Ajvar, figlio del sole

Nella regione di Leskovac, in Serbia Meridionale, la coltivazione dei peperoni (o "paprike") è una vera arte, perfezionata nei secoli. Dai frutti polposi e splendenti, la gente del luogo produce piatti e salse semplici e gustosi. Il vero protagonista della tavola è però l’ajvar, fragrante pasta di peperoni che si accompagna a salumi, formaggi a pasta morbida e carne di maiale. Un reportage OBC

03/04/2013, Francesco Martino - Brestovac

Ajvar-figlio-del-sole

Preparazione dell'ajvar - Ivo Danchev

“Sole ed acqua, acqua e sole. Ma soprattutto sole”. Con le mani, senza fretta, Stevica saggia il rosso pieno e polposo dei peperoni, splendente, opulento, striato dai riflessi caldi di una mattina di autunno appena iniziato. “Il nostro ajvar nasce così, da una combinazione semplice ed essenziale. E’ un distillato di questa terra, degli elementi del suolo e del cielo che la rendono feconda e viva”.

Brestovac, Serbia meridionale. Duemilacinquecento anime, qualche decina di chilometri a nord della città di Leskovac. Siamo nel cuore del “regno dei peperoni”, o meglio, della “paprika” come viene chiamato qui in Serbia il frutto dorato. E, naturalmente, dell’ajvar, fragrante pasta di peperoni (dolce o piccante), regina delle “insalate invernali” (zimnica) ed elemento imprescindibile ed odoroso della tavola per tutto l’anno.

L’ajvar (antica parola di origine turca, dall’etimologia prossima al termine “caviale”) viene prodotto in molti paesi dei Balcani Negli ultimi anni, in molti si sono accapigliati per rivendicarne proprietà esclusiva e ricetta originale. Se restiamo in Serbia, però, non c’è alcun dubbio: quello di Leskovac e dintorni, noto come “Leskovački ajvar”, non teme confronti, grazie alla tradizione secolare, alle particolari condizioni climatiche e al sole che, in media, qui splende per 270 giorni l’anno.

Ritenuto da molti semplice contorno, l’ajvar è in realtà molto di più: accompagna sì pane di granturco, salumi stagionati, formaggi a pasta morbida (il “sir”) e carne di maiale affumicata. Ma per chi lo produce e lo conosce, occupa un posto del tutto indipendente, e molto speciale, tra le prelibatezze della tavola.

Il campo di paprike della famiglia Marković, da dove tutto prende inizio, è ad appena un paio di chilometri dal paese. Da qui lo sguardo può spaziare lontano: a sud-est verso il profilo scuro delle montagne al confine con la Bulgaria, a ovest in direzione delle alture che si alzano in direzione del Kosovo. O sulla maestà silenziosa della valle del fiume Morava, ampia, ondulata, accarezzata dal vento ancora caldo che arriva da sud, dalla Macedonia.

“L’autunno è la stagione in cui si concentrano raccolta e produzione”, racconta Stevica, il capofamiglia, facendosi largo tra i lunghi filari puntellati di grappoli rossi. “Da inizio settembre a fine di ottobre, quando cade la prima brina, non ci si ferma un attimo. Tutto va fatto a mano: l’ajvar richiede pazienza, dedizione, e una famiglia unita. Proprio come la mia”, aggiunge orgoglioso, mentre un sorriso gli si allarga rapido fino agli occhi color del cielo.

Mentre chiacchieriamo, sua moglie Suncica, suo fratello Miodrag e nonno Slobodan continuano a raccogliere e a riempire grossi sacchi di iuta, che verranno poi caricati sul trattore fermo ai lati del campo.

A seguito della disgregazione violenta della Jugoslavia, e della crisi economica che l’ha accompagnato, il territorio intorno a Leskovac è oggi quasi del tutto deindustrializzato, e i livelli di inquinamento sono minimi. I Marković, però, prestano un’attenzione particolare affinché il loro raccolto sia libero da sostanze chimiche e dannose.

Come “diserbante”, ad esempio, utilizzano una ricetta antica quanto ingegnosa: ortica lasciata macerare in acqua per qualche giorno e poi spruzzata sulle foglie per abbassarne il pH, rendendole così indigeste ai parassiti. L’estremità dei filari è segnata da una bassa e odorosa siepe di piante di basilico, ormai quasi sfiorito, ma dalle foglie lucenti: altro rimedio tramandato da generazioni per tenere lontano ospiti indesiderati.

