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Abitare il conflitto’, una sintesi del convegno

Un documento firmato Osservatorio sul tema del conflitto e della riconciliazione nei Balcani, a partire dal recente convegno nazionale "Abitare il conflitto: c’è pace senza riconcliazione?"

03/03/2003, Redazione -

Elaborare il conflitto: la quarta tappa nel percorso dell’Osservatorio

Nei due anni di attività dell’Osservatorio sui Balcani abbiamo cercato di tracciare un percorso di riflessione allo scopo di mettere a fuoco il presente balcanico, guardando a questa regione consapevoli della modernità dei processi in corso e dell’interdipendenza che ci lega. In un’immagine, ai Balcani come specchio del nostro stesso presente.

L’itinerario di ricerca che abbiamo proposto è fin qui riconducibile a quattro piste di lavoro, che corrispondono a seminari, convegni e dossier analitici proposti dall’Osservatorio sui temi dell’integrazione europea dei Balcani, sui dieci anni di cooperazione con il sud est Europa, sullo sviluppo locale autosostenibile e, da ultimo, sull’elaborazione dei conflitti e le strade della riconciliazione.

Ripercorrendo questo cammino, il punto d’avvio si trova nella riflessione sul rapporto tra Europa ed area balcanica e sulle prospettive concrete del processo d’integrazione nell’Unione Europea. Con il convegno svolto nell’ambito di Civitas a Padova nel maggio 2001, l’Osservatorio ha indicato una prospettiva di lavoro che troverà da lì a breve il suo sviluppo nell’appello ‘L’Europa oltre i confini’, per un’integrazione dei Balcani nell’Unione Europea che sia rapida, sostenibile e dal basso. L’appello ha fatto anche da sfondo alla manifestazione dell’aprile 2002 a Sarajevo nel decennale dell’inizio dell’assedio, che ha portato per la prima volta un presidente della Commissione Europea – Romano Prodi – in visita nell’area balcanica.

Quella dell’integrazione appare oggi come una prospettiva politica ineludibile, tanto per l’Europa ed un suo futuro oltre la dimensione economico-finanziaria, quanto per una pace stabile nell’intera regione sud orientale. Abbiamo maturato la convinzione che l’agenda politica balcanica possa uscire dal perverso meccanismo del consenso etnico-nazionalistico solo attraverso un forte ancoraggio al contesto europeo, sul piano delle prospettive politiche come su quello delle regole comunitarie in materia di rispetto dei diritti della persona e dell’ambiente. E insieme siamo convinti dell’intuizione che l’Europa vada costituendosi come nuova polarità nella tendenza all’impero, diventando il vero elemento di contraddizione dentro una globalizzazione che tende ad omologare ed escludere.

Questa prima pista di lavoro si articola in un programma di iniziative con le quali si intende coinvolgere le capitali dell’Europa sud orientale fino al 2007, tramite il rafforzamento della rete ‘Europe from below’ e la campagna per il superamento dei visti avviata dal ‘Citizen’s Pact’. Il prossimo evento ipotizzato in proposito, dovrebbe svolgersi nel 2003 a Belgrado, collegando simbolicamente le due facce dell’Europa lungo il Danubio.

La seconda pista di lavoro avviata dall’Osservatorio, riguarda l’analisi e la riflessione sui dieci anni di intervento internazionale e cooperazione con il sud est europeo. Il primo passo è stato il Convegno di Trento del novembre 2001, dove alla denuncia dei meccanismi perversi che hanno creato il ‘circo umanitario’ – tema venuto successivamente alla ribalta con i libri di Tony Vaux, Giulio Marcon ed altri, e con la puntata della rubrica televisiva Reporter – si è unita la valorizzazione di modalità diverse di fare cooperazione.

Una riflessione che affonda le proprie radici negli anni ’80, quando la corruzione altro non ha rappresentato che la parte più evidente di una modalità di intervento nelle aree di crisi che ben presto si è rivelata come una forma di neocolonialismo. Così, a fronte dell’invasività e dell’insostenibilità di una cooperazione internazionale che creava devastazione (culturale e non solo) e dipendenza, si è stretto un intreccio sempre più perverso fra azione militare e intervento ‘umanitario’.

