Sulle tracce di Mussa Khan

Mesi, anni, sempre in movimento. Respinti, invisibili, ai margini. E’ questo il destino dei muhajirin afgani, alla tenace ricerca del sogno chiamato "Europa". Da oggi, con le puntate del blog "Mussa Khan", raccontiamo la loro odissea, attraverso Turchia, Grecia e Italia, fino alla stazione Ostiense di Roma

27/08/2010, Paolo Martino - Van

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Van, verso il confine con l'Iran - johncumbers/flickr

“Qui siamo in Kurdistan, non in Turchia”. Taha è di un’efficacia estrema, dal profondo dei suoi occhi di carbone. Dopo tre settimane di continui passaggi di frontiere e salti linguistici, appena arrivato a Van, in Turchia orientale, sbaglio la parola più semplice: “grazie”. “No problem”, mi rassicura Taha con un sorriso. Poi mi mette svelto la mano sotto il braccio e proseguiamo verso il centro, un labirinto di vicoli ingombrato da tavolinetti e sgabelli per il rito del tè.

Ad aspettarci c’è Shahin, che per i prossimi tre o quattro giorni mi farà da interprete. Appena diplomato, camicia a righe e mocassini neri, non ispira grande fiducia con la sua voce tremula. Il suo nome è frutto della ricerca tenace di Taha, conosciuto solo un’ora prima in autobus, che ha telefonato almeno a una dozzina di persone.

Dopo le presentazioni, una tazza di tè e una lustrata di scarpe, ci mettiamo subito al lavoro. Mussa Khan sarà presto da queste parti, e prima che arrivi voglio avere un quadro della situazione dei rifugiati afghani a Van, centro abitato di riferimento per chi arriva dall’Iran.

Shahin si dimostra in fretta una guida efficace, oltre che un buon interprete. Si infila con sicurezza nelle vie laterali, formicai umani abbacinanti di colori, si smarca dai mercanti che sbucano dappertutto, mi tiene per mano tra una buca e l’altra e piomba diretto sulla prima meta della giornata: IHD, Associazione turca per i diritti umani, al quinto piano di un edificio anonimo su Cumhuriya Caddesi, Viale della Repubblica. Nell’ufficio incontro Maria, avvocato dell’Helsinki Citizenship Assembly, unica organizzazione di Van impegnata nella consulenza legale ai richiedenti asilo.

L’intervista dura meno di mezz’ora, la breve pausa tra due udienze. Tra i loro clienti soprattutto cittadini afghani. “Nei due anni passati il numero è cresciuto esponenzialmente” spiega Maria. “Dalla fine di marzo a oggi abbiamo avuto 91 casi di afghani. In alcuni periodi, bussano alla nostra porta 2 o 3 afghani al giorno”. Questo fenomeno “non è dovuto tanto alla crescita del numero dei migranti, quanto alle misure sempre più restrittive dell’Europa nei confronti dei richiedenti asilo, specialmente afghani, che tentano l’ingresso nel Vecchio continente”. La conseguenza è una imponente ondata di riflusso che arriva fino a Van.

Nonostante la fretta, sono soddisfatto: scopro che gli afghani, dai 1200 ai 1500 in città, vivono concentrati in un paio di quartieri periferici. Mussa Khan sarà sicuramente a conoscenza della situazione, informato dal passaparola o dalle stesse guide che scortano lui ed il suo gruppo sulle montagne tra Iran e Turchia. Non ho notizie di Mussa Khan da quando ha lasciato Tabriz, tre giorni fa. Una breve email diretta a Asif, suo cugino arrivato in Italia 4 anni fa, diceva solo: “La guida dice che partiamo stanotte. Andrà tutto bene. Hoda hafez Asif”.

Non sarà una passeggiata ritrovarlo quaggiù. Devo sperare che si farà presto vivo per email o via sms con una scheda turca, una volta passato il confine. Dalle sim card iraniane, infatti, non partono quasi mai sms diretti all’estero, specialmente dopo la Rivoluzione verde di un anno fa. E finchè sarà sui monti dell’Hakkari non potrà certo connettersi a internet.

Comunque le probabilità che faccia sosta a Van sono alte: qui si fa sosta la maggior parte dei self sustained, i ragazzi che come Mussa Khan si muovono per tappe, città dopo città, senza un piano prestabilito, fino a cercare l’insperata sponda europea. Bisognerà buttare la voce nei posti giusti e aspettare.

Il sole a picco non fa paura: siamo a 2000 metri, sulle sponde del lago più grande della Turchia, il clima è mite. Chiedo a Shahin di seguirmi fino alla sede dell’ UNHCR, agenzia dell’Onu per i rifugiati, fuori città. Voglio sapere se i migranti, in arrivo a Van dopo l’impegnativa traversata a piedi della frontiera turco-iraniana, si rivolgono all’ Onu per chiedere protezione.

Da fuori la sede sembra una fortezza: muro di cinta, rotoli di filo spinato, piastre metalliche ai cancelli, sicurezza privata. Una donna afghana bussa a lungo al portone, che nessuno viene ad aprire. Ritenterò la prossima settimana.

Torniamo in città per una porzione di burek, pasta sfoglia croccante immersa nel formaggio, e un ayran, latte acido salato, bevanda diffusa quanto il tè. Chiedo a Shahin quanto sappia della questione del transito dei migranti a Van. Si limita a fare no eloquente con la testa.

Mi piace la natura sincera di questo ragazzo. Indicando la base militare che domina la città, su cui campeggia la scritta “Sono felice di essere turco”, mi racconta che dieci anni fa su queste strade passavano continuamente mezzi corazzati e si parlava solo di attentati, resistenza e rappresaglie. E prima di propormi la prossima destinazione conclude: vivere con la guerra in casa è disumano.

Così, con la velocità di un fulmine, la mia mente corre a Mussa Khan: dove sei afghano ribelle? Non ti aveva detto tuo cugino di aspettare tempi migliori per venire in Europa? Che adesso le speranze di farcela sono troppo poche e che il prezzo da pagare è troppo alto? Che uno come te, che parla farsi e inglese e sa fare il suo mestiere, può farcela anche in Iran?

Domani verrò a cercarti a Yuksekova, sulle montagne al confine con l’Iran: se sei passato dal valico di Urumiya, sicuramente sei diretto li.

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