Per tornare dai campi al paese il tragitto è breve, giusto il tempo di salutare altri vicini che vanno o tornano, sempre in trattore. Tutti impegnati nella raccolta delle paprike. “Da queste parti, ogni famiglia le coltiva, senza eccezione”, ci dice annuendo Slobodan, per anni maestro nella scuola elementare di Brestovac. “Ci sono altre colture: la patata, il granturco, il cavolo cappuccio, anche viti e alberi da frutto. Ma qui il peperone è fonte di vita. Letteralmente”.

Raggiungere il mercato, soprattutto per i piccoli produttori, è però una sfida che diventa ogni anno più difficile. I canali di vendita, spesso informali, non garantiscono entrate regolari in tempi di crisi. E il problema della contraffazione e dell’abuso del nome “Leskovački ajvar” limita ancora di più le possibilità di vendita.

“Per farcela, non c’è che un modo: unire i propri sforzi, e puntare tutto su qualità e garanzia dell’origine del prodotto”, spiegherà qualche giorno più tardi, nella sua casa alla periferia di Leskovac, Miodrag Zdravković direttore dell’associazione “Leskovački Ajvar”. Al momento l’associazione, di cui fanno parte anche i Marković, conta 36 membri, e nel 2011 è arrivata a produrre circa 40mila “tegle” (barattoli) di ajvar. L’obiettivo primario, però, previsto per la fine 2012, è il riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata. “Un passo fondamentale per proteggere i nostri prodotti, ma anche garantire i consumatori. Perché chi compra, ha diritto di sapere cosa mangia”.

Nel grande cortile dei Marković, intanto, i sacchi vengono scaricati in fretta, e le paprike subito immerse in un bagno d’acqua gelata. Lavati e lucenti, passano subito al calor bianco di due stufe a carbone, ricavate segando a metà robusti fusti d’acciaio e piazzate in una larga rimessa sul retro della casa.

I peperoni crepitano e sfrigolano, dando vita ad un odore denso e penetrante, che riempie l’aria. Slobodan e Miodrag, addetti alla scottatura, li girano continuamente con gesti misurati, attenti. “Difficile dire quanto devono cuocere: non ci sono regole, né una tempistica precisa”, spiega Suncica, affacciata alla porta della rimessa. “Inutile usare orologi o bilance: quello che conta sono colpo d’occhio e l’esperienza accumulata negli anni”.

Una volta scottati, i peperoni vengono pelati. Un lavoro paziente e certosino, che occupa tutta la famiglia, e spesso l’intero vicinato. “Questo lavoro, all’apparenza umile, è un momento molto importante per la famiglia, e non solo dal punto di vista economico”, dice convinto Miodrag, mentre pela veloce, visibilmente di buon umore. “Quando si pelano le paprike si sta in circolo, e ci si guarda negli occhi. Ci si apre, ci si racconta. Qualche volta, naturalmente, si finisce anche per litigare. Ma è così che i legami diventano più forti, più profondi”.

Dopo una notte di riposo, le paprike vengono tritate. Poi la pasta di peperoni viene messa in un grosso calderone di alluminio, detto “kazan”. Inizia la cottura. “Non deve bollire, ma friggere”, spiega Stevica, mentre armeggia con una grossa pala di legno. “Bisogna armarsi di pazienza, e molta energia, perché il tutto va girato a mano, dall’inizio alla fine”. Durante la cottura, che dura alcune ore, si aggiungono gli altri (pochi) indispensabili ingredienti: sale, zucchero, olio di semi di girasole e aceto di vino. “E’ vero. Dopo un paio di mesi passati a rimestare”, confessa il padrone di casa, dietro un mezzo sorriso,“per un po’ dell’ajvar non sopporto nemmeno l’odore”.

Quando è pronto, il prodotto ha perso la metà del volume iniziale, guadagnando però consistenza e un odore unici. Dalla cucina al piano terra, Suncica ci chiama. Il pranzo è pronto. Sulla tavola ci aspettano “sarme” (involtini di foglie di vite) ripiene di riso, peperoni dal cuore di carne tritata, una zuppa di broccoli con gnocchi di uova e semolino, sapida e delicata. Al centro del tavolino, un paio di “tegle” di ajvar, ancora caldo, spandono la loro fragranza. Sembrano due piccoli soli purpurei, domati dal sapere mite, antico e tenace della gente di Brestovac.

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