Nagorno Karabakh: una pace possibile
Dopo la guerra del 2020 tra Azerbaijan e Armenia per il controllo del Nagorno Karabakh ci sono finalmente spiragli di pace. Ancora molto però resta da fare, compreso il non semplice sminamento di vaste aree un tempo abitate
Gli orrori della guerra in corso in Ucraina hanno fatto rapidamente dimenticare all’opinione pubblica europea quelli della guerra precedente. Eppure è trascorso solo un anno e mezzo dal conflitto che per 44 giorni ha insanguinato le montagne del Caucaso meridionale dove l’esercito armeno e quello azero si sono scontrati in accaniti combattimenti che hanno lasciato sul campo quasi 7000 vittime. Oggetto del contendere era il Nagorno Karabakh, una regione abitata in larga parte da una popolazione di etnia armena che in base al diritto internazionale appartiene all’Azerbaijan.
L’accordo di cessate il fuoco del 1994 aveva messo fine alla prima guerra fra i due paesi garantendo di fatto l’indipendenza della piccola regione, grande quanto l’Umbria. Con questo accordo gli armeni avevano mantenuto il controllo anche delle sette province che circondano il territorio dell’Alto Karabakh. Il conflitto dell’ottobre del 2020 ha ribaltato la situazione. Oggi il governo di Baku ha ripreso possesso delle provincie occupate mentre un contingente militare russo presidia il Nagorno Karabakh a protezione della comunità armena. Lo status della regione, però, rimane sospeso. È una delle tante questioni che le due parti devono negoziare per giungere a un trattato di pace complessivo.
Nei giorni scorsi sono stato invitato a Baku per partecipare a una tavola rotonda sugli sviluppi nel Caucaso meridionale durante il periodo post-bellico. Nel corso della mia trasferta ho anche avuto l’opportunità di visitare le zone dei combattimenti. Pensavo di avere maturato una discreta esperienza sul terreno dei conflitti che hanno lacerato il vecchio continente negli ultimi trent’anni, dalle guerre balcaniche a quelle dello spazio post-sovietico compreso quello del Donbass. Confesso, però, di non avere mai visto nulla di simile a quello che mi sono trovato di fronte nelle province tornate sotto il controllo dell’Azerbaijan.
Per difendere l’Alto Karabakh creando una cintura di sicurezza le forze armene hanno raso al suolo tutto quello che ritenevano potesse intralciare le operazioni militari. Sono stati, così, interamente distrutte nove città che contavano parecchie migliaia di abitanti e ben 900 villaggi. I cittadini di Agdam, per esempio, erano circa 28.000. La città, capoluogo dell’omonimo distretto, fino al 1993 era un fiorente centro di una zona agricola dove la vite era la principale coltivazione. Oggi non restano che i pali di sostegno dei filari a testimoniare sulla terra bruciata una civiltà cancellata dalla violenza brutale e primitiva della guerra.
Camminare nel silenzio tra le macerie delle case dove spuntano infestanti cespugli di fico e robinia mette i brividi nonostante il caldo sole di giugno. Anche gli alberi non hanno avuto scampo. Sono circa 50.000 gli ettari di terra completamente disboscati per favorire la visibilità degli occupanti in caso di attacco.
Le autorità azere denunciano quello che considerano allo stesso tempo un urbicidio e un ecocidio. Il corso dei fiumi e dei torrenti è stato deviato, i canali svuotati. I solchi delle trincee tagliano impietosamente il suolo a fette. Quello che però più sconvolge è la quantità di mine antiuomo disseminate sul terreno. Il loro numero potrebbe arrivare al milione. Bonificare il territorio da tutti gli ordigni è una operazione immane che richiede decenni anche perché le mappe consegnate dagli armeni agli azeri risultano inaccurate. Dalla fine delle ostilità si contano già ventotto morti e quasi 200 feriti saltati in aria sui campi minati.
L’Azerbaijan è tra i paesi del mondo che, in rapporto alla propria popolazione, ospitano più rifugiati e sfollati interni, causati dal conflitto degli anni ’90. Furono allora circa 750.000 le persone costrette ad abbandonare le proprie case.
Continuano intanto i colloqui di pace fra il presidente azero Ilham Aliyev e il primo ministro armeno Nikol Pashinyan. Erano stati i russi a mediare il cessate il fuoco nel 2020 ma è l’Unione europea, messa sul banco degli imputati durante la guerra per mancanza di iniziativa diplomatica, che oggi sta facilitando il dialogo fra le due parti. Sono già tre gli incontri fra i due leader promossi dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel che hanno avuto luogo a Bruxelles, l’ultimo lo scorso 23 maggio.
Si registrano importanti aperture anche se rimangono ancora parecchi ostacoli da superare sul cammino dei negoziati a partire dalla demarcazione dei confini, la definizione dei corridoi di collegamento e, come detto in precedenza, lo status futuro del Nagorno Karabakh.
La pista europea e quella russa si muovono in parallelo ma per arrivare ad una soluzione Bruxelles e Mosca, che a causa della crisi ucraina non si parlano, dovranno trovare un punto di convergenza. La pace fra Armenia e Azerbaijan non è mai stata così vicina anche se manca ancora la spinta dal basso delle rispettive società civili e la preparazione adeguata di opinioni pubbliche bombardate per decenni da discorsi di odio contro l’altra parte e di bellicose dichiarazioni tonitruanti. Occorre un ultimo coraggioso sforzo.