Sono saltate le vecchie chiavi di lettura della realtà con la messa in discussione dei parametri tradizionali dello sviluppo, l’internazionalizzazione dell’economia nella sua dimensione sempre più finanziarizzata, che svuota di significato il concetto stesso di paesi in via di sviluppo, la crisi degli stati nazionali che rende obsoleto il principio di autodeterminazione. Così, nel mutato contesto globale, le nuove guerre rappresentano i tratti estremi della modernità. Scenari nei quali la cooperazione internazionale o cambia pelle o diviene la mano pelosa del nuovo ordine imperiale.

Connesso al tema della sostenibilità della cooperazione c’è quello dello sviluppo locale nei Balcani, nodo essenziale per evitare a quest’area di divenire periferia deregolata nello scenario globale. Proprio tale è invece oggi l’esito delle guerre e la realtà economica e sociale di questa regione, terreno fertile in quanto privo di regole e tutele del lavoro e della salute, dove si sviluppano le forme più dure dell’economia finanziaria intrecciata alla criminalità organizzata e segnata da gerarchie sociali di tipo neofeudale. Questa è purtroppo la deriva post moderna dei Balcani, immensa area offshore nel cuore dell’Europa.

Diverso è il tentativo che ruota attorno alle esperienze dello sviluppo locale, concetto semplice e spesso banalizzato perché ridotto ad una fotografia regionale dei flussi dell’economia globale. Al contrario noi lo abbiamo proposto come sviluppo locale autosostenibile, coniugato quindi con il concetto di territorio nella sua accezione di soggetto vitale che riassume storia, cultura, sapere, risorse naturali ed umane. Un diverso approccio dunque che riprende le linee dell’ecosviluppo e che ha come approccio provvisorio la proposta del percorso verso un ‘Manifesto per lo sviluppo locale dei Balcani’, emerso dal seminario del maggio 2002 in Civitas a Padova. Si tratta di un percorso di ricerca-azione che intende far leva sulla valorizzazione delle risorse del territorio e sugli attori locali, con il duplice obiettivo di sostenere esperienze di autogoverno locale delle risorse e di dar vita ad un Forum permanente interbalcanico incentrato proprio su questo concetto.

La quarta traccia di lavoro investe il tema cruciale della elaborazione del conflitto, ed ha preso il via dal convegno di Rovereto del dicembre 2002. Si tratta di quella ricerca e di quelle pratiche che si pongono il problema di indagare dentro i conflitti, allo scopo di farli evolvere in forme nonviolente; in altre parole di scavare nella percezione individuale e collettiva delle vicende che portano alla degenerazione dei conflitti e alla guerra. Ed è il dibattito che qui vorremmo riassumere.

Elaborare il conflitto: oltre il pacifismo di bandiera

Ragionare sull’elaborazione dei conflitti quando forti soffiano i venti di guerra può apparire uno sfizio intellettualistico, una nicchia di pensiero laddove la terza guerra del Golfo genera profonda inquietudine e chiama alla mobilitazione di massa per impedire questo nuovo crimine contro l’umanità. "A la guerre, comme à la guerre" si potrebbe dire, e non a caso qualcuno esplicitamente grida "guerra alla guerra", riconducendo a scontro antinomico, definitivo, irriducibile, mortale il conflitto contro l’altro assoluto. Dall’inizio degli anni ’90 la guerra è tornata prepotentemente al centro delle relazioni internazionali, nonostante un cinquantennio di sforzi per escludervela. Oggi, capi di stato delle principali democrazie occidentali, come George Bush junior e Tony Blair, non hanno pudore a minacciarla apertamente, e dopo l’11 settembre il mondo vive in una sorta di guerra permanente insieme mediatica e reale.

Davanti ad un simile scenario non basta più il pacifismo di bandiera. Certo è importante continuare ad invocare il rispetto del diritto internazionale, e per l’Italia della Costituzione e del suo articolo 11, ma è necessario contemporaneamente interrogarsi ed agire sulla violenza globale e locale. In una parola, ‘abitare i conflitti’. E’ questa la sfida del nuovo movimento per la pace, quella di coniugare l’idealità dei valori con la concretezza dell’intervento sul campo, del mettersi in mezzo là dove le contraddizioni dei conflitti acuti sono più aspre. Perché è dall’interno, dal ‘cuore di tenebra’ della violenza dispiegata che si possono superare gli schematismi semplicistici (quante volte li abbiamo visti adoperati anche dai cosiddetti grandi commentatori!) del bianco e del nero, del buono e del cattivo, del con noi o contro di noi. Si scoprono invece le infinite tonalità di grigi, le voci di chi di solito non viene ascoltato, le storie delle vittime diventate carnefici, e dei carnefici diventati vittime. E s’impara così a costruire la pace, oltre che a declamarla.

