellione. Quando se ne è andata, la fabbrica le doveva ancora 65 mesi di stipendi.
Minatori, lavoratori del settore petrolifero e personale dei call center
Dopo la caduta del regime di Hoxha nei primi anni ‘90, in Albania iniziarono a prendere forma sindacati indipendenti. I loro militanti si battevano per i salari dei lavoratori e per le condizioni di lavoro, ma allo stesso tempo erano in conflitto con i sindacati socialisti ancora legati ai poteri forti.
“I sindacati hanno origini gloriose in Albania”, afferma Arlind Qori, docente e attivista per Organizata Politike in Albania. “Erano molto potenti nel 1991, quando sono riusciti a organizzare la classe operaia quasi ovunque. Sono riusciti persino a organizzare uno sciopero generale nell’aprile 1991, il risultato più alto raggiunto dalle nostre organizzazioni sindacali. I lavoratori di diversi settori lasciarono il loro lavoro e scioperarono contemporaneamente”.
Ma questo periodo di potere e attivismo sindacale ebbe vita corta. Ben presto i sindacati hanno iniziato a ridimensionarsi e a perdere il loro potere. “Nel 1992 è iniziato il processo di privatizzazione che non ha portato al recupero delle aziende ma nella maggior parte dei casi le ha portate alla fine”, afferma Qori.
Negli ultimi anni, gran parte dell’attivismo dei sindacati indipendenti in Albania ha riguardato esclusivamente le industrie pesanti: quella mineraria e petrolifera.
Nel 2020 i lavoratori dell’industria petrolifera fondarono un sindacato indipendente, la United Oilmen’s Union. Il catalizzatore per la creazione di questo movimento è stato lo smantellamento della raffineria petrolifera Ballsh dopo un cambio di proprietà. In questo processo, 800 lavoratori rimasero disoccupati e diversi mesi dei loro salari non vennero pagati.
Per l’occasione, il sindacato ha condotto una serie di proteste, incluso uno sciopero della fame di 42 giorni. Dopo i 17 giorni di proteste iniziali guidate da uomini del sindacato, sono stati direttamente i lavoratori a prendere in mano la situazione ed estendere lo sciopero a 24 giorni aggiuntivi. Sokol Dautaj, a capo del nuovo sindacato, afferma che si sono sentiti traditi dal vecchio sindacato.
Dautaj è ora senza lavoro a causa dello smantellamento della raffineria. A motivarlo, nel portare avanti le sue campagne, è l’obiettivo di ottenere dal nuovo proprietario i 13 mesi di stipendio arretrato di alcuni suoi colleghi, per un totale di 8 milioni di euro.
Sindacati indipendenti sono sorti anche in ambiti lavorativi meno tradizionali. Il sindacato Solidarity si è formato nelle sedi del call center più grande dell’Albania a causa dei licenziamenti di alcuni dipendenti di quest’ultimo. Come afferma Tonin Preci, leader di Solidarity, “non si aveva alcuna protezione come impiegato di call center” e non c’era alcuna speranza di essere sostenuti dai sindacati esistenti.
Durante la pandemia, Solidarity ha portato avanti lotte contro l’installazione di videocamere nelle case dei lavoratori, che i dirigenti volevano per monitorare il loro lavoro. “Abbiamo fatto tutto ciò che era in potere al nostro sindacato e questo provvedimento è stato alla fine cancellato”, spiega Preci, descrivendo questa battaglia come una delle più grandi vittorie di Solidarity.
Più tardi, durante la pandemia, Preci è stato licenziato dal call center per la sua appartenenza al sindacato. Ha menzionato altri otto casi di suoi colleghi che sono stati licenziati dopo che hanno reso pubblica la loro appartenenza sindacale. Hanno avviato una causa in tribunale per licenziamento improprio, ma nel frattempo Preci ha difficoltà a trovare lavoro in qualsiasi altro call center.
Arlind Qori afferma che può essere difficile per i lavoratori formare i propri sindacati, indipendenti dalle aziende o dalle autorità. “C’è un periodo intermedio piuttosto pericoloso tra il momento in cui si fonda un sindacato e quando è sufficientemente forte e diffuso tra i lavoratori e in grado di proteggerli tutti, specialmente i leader sindacali, da licenziamenti ingiusti”, afferma.
