Giornalismo di guerra

Lo scorso primo luglio in Serbia un’associazione indipendente di giornalisti ha denunciato presso il tribunale speciale per i crimini di guerra alcuni tra i più importanti media serbi per aver incitato all’odio etnico. Il dibattito

28/07/2009, Lucia Manzotti - Belgrado

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(RubyGoes/Flickr)

"Sono anni che parliamo di responsabilità dei giornalisti nella guerra degli anni novanta. Ci chiedono in tanti come mai ora abbiamo presentato questa denuncia al tribunale per i crimini di guerra: la risposta è che i crimini di guerra non vanno in prescrizione". Svetozar Raković è il segretario generale di NUNS, l’associazione indipendente dei giornalisti che ha denunciato presso il tribunale speciale per i crimini di guerra il primo luglio scorso, alcuni tra i più importanti media serbi per aver incitato all’odio etnico.

NUNS (Nezavisno Udruženije Novinara Srbije) del resto nacque nel 1994 come contraltare all’associazione ufficiale UNS (Udruženije Novinara Srbije) controllata da Milosević. La denuncia arriva a poche settimane di distanza dall’annuncio del portavoce della Procura Speciale per i Crimini di guerra Bruno Vekarić dell’apertura di indagini contro giornalisti che potrebbero aver incitato ed incoraggiato crimini commessi nelle guerre degli anni novanta.

Le due azioni a poca distanza l’una dall’altra hanno scatenato in Serbia un ampio dibattito sul ruolo dei giornalismo nel creare l’atmosfera di odio contro le altre nazioni della repubblica . "Noi pensiamo che le responsabilità siano grandi e portiamo avanti questa azione anche perché non è possibile che chi ha avuto certi ruoli si senta sicuro e intoccabile". I media su cui l’associazione dei giornalisti punta il dito sono RTS, RTV Vojvodina, Večernije Novosti e Politika, molti dei giornalisti più agguerriti all’epoca della guerra continuano ad avere credito e a scrivere.

Il caso più citato in questi giorni è quello della notizia riportata da Vjekoslav Radović, corrispondente della Reuter che diffuse la notizia di 41 bambini serbi dai 4 agli 8 anni uccisi in una scuola a Borovo Selo in Croazia "da croati assetati di sangue". RTS su questa notizia mette in onda ore e ore di programma nonostante non ci siano conferme del fatto e i corpi ripresi dalle telecamere sono evidentemente di adulti. La tv di stato trova comunque molti testimoni che possono raccontare il presunto massacro, addirittura un croato che "confessa" e descrive come ha tagliato la gola ai bambini. Anche la copertura degli altri mezzi di informazione è potente.

Il giorno dopo l’JNA, l’esercito jugoslavo, smentirà la notizia, seguito a poca distanza dall’agenzia di stampa inglese. Dopo qualche tempo i testimoni di RTS ritrattano e la Reuters licenzia Radović, ma il danno è fatto: uno degli imputati del processo per l’uccisione di 200 prigionieri croati ad Ovcara dirà "Ho visto il programma alla tv e sono andato a dare ai croati quello che si meritavano". Radović diventerà corrispondente da New York per la Tanjug e oggi è un columnist del quotidiano Glas Javnosti.

Ma i giornalisti possono essere ritenuti criminali di guerra? "E’ molto difficile rispondere a questa domanda – continua Raković – perché bisogna trovare un nesso preciso tra la diffusione di certe notizie, le modalità con cui sono state diffuse e determinati atti criminali. Noi crediamo che in certi casi sia possibile". Da dove nasceva la propaganda? "Non penso che fosse un’iniziativa dei giornalisti quella di spargere odio contro i croati e i musulmani; esisteva un sistema ben pianificato di propaganda. Non bisogna dimenticare che i capi redattori e i direttori nella maggior parte dei casi erano membri del Partito Socialista di Milosević, quindi erano parte del regime".

Contro la denuncia si è espressa Liljana Smajlović, ex direttore di Politika, politicamente vicina a Koštunica e da pochi mesi presidente di UNS, l’associazione nazionale dei giornalisti. La Smajlović ha spiegato ai media che nessun giudice può decidere la qualità dell’informazione e ha ricordato che 8 membri di UNS sono stati espulsi per aver partecipato alla creazione di una macchina di propaganda negli anni novanta.

"Una buona iniziativa, ma tardiva e incompleta", dice Boško Jakšić analista di Politika "perché da una parte mancano i nomi più importanti di direttori ed editori dell’epoca, dall’altra non si parla di altri settori che hanno guadagnato dalla guerra e che sono ancora al loro posto se non più potenti, come certi tycoons che sotto Milosević hanno tirato su un impero".

Cosa succedeva negli anni novanta nelle redazioni? "La mia redazione venne chiusa – racconta Seška Stanojlović redattrice esteri di Vreme – Lavoravo per il Vijesnik, uno dei principali quotidiani croati. La redazione di Belgrado era una delle più grosse e vennero mandati tutti a casa, un po’ per motivi "nazionali", ma anche perché quando iniziò la guerra le comunicazioni con Zagabria divennero impossibili". Seška ha iniziato quindi a fare la corrispondente e ad aiutare i giornalisti stranieri, dal Washington post al Chicago Tribune. "Sono stata a Sarajevo e in Croazia durante la guerra ed ho potuto avere una visione veramente completa della guerra". E come era il rapporto con i colleghi ? "Molte amicizie si sono rotte, altre sono diventate più forti. Divenne un test per i giornalisti come esseri umani – continua la Stanojlović- D’altronde fu anche un periodo molto interessante perché nascevano nuovi media che non si volevano conformare alla propaganda. Lo stesso Vreme, nato nel 1990, aveva questa impronta". Nacque in quel periodo anche BETA, fatta dai fuoriusciti dell’agenzia di stampa Tanjug ed anche Blic e Danas furono fondati da giornalisti non allineati; sempre di quegli anni è l’esperienza di Naša Borba, aperta dai dissidenti di Borba quando il quotidiano venne ‘conquistato’ da Milosević.

Dragan Petrović, corrispondente di Ansa Balcani e voce nota di Radio Popolare lavorava per RTS. "Tutti noi ci ricordiamo bene come era allora l’informazione: c’era Mila Štula che era la conduttrice del principale telegiornale di RTS delle 7.30 che presentava le notizie in divisa o Milijana Baletić che per RT Vojvodina faceva dei reportage dal fronte con la Croazia che creavano rabbia e frustrazione. Io mi occupavo di esteri per RTS, ma davo comunque fastidio. Quando mi chiesero di fare un servizio sulla rinascita del neonazismo in Europa io partii dalle bancarelle del partito radicale in Terazije e il mio capo mi disse di lasciar perdere. Poi un collega mi filmò mentre partecipavo ad una manifestazione pacifista e fui buttato fuori". "I giornalisti hanno delle responsabilità sicuramente. Mi ricordo mia madre ad esempio che mi chiedeva ‘Dragan ma chi bombarda Sarajevo?’, guardando RTS e leggendo Politika lei non riusciva a capire chi bombardava Sarajevo".

All’epoca i mezzi di informazione era utilizzati ovviamente anche contro il nemico interno. "Uno dei peggiori era Politika Express – continua Petrović – faceva l’elenco dei giornalisti traditori, ad esempio mia moglie che fuoriuscì da Tanjug per lavorare a Beta, e i giornalisti al soldo dello straniero, come me che ero diventato corrispondente Ansa".

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