Qui però sta il difficile, perché agire mentre tutt’attorno imperversa la violenza, o dopo che essa ha lasciato la sua scia di morte, è impresa delicata. Come si può affrontare un processo di riconciliazione quando, come nei Balcani, migliaia di persone hanno vissuto l’esperienza dei campi di concentramento? Come si può parlare di futuro quando ancora non sono stati trovati tutti i cadaveri delle persone uccise, e quando molti criminali sono tuttora in libertà? Dubbi che pesano come macigni, eppure rischiano di pesare ancora di più i ricordi di tali tragedie se nulla interviene a fissarli, a renderli oggettivi ed insieme ad avviarne una pur lenta elaborazione di tipo collettivo. I fantasmi del passato purtroppo non scompaiono da soli, e anzi, se lasciati a sé rischiano di costituire un materiale ideale per gli agitatori di domani. Così è accaduto proprio nei Balcani degli anni ’80 con i ricordi non elaborati della seconda guerra mondiale – ripresi, mitizzati e piegati al proprio uso dai diversi nazionalismi.

Storia e memoria nelle guerre balcaniche: strumento e non causa

Chiariamo subito: noi non pensiamo alle ragioni storiche del passato come causa diretta delle guerre recenti nel sud est Europa. Non pensiamo all’esistenza di presunti odi secolari, ad una barbarie congenita ai popoli balcanici, che dopo i decenni titoisti sarebbero riesplosi inevitabilmente. In molti hanno raccontato di come a Sarajevo e nelle altre città della Bosnia non si volesse credere ad una guerra imminente, neppure quando questa era già scoppiata nella vicina Croazia… E del resto, sulle ragioni profonde di quanto accaduto – politiche e non certo ‘etniche’ – hanno scritto a sufficienza in Italia autori come Stefano Bianchini, Paolo Rumiz o Nicole Janigro. Quella ‘etnica’ anzi è stata ed è tuttora una gabbia interpretativa deleteria che annacqua, nei Balcani come in Africa, le ragioni reali dei conflitti, ascrivendoli ad una sorta di carattere genetico dei popoli.

Eppure la storia è entrata pesantemente in queste vicende, se non come causa, certo come strumento della violenza. La storia cioè è stata usata, debitamente manipolata, per giustificare e legittimare le divisioni su base nazionale, funzionali in realtà ai soli gruppi al potere. Si pensi così all’uso distorto dei media di massa e delle memorie del passato, alla revisione dei programmi scolastici, alle rievocazioni storico-religiose che nella seconda metà degli anni ’80 attraversano tutta l’allora Jugoslavia, creando le basi culturali di ciò che poi sarebbe successo. Tutte azioni che rispondevano a precisi intenti dei gruppi nazionalisti, che proprio in quegli anni si appropriavano del potere nelle diverse repubbliche.

E anche gli ‘odi etnici’, le rappresentazioni cioè violentemente negative dei gruppi nazionali diversi dal proprio, se non sono la causa sono però un effetto degli scontri sul campo. La potenza significante del sangue e della morte, in un contesto in cui l’unica interpretazione pubblica offerta è quella dello scontro ‘etnico’, li rende quasi auto-evidenti. Non dunque gli odi che generano violenza, ma viceversa la violenza che genera odio e distanza.

Quale elaborazione per quali conflitti? La natura delle nuove guerre

Dobbiamo chiederci se nei Balcani – e in generale in quelle che ormai comunemente si definiscono le nuove guerre – il conflitto è derivato da un’esplosione di violenza dovuta alla rottura della comunicazione fra culture diverse, all’avidità di qualche dittatore, a valori e mentalità sbagliate, oppure se esso è il risultato di un mutato rapporto fra cittadini e potere, per affermare forme statuali ed economiche più idonee per vivere ai margini della globalizzazione. Nel primo caso avremo bisogno di strumenti di riconciliazione basati sulla mediazione culturale e sull’interposizione fra le parti, al fine di fornire ad entrambe gli strumenti culturali ed i valori affinché non si facciano più la guerra; nel secondo avremo bisogno di strumenti essenzialmente politici, volti a dare il giusto valore agli interessi sociali e a far partecipare le persone perché possano decidere del proprio futuro e discutere del proprio passato.

