La Turchia di Erdoğan in un romanzo italiano
“Gli ospiti”, romanzo di Marco Magini per i tipi di Solferino, è ambientato a Istanbul, nella Turchia odierna, raccontata brillantemente attraverso una storia d’amore tra un ragazzo italiano e una ragazza turca
Il termine “democratura” fu inventato dallo scrittore croato, di origine bosniaca, Predrag Matvejević, per indicare quei paesi di formale democrazia ma, in realtà, sorretti da regimi autoritari che manipolano i voti degli elettori, soffocando l’opposizione, così come la stampa non allineata al potere. Oligarchie che hanno il controllo di tutte le leve dello stato, magistratura compresa, polizia, servizi segreti, burocrazia e pubblica amministrazione. Matvejević lo aveva creato riferendosi alla Croazia, nata dalla dissoluzione della ex Jugoslavia e dominata, per quei primi anni di indipendenza, dal presidente Franjo Tuđman, il cui nazionalismo costrinse, appunto, uomini dell’opposizione come lo stesso Predrag Matvejević a riparare all’estero, prima in Francia, poi in Italia.
Ma ce ne sono, eccome!, di altre “democrature”. Una di queste è la Russia di Putin, oppure il Venezuela di Maduro, oppure ancora la Turchia di Erdoğan e altre ancora.
Ma è in particolare all’ultima che mi voglio riferire in ragione del bel romanzo del trentasettenne Marco Magini “Gli ospiti”, uscito in libreria da qualche settimana per i tipi di Solferino, e ambientato a Istanbul, nella Turchia odierna, raccontata brillantemente, a mo’ di metafora, attraverso una storia d’amore tra un ragazzo italiano e una ragazza turca.
Magini si era già distinto in passato con il romanzo d’esordio “Come fossi solo”, edito da Giunti, un libro che parlava della guerra nella ex Jugoslavia, con riferimento in particolare al massacro di Srebrenica e che è stato anche finalista nel 2014 al Premio Strega. Ora, con “Gli ospiti”, conferma la sua mentalità cosmopolita, sollecitata in questo caso dalle proteste che scoppiarono nel 2013 contro il governo di Recep Tayyp Erdoğan per il Gezi Park, i cui alberi, unico polmone verde della metropoli, dovevano essere abbattuti per far posto a un Centro commerciale.
L’approccio al tema è molto interessante, anche per il taglio abilmente autobiografico, con l’uso della prima persona che ci restituisce il senso di una storia vera, vissuta, resa autentica dall’affacciarsi del protagonista, un giovane manager di origine italiana di un’azienda che si occupa di ambiente, che da Londra, dove si trova e lavora – com’è per lo stesso Magini – si trasferisce per amore a Istanbul per svolgere, più o meno, lo stesso lavoro.
Motore del trasferimento è una ragazza turca, İpek, con la quale è fidanzato. E l’inizio della storia è in qualche modo propedeutico a ciò che capiterà dopo, nel senso che, arrivando a Istanbul, il protagonista resta affascinato dalla città, che scopre viva, moderna, in continua trasformazione, ma nello stesso tempo esotica per i tanti aspetti e modi di vivere che lo riportano alle fiabe di Mille e una notte, nel suo caso, come scrive “una favola che ascoltavo sapendo che non ne avrei fatto parte”. İpek, invece, seppur laureata in economia ed educata a Londra, grazie alla sua passione per la cucina, si trova a fare la cuoca in un ristorante di classe, alla corte di Kutay, uno chef, dal quale voleva apprendere i grandi piatti della tradizione turca e dove è duramente impegnata per molte ore. Al contrario del protagonista, İpek vive il suo paese in maniera diversa, soprattutto avvertendo sulla propria pelle il peso delle leggi di Erdoğan, che un po’ alla volta, via via restringono le libertà laiche e liberali affossandolo in una dimensione integralista e poliziesca. Qualcosa di cui il ragazzo italiano non ha piena percezione, giudicando l’introduzione delle leggi liberticide, da lui ritenuta omeopatica, niente più che un espediente per far contenta la grande, arretrata provincia contadina e pastorale turca dell’est che è la fonte del consenso di Erdoğan stesso.
È interessante, a riguardo, l’analisi che emerge, da un punto di vista narrativo, con gli stranieri, i cosiddetti “expat” che hanno casa a Istanbul nel quartiere di Cihangir, dove vivono come fossero a Londra, New York o Parigi. Ed è un po’ questa l’accusa che İpek fa al suo fidanzato, accorgendosi di quanto sia cieco di fronte alla sue preoccupazioni sulla politica di Erdoğan.
Il distacco tra i due si allarga quando il protagonista annuncia che i suoi genitori, dall’Italia, verranno a trovarlo. Alla timida domanda di İpek se, essendo lei il suo amore, la presenterà finalmente ai genitori, la risposta è negativa. Il che spinge la ragazza a rinfacciargli i pregiudizi che anche lui, che dice di amarla, ha come tutti gli altri occidentali nei confronti dei turchi. Magini, con pochi tratti, riesce a raccontare una frattura che non riguarda solo lui e la sua ragazza, bensì, più in generale due mondi, due civiltà. E lo fa senza tirate teoriche, quanto, invece, di rappresentazioni mentali che ciascuno di noi si porta dietro. “Il mio era un pregiudizio preventivo, una censura del pensiero”. Capisce di averla offesa, lei turca kemalista, laica, che non portava il velo: “L’Islam erano i barbuti, i t[]isti, una religione radioattiva che inquina quello che le sta vicino. Tutti ne sapevano poco ma non per questo si astengono dal parlarne”.
È un momento topico questo della storia che l’autore ben risolve da un punto di vista narrativo con lo spunto di introdurre l’autore, grazie all’amicizia del giovane con un suo collega turco Hüseyn, in un contesto più profondo della società e della storia turca. Hüseyn, infatti, appartiene alla minoranza turca della Bulgaria, che la dittatura comunista aveva represso costringendo con la violenza i suoi componenti a bulgarizzare i nomi e cognomi turchi, tanto da essere costretto a riparare con la famiglia in Turchia. In compagnia di Hüseyn, il protagonista si troverà così in mezzo a un paio di manifestazioni, una calcistica, tra tifoserie, e, quindi, quella, lunga e travagliata, costata 11 morti e 8.163 feriti, avvenuta a Gezi Park. Entrambe situazioni che lo metteranno a dura prova, tanto da perdere l’innocenza che fino ad allora lo aveva sorretto, per trovarsi a fianco di İpek e dell’amico Hüseyn nelle proteste contro l’autocrate turco, con risvolti nella loro storia che, pur di fronte alla condivisione dell’ingiustizia e delle violenze subite, li porterà necessariamente a fare i conti con le reciproche culture di provenienza. Una storia, questa di Marco Magini, che ha il tocco, molto delicato, di una metafora che ben rappresenta, e in maniera per altro avvincente, la distanza tra due mondi.