Armenia: violenza domestica e pandemia, le case sono una prigione

L’Armenia non fa purtroppo eccezione. Anche lì, come in molti altri paesi al mondo, il lockdown ha portato ad un incremento di casi di violenza domestica. La storia di Anna

28/01/2021, Armine Avetisyan - Yerevan

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Donna alla finestra durante il lockdown (© Tatyana Blinova/Shutterstock)

“Paradossalmente consideravo le ore sul lavoro come ore in cui potevo finalmente riposarmi. C’è stata una fase in cui vivevo in continuo allarme”, racconta Anna (il nome è stato cambiato su sua richiesta), 35 anni.

Da marzo 2020, a causa della pandemia di coronavirus, in Armenia come in molti altri paesi è stato dichiarato lo stato di emergenza e molti si sono trovati a lavorare da remoto. Tra loro anche Anna, che lavorava in un call center.

“Data la tipologia del mio lavoro abbiamo iniziato a lavorare da casa. Dovevo rispondere al telefono, registrare l’ordine e poi supervisionarne la consegna. Parlo costantemente al telefono e immaginate di farlo davanti ad un marito ubriaco che non aspetta che l’occasione per insultarmi e picchiarmi”.

Anna si è sposata sette anni fa. Da subito sono accaduti episodi con il marito ubriaco che rompeva piatti e la picchiava. Se in passato questo accadeva una o due volte al mese, durante l’isolamento è avvenuto più volte a settimana.

“Non passava settimana senza litigi in casa nostra. Ci sono stati casi in cui lui mi tirava per i capelli e mi schiaffeggiava mentre io parlavo al telefono. Alla fine ho dovuto chiedere le ferie. Mi vergognavo e rischiavo il licenziamento”. Il marito di Anna non ha un lavoro fisso. È muratore e lavora saltuariamente. Giustificando il marito, Anna sottolinea che a causa del coronavirus la vita nel mondo si è fermata e così è venuto a mancare anche il lavoro di suo marito. Così è finito in depressione e ha iniziato a ubriacarsi quasi ogni giorno, diventando più aggressivo.

Aumentati i casi di violenza domestica

A causa della pandemia in molti paesi del mondo sono state introdotte rigide restrizioni alla circolazione, con numerosi inviti a rimanere a casa. In molti paesi sono state introdotte quarantene obbligatorie. Poco dopo sono arrivate le prime segnalazioni di un aumento dei casi di violenza domestica. L’Osce ha invitato i governi ad adottare misure per proteggere donne e bambini, poiché non sempre la casa è per loro un rifugio sicuro.

"Nel combattere l’emergenza sanitaria gli stati non debbono dimenticarsi di proteggere il diritto ad una vita senza violenza per donne e bambini. È quanto mai necessario adottare immediatamente misure adeguate per salvaguardarne la sicurezza mentre le famiglie sono in isolamento”, ha dichiarato Thomas Greminger, segretario generale dell’Osce.

La problematica si è acuita anche in Armenia. Come emerso da vari studi, i casi sono aumentati dal 15 marzo scorso, quando quasi tutti sono rimasti a casa per circa un mese dopo la dichiarazione dello stato di emergenza. Tra il 16 marzo e il 20 aprile 2020, le organizzazioni parte della "Coalizione per fermare la violenza sulle donne" hanno registrato 803 segnalazioni di casi di violenza domestica, circa il 30% in più rispetto allo stesso periodo del 2019.

L’ONG "Women’s Support Center" ha ricevuto 79 chiamate in aprile, il 50% in più rispetto allo stesso periodo del 2019. Il 50% delle chiamate ricevute da questa ONG sono correlate alla richiesta di assistenza sociale per le vittime di violenza domestica.

Nei primi giorni della dichiarazione dello stato di emergenza, anche l’Ufficio del Difensore dei Diritti Umani ha registrato un aumento dei casi di violenza domestica: in particolare, nel periodo dal 15 marzo al 20 aprile, sono state 15 le segnalazioni di violenze domestiche (a fronte di 5 casi registrati nel marzo 2019).

“I violenti sono divenuti ancor più aggressivi durante il lockdown. È anche un problema psicologico. Erano a casa, rinchiusi, col rischio di perdere il lavoro, tutti fattori che aumentano il nervosismo. Anche le donne non andavano a lavorare e rimanevano vittime, a casa”, sottolinea Hasmik Gevorgyan, responsabile del Women’s Support Center.

Il coronavirus e il conflitto

In autunno, poi, la situazione in Armenia è cambiata. A piccoli passi la vita sembrava tornare alla normalità. A partire da settembre 2020 la pandemia sembrava in recessione e i nuovi casi diminuivano di giorno in giorno. Molti stavano già tornando a lavorare in presenza, anche le scuole riaprivano, ma il tutto è durato poco. E il conflitto per il Nagorno Kharabakh avviato dall’Azerbaijan non ha certo migliorato le cose.

Insieme ai combattimenti, il coronavirus è tornato ad imperversare in Armenia. In termini di tassi di infezione, l’Armenia è tornata ai drammatici livelli di giugno, quando è stato registrato il maggior numero di infezioni e il sistema sanitario era completamente impegnato a gestire la pandemia. Gli specialisti hanno spiegato l’aumento dell’infezione principalmente con la situazione al confine: la tensione in prima linea e le notizie delle vittime e dei feriti avevano reso la malattia una preoccupazione secondaria per molti e la vigilanza della gente si è indebolita.

A novembre le azioni militari sono terminate. Parallelamente, il numero di nuovi casi di coronavirus ha iniziato a diminuire. Il sistema sanitario ha cominciato a respirare. Nonostante i numeri siano sotto controllo anche in queste prime settimane dell’anno, il ministero della Salute ha recentemente annunciato un prolungamento delle misure emergenziali sino all’undici luglio 2021.

Allo stesso tempo, tenendo conto dell’attuale situazione pandemica in Armenia, sono state attuate alcune mitigazioni delle restrizioni. Ad esempio gli stranieri possono fare ingresso nel paese attraverso i valichi di frontiera terrestre, ma solo con un esito negativo al tampone non più vecchio di 72 ore. È anche possibile fare un test al confine e auto-isolarsi fino all’esito. Tuttavia altre restrizioni continuano a rimanere in vigore, come indossare la mascherina.

"L’Armenia è aperta, ma il mondo si chiude", commenta Anna, il cui marito solitamente all’estero per lavoro è ancora in Armenia. "Non può andare all’estero perché la Russia non lo accetta. La Russia ha annunciato alcune aperture, ma mio marito non vi rientra, non sono ancora accettati i lavoratori del suo settore”.

In questi giorni il marito di Anna sta lavorando per un privato. Anna racconta che ha anche preso parte alle azioni militari durante il recente conflitto. Sebbene gli episodi di violenza siano ora diminuiti, non esclude che si ripetano.

“Conto i giorni in cui si apriranno i confini del mondo. Sento che la pace nella nostra famiglia non durerà a lungo. Se mio marito resta a casa ancora un po’ finiremo con il lasciarci. Il nostro stile di vita è organizzato in modo tale che di tanto in tanto dobbiamo vivere lontano l’uno dall’altro. Forse il coronavirus finirà per distruggere la nostra famiglia”, dichiara questa donna che, come molte altre, purtroppo non ha ancora trovato l’aiuto necessario per uscire dal suo incubo.

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