Noi sosteniamo la seconda ipotesi, e dunque che il conflitto non è il prodotto della vittoria del male sul bene come non lo sono la guerra, la pulizia etnica, i campi di concentramento, l’esilio. Sono, al contrario, il prodotto di un insieme di fattori che chiamano in causa il contesto internazionale, le dinamiche sociali, le vicende storiche, le psicologie sociali. Ridurre questa complessità ad uno solo di tali aspetti rischia di essere fuorviante. Come ci ricorda Mark Duffield "…la risoluzione dei conflitti da parte delle ONG internazionali e locali è pesantemente influenzata dalla psicologia. … Da questa prospettiva il conflitto è visto – unicamente, aggiungiamo noi – come una rottura della comunicazione fra gli individui e fra i gruppi. In un periodo di tensione, l’incomprensione si sviluppa e porterebbe gli uni contro gli altri finché non si raggiunge il punto di rottura … La logica di vedere la violenza politica come una rottura della comunicazione fra individui e gruppi fa sì che la pulizia etnica e la guerra diventino una forma di errore, qualcosa che è iniziato a causa di una serie di incomprensioni che sono state lasciate sfuggire di mano. Questo approccio ignora il problema dell’economia di guerra e della razionalità del conflitto e, inoltre, che i progetti nazionalisti primordiali dei vari stati che si erano venuti creando erano stati orchestrati e preparati con largo anticipo dalle élite politiche e intellettuali".

È altresì vero che le dittature, i nazionalismi e finanche le ‘nuove’ teorie di difesa dei propri interessi, ovunque questi si manifestino, hanno avuto basi di massa, usando a questo scopo le categorie del bene e del male, quali leve di mobilitazione ideologica. Accanto dunque agli interessi razionali di pochi, vi sono da considerare le ideologie con cui questi interessi sono stati ammantati. L’ampia mobilitazione verso la guerra che è stata ottenuta nel contesto balcanico, per quanto indotta e non ‘immanente’ alla cultura locale, è stata una condizione necessaria per il realizzarsi dei grandi profitti di guerra. Si sono uniti dunque interessi materiali e costruzione del consenso, potere e ideologia.

Non va dimenticato inoltre che la degenerazione violenta dei conflitti affonda le proprie radici anche nei ‘normaliì comportamenti quotidiani, nell’indifferenza, nei privilegi, nell’insostenibilità di modelli di sviluppo escludenti… e fors’anche nella natura umana. Il che significa indagare la forma stessa delle nostre società, delle logiche di dominio e di profitto che le pervadono; la ‘banalità del male’ e la guerra come prodotto di pulsioni ‘normali’ di donne ma soprattutto di uomini nella loro normalità; riconoscere l’antropologia della guerra senza nasconderci che "la guerra è festa della comunità finalmente unita nel più intimo dei vincoli" (Stanislao Zuleta), e neppure quella "felicità dei campi di concentramento" di cui ci parla Imre Kertesz nel suo ‘Essere senza destino’.

L’approccio che abbiamo inteso proporre parte invece da una lettura non unilaterale e non manichea del conflitto, si propone di indagarne a fondo la natura e la capacità di presa sulle coscienze dei popoli come degli individui, affrontando senza reticenze il tema della colpa nelle sue implicazioni (per usare lo schema propostoci mezzo secolo fa da Karl Jaspers) criminali, politiche, morali e metafisiche. Di conseguenza per ‘elaborazione del conflitto’ non intendiamo l’impegno a fermare una guerra – che è altra cosa, quand’anche importantissima – bensì quel bisogno di stare dentro i conflitti per prevenirne la degenerazione. Un approccio diverso al conflitto, alla sua umanizzazione e riducibilità, alla ricerca di vie d’uscita in grado di evitare la scomparsa o l’annichilimento di uno dei contendenti.

