Alla ricerca della rotta albanese

Un immobile saliscendi di terra rossa, alberi bassi e rocce bianche. L’Albania guarda al suo confine meridionale con apprensione: si dice pronta ad accogliere eventuali rifugiati ed allo stesso tempo aumenta i pattugliamenti. Un reportage

14/03/2016, Giovanni Vale - Tirana

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Lungo la frontiera greco-albanese - foto di Giovanni Vale

Arbusto, arbusto, arbusto, pecora… Binocolo alla mano, un agente delle forze speciali della polizia albanese scruta con attenzione i colli che marcano l’inizio del territorio greco. Davanti ai suoi occhi, si snoda un immobile saliscendi di terra rossa, alberi bassi e rocce bianche che reagiscono appena alle intermittenti folate di vento.

Tra una chiazza e l’altra di questa vegetazione, le autorità di Tirana temono che possa aprirsi la cosiddetta “rotta albanese”, la nuova via migratoria che porterebbe in Albania (e forse in Italia) migliaia di rifugiati bloccati in Grecia. E se le alture di Kapshticë sono per il momento avvolte in un beato silenzio, nella capitale albanese sono comunque monitorate in tempo reale, perché questo, spiegano i poliziotti, è il valico di confine più vicino al campo di Idomeni.

Alla ricerca di una soluzione comune

“La domanda non è se i migranti verranno o meno in Albania, ma piuttosto quando verranno”. Sono quasi le undici di sera a Tirana, quando Saimir Tahiri, il ministro dell’Interno albanese pronuncia questa frase, nel suo ufficio alla Guardia repubblicana. “E’ stata una lunga giornata”, ha commentato prima di lasciarsi cadere sulla poltrona di pelle e dopo aver appoggiato la sua cravatta gialla sulla scrivania. “Finché continueranno gli sbarchi in Grecia, sarà una questione di giorni o settimane: è normale, è umano che queste persone cerchino un’altra via”, prosegue il ministro, che ammonisce: “Ciò che è certo è che, quando questo accadrà, se non ci sarà una soluzione comune, sarà un problema, e non soltanto per l’Albania ma per tutta l’Europa”.

Nell’attesa di una “soluzione comune”, che tra i 28 latita da quando la “crisi dei rifugiati” è iniziata più di un anno fa, Tirana sta intanto prendendo i suoi provvedimenti. Da un lato, ci si prepara all’eventualità che la rotta “ufficiale” sia deviata, come avvenuto più a nord in seguito alla chiusura della frontiera serbo-ungherese e croato-ungherese negli ultimi mesi del 2015. Dall’altro, si intensificano i controlli per evitare che i trafficanti anticipino le cancellerie europee proponendo ai rifugiati il passaggio attraverso l’Albania e, verosimilmente, il canale di Otranto. Il primo scenario comprende fitte discussioni diplomatiche e piani di emergenza umanitari, il secondo scambi di informazioni tra le forze di polizia della regione e, soprattutto, un rafforzamento dei controlli al confine greco-albanese.

Sulla possibile apertura di una nuova rotta sul suo territorio, l’Albania ha una politica chiara, che può essere riassunta più o meno così: Tirana non chiuderà le frontiere dinanzi ad un afflusso di rifugiati, ma si aspetta un supporto europeo per gestire il transito di persone, che non potranno restare sul suolo albanese se non per un breve periodo (data l’evidente mancanza di mezzi nel paese). Questa è tuttavia una parafrasi personale, necessaria a spiegare l’altrimenti enigmatica posizione di Glevin Dervishi, il portavoce del ministro degli Affari Esteri albanese. “Il confine non sarà chiuso, ma non sarà aperto”, confida con perfetta nonchalance Dervishi, probabilmente incurante delle regole della logica. L’Albania, se ne deve dedurre, “non alzerà muri” come peraltro assicurato dal Premier Edi Rama, ma non vuole nemmeno spargere la voce che i profughi siano benvenuti, anche perché, come vedremo, il paese non è per niente pronto ad ospitarli.

“Qualunque sia il numero di persone che possiamo accogliere, sarà comunque insufficiente”, risponde il ministro dell’Interno Tahiri alla domanda: “Quanti rifugiati può ricevere l’Albania in questo momento?”. Stando alle informazioni diffuse dalla stampa albanese, due “campi” sono già stati individuati dal governo nei pressi di Coriza (Korçë) ed Argirocastro (Gjirokastra) nel sud del paese. “Due caserme in rovina”, commenta un diplomatico europeo di stanza a Tirana, mentre la rappresentante dell’Unhcr in Albania, Marie-Hélène Verney, assicura “il paese non può accogliere oggi come oggi nemmeno cinque persone”. Secondo il piano elaborato da Verney, l’agenzia ONU e le autorità locali potranno comunque gestire un flusso di 1.000 persone ma solo per 5 giorni, poi serviranno più uomini e più risorse.