“Queste sono sadiche camere di tortura”
La fabbrica di cavi sudcoreana Yura Corporation ha iniziato la sua produzione in Serbia nel 2010. Ben presto ha aperto diverse filiali nel sud del paese: Leskovac, Niš e Rača. Gli stabilimenti, nati grazie ad un accordo con il governo, sono stati pubblicizzati come un mezzo per creare migliaia di posti di lavoro in un’area del paese economicamente depressa. Ma dopo aver aperto sono emerse le denunce dei lavoratori. Come hanno affermato alcuni durante le proteste del Primo maggio di quest’anno, “queste non sono fabbriche, ma sadiche camere di tortura”.
Anche se i lavoratori di Yura sono riusciti ad unirsi in organizzazioni sindacali prima della pandemia del 2020, i rappresentanti sindacali con più sostegno di Solidarity sono diventati bersagli. Dopo che Predrag Stojanović, sindacalista di Leskovac, ha parlato apertamente davanti ai media dei problemi in fabbrica, ha ricevuto un avviso di pre-licenziamento che lo accusava di aver svelato “segreti aziendali”.
Stojanović e Zoran Marjović, altro sindacalista, sono poi stati portati in tribunale da Yura. Il caso è ancora aperto. “Hanno fatto una causa contro di noi per aver presumibilmente danneggiato la reputazione dei dirigenti e l’affidabilità creditizia. Il problema principale, in realtà, era il nostro sindacato”, afferma Marković, notando che ci sono stati casi simili in tutta la Serbia.
Il presidente del sindacato indipendente Lavoratori Metalmeccanici della Serbia ha recentemente aperto un caso contro Yura, rivendicando che ai lavoratori sono vietati riposi giornalieri e settimanali.
‘Se volete lavorare, dimettetevi dal sindacato’
L’industria del legno era tempo fa uno dei simboli della Bosnia Erzegovina. La più vecchia impresa del settore, Nova Dipo, è attiva da oltre 180 anni in un piccolo paese chiamato Podgradci, nei pressi di Gradiska, vicino al confine con la Croazia nel nord del paese. L’azienda era statale durante il socialismo e venne privatizzata nel 2008. Sembrava che le cose andassero meglio con l’avvento del capitale privato, ma dopo qualche anno i lavoratori denunciarono un periodo di maltrattamenti e abusi da parte dei dirigenti.
Dopo una serie di licenziamenti e minacce, straordinari non pagati e perfino esclusioni dall’uso del bagno durante le ore lavorative, alcuni dei lavoratori decisero di formare il proprio sindacato. Circa 140 lavoratori vi si unirono fin dall’inizio.
Secondo il cofondatore del sindacato Milovan Tendžerić, i dirigenti convocarono i membri del sindacato dicendo: “Se volete lavoratore, dimettetevi dal sindacato”. Con tanto di dichiarazioni precompilate su cui dovevano solo apporre una firma per lasciare il sindacato. In seguito a quest’azione dei dirigenti, solo 40 lavoratori rimasero nel sindacato. Il tentativo del sindacato di ottenere supporto dai sindacati settoriali della Republika Srpska non portò a nessun risultato.
Nel mentre, alcuni lavoratori vennero messi in cassa integrazione e altri vennero assunti al loro posto. Almeno uno è stato licenziato mentre era in malattia. La leadership sindacale vide queste azioni come tentativi per frammentare il sindacato stesso.
Milos Smitran, membro del consiglio del sindacato, è uno dei lavoratori licenziati. “Siamo stati temporaneamente sospesi nel marzo 2020. Il prerequisito per tornare a lavorare era di lasciare il sindacato. Non lo volevo fare, così sono stato licenziato”, dice Smitran.
Smitran afferma che i direttori organizzativi si sono presentati alla sua porta di casa ripetutamente, dicendogli che se avesse lasciato il sindacato, i direttori gli avrebbero permesso di tornare al lavoro. Al contrario Smitran ha aperto una causa contro l’azienda per chiedere due anni e otto mesi di salari arretrati. Le procedure del tribunale sono andate avanti per anni e sono state rimandate già due volte.
L’azienda ha dichiarato che la sindacalizzazione non ha niente a che fare con le casse integrazioni.
Tendžerić sottolinea come i sindacati hanno poca possibilità di manovra. Oggi, il sindacato Nova Dipo esiste solo sulla carta. Smitran e Tendžerić ricordano come furono indicati come ribelli a Podgradci. Smitran è stanco e non ha più intenzione di lottare, mentre Tendžerić si sta preparando per le prossime battaglie.