Storia, memoria, violenza: il percorso del Convegno

Su violenza, memoria storica e sulla loro elaborazione collettiva abbiamo inteso incentrare la discussione nei due giorni di convegno del 5 e 6 dicembre 2002 a Rovereto. Per farlo, abbiamo scelto di toccare anche altri contesti geografici oltre ai Balcani. Abbiamo affrontato così l’esperienza sudafricana, con le difficoltà e le contraddizioni del nuovo corso democratico del paese, ma anche con la grande speranza che ha ingenerato. Pur non uscendo da una vera guerra, la sua transizione era complessa e rischiosa, eppure ha saputo tenere insieme il rigore nel mutare rotta in modo sostanziale con la clemenza del farlo senza ‘tagliare le teste’ degli oppressori. Un’esperienza positiva, dunque, che si basa sullo stimolo interessante della Commissione per la verità e la riconciliazione. Non si tratta però – hanno detto in diversi – di prendere la Commissione come modello tout court, ma di considerarla uno stimolo per impostare transizioni sostenibili che siano adatte ad ogni caso specifico.

Viceversa il contesto mediorientale ha mostrato come non affrontare con coraggio i nodi del presente e del passato, rivedendo se necessario anche le proprie posizioni e richieste, blocca l’evoluzione dei conflitti e lascia spazio solo alla loro degenerazione violenta. In mezzo a questi due estremi si dibatte ancora l’esperienza dei Balcani, dove al silenzio pesante delle nuove istituzioni locali – spesso anche di quei politici ‘progressisti’ che hanno vinto le elezioni tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, in Bosnia Erzegovina come in Croazia e in Serbia – si contrappone una comunità internazionale che banalizza il tema della riconciliazione, scambiandolo per un insieme di tavole rotonde tra esponenti delle diverse nazionalità o di incontri tra gruppi giovanili ‘misti’.

Luoghi e percorsi diversi dunque, per parlare di un unico tema. Un tema – e ci teniamo a sottolinearlo – che non riguarda solo i nostri altrove, i luoghi vicini o lontani dei dopoguerra contemporanei. Riguarda infatti anche noi, la storia delle nostre comunità ed il rapporto col nostro passato: a Bolzano è bastato un referendum sul nome di una piazza per risvegliare un conflitto mai affrontato del tutto. A Trieste una partita di calcio, per giunta amichevole, tra Italia e Slovenia… e poi pensiamo al fascismo, alla resistenza e al rapporto tra Italia partigiana e Italia di Salò; oppure all’esodo spesso taciuto di istriani e dalmati, e altri esempi ancora si potrebbero fare. Qui e altrove dunque si uniscono in un’unica riflessione sulla violenza e il dopo violenza. Certo, alcuni fenomeni delle cosiddette ‘nuove guerre’ sono peculiari agli eventi bellici contemporanei, come l’uso legittimante della storia per coprire meri interessi politico-affaristici di pochi. Ma gli esiti traumatici ed il bisogno di ‘curare’ l’elaborazione di ciò che è stato sono comuni.

Ed è proprio sul tema della ‘cura’ che abbiamo voluto chiudere la discussione nella giornata di sabato, attraverso un confronto aperto tra operatori e volontari della cooperazione internazionale impegnati nei luoghi delle guerre balcaniche. Una cura che non intendiamo tanto e solo in termini individuali o psicologici – quasi che la guerra fosse un fatto vissuto ognuno per sé, una malattia da cui si può guarire – ma collettivi e di comunità. Capire e dirsi assieme ciò che è avvenuto durante quei terribili mesi o anni, scoprendo che assieme alla propria verità ce n’è un’altra parallela e spesso contraria, aiuta infatti a rendere oggettivo ciò che è stato. E soprattutto a svincolarsi dalle verità ufficiali, di partito o di ‘etnia’ che siano. Dà valore e dignità alle sofferenze di tutti, senza relativizzarle ma anzi assolutizzandole tutte.

Storia, memoria, violenza: i contributi emersi dal Convegno

Dal convegno sono emersi senz’altro utili spunti di lavoro, ed è difficile riassumerli per farne un quadro coerente in poche righe. Possiamo però identificare alcuni passaggi a nostro avviso importanti: anzitutto è stato affermato chiaramente come il conflitto non sia uno evento eccezionale, ma rappresenti un fenomeno costitutivo di ogni forma di legame sociale. Ugualmente, la banalizzazione dell’altro costituisce un cliché ricorrente, che rende necessario un lavoro di conoscenza e relazione permanente fra le parti sociali.