Questo primo scenario, infine, dà adito a diverse dicerie, riportate dalla stampa albanese. E’ vero che Atene sta facendo pressione su Tirana perché accetti alcune migliaia di rifugiati? L’Italia spinge nella direzione opposta al punto da infastidire la Grecia? I rappresentanti dell’esecutivo albanese negano categoricamente entrambe le affermazioni, anche se in Grecia la stampa parla di un gruppo di 162 rifugiati già trasferiti a Konitsa (a 12km dalla frontiera albanese) e anche se il ministro Alfano ha annunciato una visita a Tirana nei prossimi giorni…

Nell’avamposto di Ermal

Del secondo aspetto della rotta albanese, ovvero il controllo di quei canali criminali che potrebbero tracciare la nuova via alle spalle del governo, le autorità di Tirana non hanno difficoltà a parlare. Un accordo tra il ministro dell’Interno di Tirana e quello di Roma porterà nei prossimi giorni un certo numero di uomini e mezzi italiani (una ventina di agenti, secondo fonti stampa) proprio per meglio sorvegliare la frontiera con la Grecia. Allo stesso modo, il ministro Tahiri ha ordinato alle forze speciali della polizia di affiancarsi alle pattuglie locali lungo la linea verde (in totale – sempre secondo la stampa – 450 persone supplementari saranno dispiegate sui circa 300 km di confine con la repubblica ellenica).

Da Tirana, la strada che porta a questa fascia di terra improvvisamente sorvegliatissima dura tre ore e attraversa il variegato paesaggio rurale albanese, tra sagome bianche di ciliegi già in fiore e cupole arrugginite di bunker abbandonati. Al confine, il comandante della polizia di frontiera di Kapshticë, Ermal Zeka, siede nel suo ufficio accanto ad una stufa accesa. Sul suo computer, scorrono le immagini che arrivano dalle telecamere nascoste lungo i 57 km di confine che ricadono sotto la sua responsabilità. “Questo lo abbiamo fermato qualche giorno fa”, dice Ermal indicando una persona fotografata tra gli alberi, “è un albanese che ha lavorato in Grecia per più di tre mesi senza chiedere un permesso di lavoro e che quindi intendeva rientrare illegalmente”. “Questo, beh, questo no, non lo abbiamo fermato, abita qui vicino”, afferma l’agente mentre lo schermo visualizza un pastore attorniato da un gregge di pecore.

“Voi pensate che in Albania non ci sia la tecnologia necessaria, ma invece abbiamo tutto quel che serve”, prosegue sorridendo l’ufficiale originario di Tirana. Uno scanner per le impronte digitali e una connessione al database dell’Interpol permettono in effetti di verificare l’identità dei passanti, anche se sprovvisti di documenti. Quali sono gli ordini da eseguire nel caso in cui ci si imbatta in un rifugiato? Il comandante mostra i formulari già stampanti in albanese e arabo. “Il nostro compito è quello di identificare tutte le persone, poi, che facciano domanda di asilo o meno, i fermati vengono mandati a Tirana dove si completano gli accertamenti e dove si procede, eventualmente, ai rimpatri”. Non sono dunque previsti respingimenti direttamente al confine greco-albanese.

In ogni caso da due settimane la vita quotidiana di Ermal è cambiata notevolmente, non soltanto in seguito all’arrivo dei reparti speciali della polizia che “hanno praticamente raddoppiato le pattuglie a disposizione” (forti inizialmente di 50 persone), ma anche per via dei contatti più stretti con le autorità greche e le organizzazioni internazionali.

“Le mie giornate iniziano con un incontro con il corrispettivo greco che mi informa di eventuali movimenti, mentre l’IOM [l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr.] mi chiama ogni mattina alle 8:00, che sia lunedì o domenica”, confida Ermal allargando le braccia.

Dopo la visita alla stazione di polizia partiamo in fuoristrada verso la linea verde. Il resto della squadra è già nei pressi del cippo su cui sono incise le lettere “A” (Albania) e “E” (Ellada, Grecia). I rinforzi inviati da Tirana sono muniti di Kalashnikov e giubbotto antiproiettile, mentre i locali hanno solo la pistola di ordinanza. Tutti, passeggiano su e giù con la stessa aria annoiata, guardando di tanto in tanto le colline brulle a qualche centinaio di metri, ma gli avvistamenti nel binocolo sono sempre gli stessi: arbusto, pecora, arbusto… Il turno dura dodici ore e, la sera, il freddo cala velocemente. Chi arriva a dare il cambio indossa un visore notturno, perché i fuoristrada devono essere guidati a fari spenti. “Per il momento, solo chi guida ha un visore a disposizione, gli altri si devono fidare!”, afferma Ermal ridendo, poi aggiunge: “Sai, non credo che passeranno per di qua. Due terzi del confine sono ricoperti da montagne o da foreste fitte, se ti perdi, non ne esci più”.

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