Tuttavia nelle nuove guerre il conflitto diventa un preciso progetto politico volto a cambiare lo stato ed il rapporto fra cittadini e potere, per affermare forme statuali ed economiche più idonee a vivere nella globalizzazione. Davanti a questo fenomeno, le strategie militari assegnano all’intervento umanitario, così come alla ricostruzione delle capacità, un ruolo crescente di omologazione e di controllo del territorio, andando spesso a legittimare le stesse leadership nazionalistiche che hanno fomentato la guerra. Così, oltre all’approccio emergenziale che caratterizza molti interventi internazionali, anche quei progetti che puntano ad andare oltre l’emergenza finiscono per oscillare fra i rischi dell’economicismo (il consenso al ritorno che si compra con i ‘balancing projects’…) e la riproduzione di modelli sociali e politici standardizzati.

E invece ci sarebbe uno straordinario bisogno di processi reali e profondi di riconciliazione, perché l’elaborazione del conflitto rappresenta la ‘parte mancante’ nelle dinamiche sociali delle società post belliche. Il tempo non cura le ferite, tutt’al più le anestetizza, per cui serve una specifica attenzione progettuale nell’ambito di percorsi e relazioni di lungo periodo, caratteristici della cooperazione fra comunità e territori piuttosto che della cooperazione tradizionale. Ciò segnerebbe anche un tratto distintivo di attive e responsabili politiche di pace, che sappiano affrontare anche i risvolti profondi delle guerre.

Di queste politiche al momento possiamo dare solo una cornice generale: dal convegno però è emerso chiaramente come debba esistere complementarietà fra riconciliazione ed esercizio dei diritti individuali e collettivi (e dunque della giustizia), ma come non ci siano regole e strumenti standardizzati per esercitare un approccio equilibrato fra politiche di ricostruzione della verità, forme di risarcimento e riconciliazione. Le commissioni sperimentate in Sudafrica sono una buona esperienza, ma non un modello tout court da replicare.

Infine, sul tema della giustizia, va registrato il dibattito tuttora aperto nella comunità degli studiosi e degli attivisti sul Tribunale Penale Internazionale. A chi lo presenta come il punto avanzato nel sistema dei diritti umani internazionalmente riconosciuti, vi è chi risponde presentando i limiti di una giustizia solo ‘esterna’ ed omologante, che non tiene conto delle diversità culturali e frena il dibattito storico interno ai singoli paesi sulle proprie colpe. Dal canto nostro possiamo dire che l’utilità del ricorso ad un organo internazionale, o viceversa alle istituzioni della giustizia locale, è strettamente connessa alla natura di un determinato conflitto, ed in ogni caso l’aula di un tribunale (internazionale o nazionale che sia) non può in alcun caso sostituire le forme di un’elaborazione del conflitto, che deve porsi l’obiettivo di investire l’insieme della comunità presente in un territorio.

Un percorso ancora aperto

La partecipazione e l’attenzione con cui sono stati seguiti i lavori del convegno ci pongono l’interrogativo di come dare continuità alla riflessione avviata. Abbiamo così ipotizzato alcune linee di attenzione per il prossimo futuro, che riguardano un monitoraggio attento su come si sviluppa questo dibattito nei diversi paesi dell’area balcanica e sulle attività delle Commissioni (nazionali) per la verità e la riconciliazione; una ricognizione delle esperienze sul territorio balcanico di elaborazione del conflitto, e una loro messa in rete; un’eventuale ricerca attorno ad un progetto pilota di particolare interesse.

Oltre a ciò, ci impegniamo a dare la massima diffusione dei materiali prodotti in preparazione e come esito del convegno, ed a sollecitare un’attenzione specifica sui temi dell’elaborazione del conflitto e della riconciliazione a tutti gli operatori italiani che operano nell’area balcanica. Non solo ONG e associazionismo, ma anche le istituzioni governative e internazionali debbono porsi il problema, andando a proporre iniziative e progetti in quest’area, del conflitto che vi è degenerato. Troppi interventi internazionali finora o non si sono minimamente posti il problema del conflitto, oppure lo hanno trattato in maniera asettica, fredda, come l’esito di una barbarie culturale che si supererà con il ‘progresso’. Il conflitto invece è una cosa calda, caldissima. Avvicinarlo può forse scottare le mani, ma è anche un’occasione unica per ridare forza ad istanze sociali che la guerra ha appiattito. A letture, a voci diverse sulla violenza che c’è stata e sulla società che con la guerra si è costituita. In una parola, alla capacità di ‘abitare il conflitto’.

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